AGI - "Non il più usuale dei viaggi". Leggere oggi il post di Goran Ivanisevic, ex campione di tennis e membro dell'entourage di Novak Djokovic, fa quasi sorridere. La foto, sui divanetti dell'aeroporto Tullamarine di Melbourne, è stata scattata dopo 12 ore di volo e sullo sguardo dei partecipanti c'era stanchezza, ironia e un accenno di sorriso. Nulla lasciava presagire il pandemonio che sarebbe scoppiato di lì a poche ore. Il team del numero uno del mondo era appena arrivato in Australia e le difficoltà iniziali, comparse alla frontiera, sembravano solo delle formalità di rito.
Un visto da controllare, un'esenzione al vaccino contro il coronavirus da mostrare. Poco più di burocratiche scartoffie. Poi, in programma, il trasferimento in albergo, gli allenamenti e la partecipazione agli Australian Open con l'obiettivo di difendere il titolo e superare Nadal e Federer nella classifica dei vincitori del maggior numero di tornei dello Slam della Storia. Un programma, però, che si è interrotto quando i documenti di Djokovic non sono stati ritenuti validi, il visto è stato revocato perchè non in linea con le regole sanitarie, e l'entrata nel Paese, per ora, negata.
A prendere la prossima decisione sarà un tribunale locale, con la prima udienza fissata lunedì prossimo, a seguito del ricorso avanzato dai legali del serbo. La trafila, hanno avvertito giudici e avvocati, potrebbe essere lunga, e la partecipazione al torneo resta in forte dubbio.
Djokovic, nel frattempo, è stato rimbalzato dall'aeroporto a una struttura per immigrati a Melbourne, il Park Hotel, dove ha passato il Natale ortodosso. I suoi familiari, che anno organizzato un sit-in in Serbia, hanno parlato di "detenzione schock". Suo padre, Srdjan, ha addirittura paragonato il figlio a Gesù perchè sarebbe stato "crocifisso" in quello che ha definito "uno scandalo diplomatico-sportivo" e una vera "caccia alle streghe". La madre, Djina, ha parlato di suo figlio come di un "prigioniero" e di un "trattamento non umano" che avrebbe ricevuto.
I fan, in Australia, con bandiere, cartelli e non curanti della pioggia, si sono radunati all'esterno dell'imponente struttura, mattoni scuri e atmosfera cupa, intonando "free Novak" e chiedendo a gran voce la sua liberazione.
In Italia, invece, si è alzata la voce di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, che ha ricordato l'importanza del Park Hotel. "Djokovic si trova nello stesso hotel di Melbourne dove sono reclusi da quasi due anni molti richiedenti asilo, ai sensi delle crudeli politiche migratorie australiane", si legge sul suo profilo Instagram.
"C'è da sperare che ascolti le loro storie. Magari uscirà diverso da com'è entrato". Per il ministro dell'Interno australiano, Karen Andrews, Djokovic non è affatto prigioniero ma "libero di lasciare in qualsiasi momento la struttura nel momento in cui sceglierà di farlo". Del resto identico trattamento è stato riservato alla tennista ceca, Renata Voracova, bloccata dalle autorità di frontiera al suo arrivo in Australia e portata al Park Hotel.
La 38enne specialista di doppio avrebbe presentato, come 'Djoker', un'esenzione dal vaccino basata sul fatto che avrebbe avuto il Covid negli ultimi sei mesi. Non è ancora chiaro se farà ricorso. Da Belgrado, però, un comunicato del ministero degli Esteri serbo ha rilanciato le accuse a Canberra: "Djokovic non è un criminale, un terrorista o un immigrato illegale, ma è stato trattato così dalle autorità australiane, il che provoca una comprensibile indignazione dei suoi fan e dei cittadini della Serbia".
Il Park Hotel, in passato, era un vero albergo e aveva un altro nome, Rydges. Fatto di mattoni neri e cemento, si trova a Carlton, un sobborgo di Melbourne ed era considerato un buon punto di partenza per visitare la città. Disponeva (quale ironia) di diversi campi da tennis, oltre a una piscina all'aperto e un centro fitness. Sul sito la descrizione è quella di "un hotel a 4,5 stelle". Oggi, invece, la situazione è assai diversa. Per conto del governo ospita circa 32 rifugiati e richiedenti asilo che sono rimasti "intrappolati" nel rigido sistema di immigrazione australiano. Se non si è parte del personale, infatti, non si può entrare e non si può uscire.
L'anno scorso la struttura è salita agli onori delle cronache per un vasto incendio che aveva portato a un'evacuazione temporanea dei suoi inquilini poi tornati a popolare le sue stanze, definite anguste e fredde. Una settimana dopo, i richiedenti asilo hanno postato delle foto sui social media sostenendo che era il cibo che veniva loro servito era infestato da vermi e accompagnato da pane ammuffito. In un intero anno gli ospiti che hanno "pernottato", loro malgrado, nella struttura sono stati circa 180. La maggior parte di loro sono state portate in Australia per ricevere cure mediche adeguate dopo essere state trattenute su Nauru, piccola isola del Pacifico, o in Papua Nuova Guinea.
Nel 2020, inoltre, al suo interno, scoppiò un focolaio Covid, uno dei più importanti nell'area di Melbourne con oltre 20 casi registrati. L'edificio è insomma in netto contrasto con le residenze a cui Djokovic, il 46esimo sportivo più pagato al mondo secondo Forbes, è abituato. Mehdi Ali, uno degli attuali detenuti, ha parlato con Afp spiegando di essere rattristato dalla prospettiva che Djokovic, uno dei suoi idoli, fosse stato portato al Park Hotel.
"I media parleranno di più, il mondo intero probabilmente ci vedrà, ma solo perchè Djokovic sarà qui per qualche giorno. Stanno scoprendo solo ora che siamo qui da anni". In un'altra intervista al portale australiano 9news, oltre a spiegare che "dalla mia finestra posso vedere le bandiere serbe" ha raccontato meglio il senso di precarietà che vive insieme agli altri immigrati: "Siamo chiusi nella nostra stanza e non c'è una scadenza, non c'è una sentenza. è una prigione, una prigione definitiva". Una sentenza, invece, per Djokovic arriverà ma bisognerà aspettare almeno qualche giorno. L'unica cosa certa è che sarà divisiva così com'è divisivo, da sempre, e non solo per la questione della vaccinazione, il campione serbo.