Q uante volte, nello sport, si è abusato dell’espressione passaggio di testimone? Quante volte l’attesa non ha rispettato le aspettative? Stavolta, negli ottavi di Melbourne fra Roger Federer e Stefan Tsitsipas, c’è stato uno snodo storico. Il dio della racchetta, unico erede di Rod Laver, si è arreso al primo dio greco di questo sport (67/76/75/76 lo score), dopo il seme lasciato da Pete Sampras (di nascita e bandiera Usa) e le tracce amare di Mark Philippoussis (di immigrati in Australia).
Il campione ha fatto miracoli per rimediare ai 37 anni e ai relativi guasti fisici, improvvisi ed imprevedibili, ma non è risucito a contrastare il figlio di Apostolos baciato da troppe virtù: alto, atletico, potente, ricco di tocco e fantasia, col rovescio a una mano, e la facilità nei voli a rete che, coi suoi 20 anni, coi progressi di un anno solo e la gestione perfetta nel super-match di domenica, ha sprintato decisamente su Sascha Zverev nella corsa dei pretendenti al prossimo numero 1 del mondo del dopo Fab Four, Federer-Nadal-Djokovic-Murray.
Tsitsipas sapeva bene che si trovava davanti a un incrocio importante, denso di significati e di analogie col precedente passaggio di testimone fra Sampras e Federer, a Wimbledon 2001, sapeva di avere la medesima classifica del giovane Roger che bussava alla porta dei grandi (numero 15), di aver toccato entrambe solo gli ottavi Slam fino al momento dell’incrocio-chiave, di aver firmato appena un titolo Atp, e sempre sul veloce indoor (Milano, Roger, Stoccolma, Stepanos), e di essere diverso. Come un vero campione.
Diverso dagli altri under 21 delle Next Gen Atp finals alla Fiera di Rho (Milano). È diverso nell’aspetto, con quel naso importante, i capelli folti e lunghi da vacanza allo stato brado su una del spiagge della sua Grecia, barbetta, baffetti e pezzetto a incorniciare il visore e l’immancabile sorriso sardonico. È diverso nello stile. In campo, perché inventa sempre qualcosa per tirarsi fuori dai guai, vuoi con quel rovescio a una mano, vuoi con un guizzo e magari anche un tuffo a rete alla Bum Bum Becker.
E fuori dal campo, perché lo ricordiamo l’anno scorso alle prime NextGen Finals, mentre intervistava simpaticamente i colleghi per contro dell’Atp Tour, raccontando che aveva sognato di fare il giornalista e che amava tanto l’Italia, perché è una terra vicina per colori, cibo, gente, gusti e anche per tanti tornei di tennis che l’hanno accompagnato nella crescita. A 15 anni, ha giocato per il Ct Galatina (Lecce), aiutando la squadra a salire in A2, a 17, da noi ha vinto il trofeo Bonfiglio di Milano 2016 e il primo Challenger, a Genova nel 2017.
Non è diverso da tanti coetanei Vip, invece, nel ceppo russo, che gli viene da mamma Julia Apostoli, nata Salnikova, figlia di un calciatore dello Spartak Mosca, oro all’Olimpiade del ’56, e lei stessa tennista, numero 1 del mondo juniores e poi da pro 194 del mondo, per dedicarsi presto agli studi e incrociare, da giudice di linea al torneo di Atene, Apostolos Tsitsipas, che sposò. “Mi hanno messo la racchetta in mano a 3 anni, a 6 ho preso la prima lezione, a 9 mi sono svegliato di soprassalto nella notte, ho chiamato papà e gli ho annunciato che avevo deciso: “Nella vita voglio solo e soltanto diventare un tennista professionista, adoro la gara, adoro la sfida”.
Papà, che insegnava educazione fisica e giocava un po’ a tennis, si è concentrato sulla mia tecnica, rovescio a una mano e anticipo, mamma sulla disciplina. Non direi che è stata dura, ho visto genitori davvero duri, lei pretendeva che dessi il meglio: “Devi essere convinto che fai quello che ami”. Sono convinto che la disciplina fa la differenza rispetto a tanti altri che avrebbero potuto far bene ma non si impegnavano abbastanza. Significa anche accettare di viaggiare continuamente per confrontarsi con gli altri e tornare a casa pochissimo, nella Grecia che pure adoro. E’ facile amare la Grecia. Abbiamo la lingua più bella e ricca che permette di esprimersi così bene. Abbiamo i paesaggi, il mare, le spiagge, la storia. Abbiamo gente amichevole in ogni posto del paese”.
