AGI - Martina Trevisan è in semifinale al Roland Garros, ottava italiana di sempre a entrare, in singolare, fra le magnifiche quattro dei tornei dello Slam. Ha battuto in tre set Leylah Fernandez che, per quanto ancora un’infante o quasi (deve ancora compiere vent’anni) meno di un anno fa aveva conquistato la finale di New York.
Trevisan, che adesso affronterà un’altra bad girl del tennis, Cori Gauff, 18 anni, che si è sbarazzata di Sloane Stephens, ha dedicato il successo al padre malato scrivendo sulla telecamera, a fine match “Per te babbino mio”.
Babbino, come si usa dire nella Firenze che la ha dato i natali. Trevisan è reduce dal successo di Rabat dove comunque ha superato una vincitrice Slam come Garbine Muguruza.
La sua storia è nota: giovane molto promettente, dotata di diritto mancino spesso devastante oltre che bellissimo a vedersi, per quattro anni (fino al 2014) è stata lontano dal tennis perché il letale miscuglio di pressioni agonistiche (la madre Monica è una maestra di tennis, il padre Claudio un ex calciatore arrivato fino alla serie B tra l’altro) e di guai personali germogliati nel suo periodo adolescenziale l’avevano fatta scivolare nell’anoressia.
Rientrata nel circus ha dovuto fare i conti con infortuni di diversa natura ma anche grazie all’appoggio del fratello Matteo (tennista professionista pure lui) e della capitana della (ex) Fed Cup Tathiana Garbin è riuscita (contro il pronostico di quasi tutti) a diventare grande a 28 anni suonati. Fin qui i fatti.
La cui lettura ci dice che la semifinale al Roland Garros è importante, oltre che per lei, sia per il tennis italiano che, usciti tutti i maschi, resta a Parigi grazie a Martina, sia per il tennis femminile in generale. Perché e Il tennis italiano femminile era ancora alla ricerca di quella campionessa che facesse da trait- d’union fra la generazione Schiavone-Pennetta-Vinci-Errani e il futuro.
Un ruolo che la nostra giocatrice n.1, Camila Giorgi non è mai riuscita a gestire appieno nonostante la vittoria di Montreal dell’anno scorso, il suo essere la leader della squadra che ha staccato il biglietto per le Finals di Billie Jean king Cup, la sua popolarità social e la buona prestazione a Parigi.
Ora Martina si è conquistata il ruolo perché a una semifinale Slam non si approda per caso, perfino in un mondo volatile come quello del tennis femminile di questi nostri anni.
Ma soprattutto la semifinale di Martina non può non avere un valore fortemente simbolico per tutto il tennis femminile.
Il quale, oltre a essere contraddistinto da valori agonistici traballanti, è popolato da malesseri psicologici con cui spesso convivono molte delle protagoniste.
Basti ricordare la ex n.1 (per distacco) Ash Barty che si ritira a 26 anni come un Borg qualunque perché non regge più la pressione derivante dall’obbligo di giocare, vincere, primeggiare.
Oppure Naomi Osaka che, essendo pure la più mediatica delle top players, passa una crisi ad un’altra e basta l’insulto di uno spettatore (è successo a Indian Wells) per farla scivolare in uno stato di prostrazione profonda.
Oppure ancora la ex n.1 Simona Halep, passata sotto l’ala protettiva del guru Patrick Mouratoglou, che qualche giorno fa, nel bel mezzo del match contro la promettentissima cinese Zheng, ha accusato una violenta crisi di panico.
Le tenniste sono ragazze cui si chiede di essere anche personaggi pubblici accattivanti, di reggere sopra le loro spesso fragili spalle psicologiche il peso di un business che ancora cerca disperatamente almeno una erede delle sorelle Williams; di giocare, vincere e ricominciare a giocare.
Spesso (più spesso di quanto si creda) crollano sotto questo peso. Marion Bartoli ha sì vinto Wimbledon; ma non ha mai risolto del tutto il suo eterno passare da anoressia e bulimia, con altri guai di contorno.
La semifinale della Trevisan a Parigi è soprattutto un segnale per tutte le sue colleghe: passare attraverso l’inferno, tornare alla luce a competere nel tennis e magari anche vincere si può. Lasciandosi definitivamente alle spalle le fiamme.