Diverso. Tsitsipas è diverso dai colleghi già nell’essere così diretto, nella loquacità, nella capacità di farsi voler bene dal pubblico, nell’hashtag che ha aperto prestissimo sui social, #TsitsiFast. Diverso, come quando, sempre sorridendo, racconta: “Nel 2015, giocavo un Futures a Heraklion, in Grecia, insieme a un paio di amici, mi tuffai in mare, senza curarmi del fatto che era agitato. La corrente mi spinse prestissimo lontano dalla riva, non riuscivo a riguadagnare terra e stavo perdendo le forze, ho pensato davvero che sarei potuto morire.
Fortuna che papà vide tutto, capì, si buttò in acqua, mi raggiunse, lottò per tenerci a galla contro le onde e la corrente, finché non raggiungemmo una roccia cui aggrapparci e metterci in salvo. Da lì, ho cambiato totalmente il mio modo di pensare, anche sul campo da tennis: niente mi fa paura, mi godo il momento fino in fondo, mi sento più forte di tutto”.
Diverso, Tsitsipas il greco è forse il vero erede della fantastica coppia Federer & Nadal. Col sangue di altri guerrieri greci del tennis, da Sampras a Philippoussis, a Kyrgios, a Kokkinakis, “Tsitsi” è stato numero 1 del mondo juniores, ed ha vinto il doppio a Wimbledon 2016 ma, in parallelo, ha giocato i tornei di seconda categoria Atp, aggiudicandosi 11 titoli Futures (5 di singolare e 6 di doppio) e appoggiandosi spesso alla Patrick Mouratoglou Academy.
L’anno scorso ha superato otto volte le qualificazioni entrando in tabellone anche a Wimbledon e Shanghai, e mettendosi in mostra per la estrema versatilità su tutte le superficie. Anche se la preferita resta l’erba. Ha superato Khachanov, ha superato soprattutto il primo “top ten”, Goffin, ed è entrato a 19 anni fra i primi 100 del mondo. Non abbastanza per qualificarsi fra i primi 7 under 21 delle NextGen Finals, cui ha diritto anche il miglior italiano di categoria.
Ma quando, a fine aprile, ha abbracciato la terra madre, quella rossa della sua Grecia dov’è cresciuto, al torneo di Barcellona ha cominciato a volare: ha battuto anche Thiem arrendendosi solo in finale e solo a Rafa Nadal, dall’Estoril, è tornato con le semifinali e lo scalpo del terzo top ten, Anderson, da Wimbledon ha ricavato il miglior risultato in uno Slam col quarto turno (ko con Isner), e dalla campagna sul cemento americano è uscito con le semifinali a Washington e la prima finale Masters 1000, da più giovane che elimina peraltro uno dietro l’altro quattro top ten nello stesso torneo, Thiem (8), Djokovic (10), Zverev (3) e Anderson (6).
Si è arreso sotto il traguardo solo a Nadal, ma regalandosi per il ventesimo compleanno il numero 15 nella classifica. In quella specifica, la “Race to Milan”, under 21, s’è infilato al numero 2, dietro quel Sascha Zverev col quale l’anno scorso aveva giocato l’esibizione che apriva le prime NextGen Finals. Perché l’altezzoso biondino tedesco di genitori russi aveva snobbato la prova per esibirsi nel Masters dei grandi a Londra.
Dodici mesi dopo, la sua vita è totalmente cambiata: sono diventati gli altri ad intervistare lui. Ha dovuto sostenere la pressione di chi è condannato a giocare e a vincere pure. Ma già a Milano ha dimostrato ampiamente di poter sostenere quella come altre pressioni. E a Melbourne l’ha confermato ampiamente senza mai tremare, mai sbagliare davvero scelta. Perché è vero, Federer ha fallito dodici palle break su dodici, ha dimenticato il dritto negli spogliatoi, era più lento di testa e di braccio, e poteva trovarsi avanti due set a zero che avrebbero stroncato anche la baldanza del ragazzo greco. Però Tsitsipas ha innescato una vivace, allegra, coinvolgente, travolgente danza di Zorba, ha giocato tutti i colpi del repertorio tennistico, ha seguito il suo credo: “Amo sorprendere la gente”. Viva Stepanos I, nuovo re del tennis.