AGI - C'era una volta un ragazzino svizzero con i capelli lunghi e tinti di biondo col fuoco dentro che giocava a tennis in maniera magnifica, rompeva racchette e piangeva a dirotto quando perdeva. E perdeva spesso, malgrado fosse dotato di un gioco superiore e di un dritto favoloso. Si chiamava - e si chiama - Roger Federer ed era destinato a diventare il tennista più popolare, più ricco e più amato del mondo. E forse anche il più forte di sempre. Sicuramente quello che ha macinato record su record e ha fatto sognare diverse generazioni di appassionati.
Un fenomeno che è diventato sinonimo di tennis per vent'anni e che oggi forse sta per dire addio alla racchetta (dopo un infortunio e la riabilitazione, ha annunciato la scorsa settimana che forse rientrerà in estate 2022, quando di anni ne avrà 41). Un fenomeno che è diventato il tennista più vincente di sempre, il primo a conquistare 20 major (tornei del Grande slam: Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e Us Open), un atleta eccezionale e uno degli interpreti più grandi ed eleganti del tennis, capace di contenere le proprie emozioni durante il match per poi piangere (spesso) durante la premiazione. Eppure Roger Federer non è stato sempre così. A raccontarlo, in un libro-biografia 'Roger Federer. Il maestro' (Edizioni Baldini+Castoldi - Pagg. 535; prezzo: 22 euro) che è anche un magnifico viaggio alle radici del mito, il giornalista che forse lo ha conosciuto meglio, Christopher Clarey, che l'ha intervistato più di venti volte nel corso di vent’anni per il 'New York Times' e l’'International Herald Tribune'.
"Ci siamo visti ovunque: da un aereo privato ai campi di Wimbledon, da Times Square ai ristoranti sulle Alpi svizzere, fino a una suite dell’Hôtel de Crillon di Parigi con una vista mozzafiato su Place de la Concorde mentre la sua futura moglie, Mirka Vavrinec, si provava degli abiti di alta moda", scrive il giornalista nella prefazione. Poi parte a narrare la storia del Fenomeno, partendo da Basilea dove è nato l’8 agosto 1981 all’ospedale universitario, secondo figlio della sudafricana Lynette e di Robert Federer, entrambi ex atleti di discreta levatura che hanno iniziato a giocare a tennis relativamente tardi.
Roger ha imparato a giocare a Basilea poi ha affinato la sua preparazione in altre città svizzere (Ecublens, una cittadina poco fuori Losanna, sul lago di Ginevra, e Biel/Bienne, città di lingua tedesca e francese unica in Svizzera ad aver dedicatio una via a Federer) ma in un Paese così vario, con quattro lingue ufficiali, ha ricevuto moltissime influenze straniere nei suoi primi anni di vita.
Nel suo libro, Clarey racconta cose che in pochi sanno e che gettano nuova luce sul 'marziano' del tennis. A partire dall'ex giocatore professionista su cui si è modellato il suo gioco, quello che lo ha influenzato più di chiunque altro e su cui si è plasmato il suo tennis perfetto, elegantissimo, 'divino'. Non è Pete Sampras, che pure era il suo idolo - al quale diede il dispiacere di fallire il record di sei vittorie di fila a Wimbledon battendolo agli ottavi di finale nel 2001 - né altri grandi campioni come Stefan Edberg (che per un periodo sarebbe diventato il suo allenatore), ma un giocatore che ha raggiunto al massimo la posizione numero 173 in classifica di singolare (117 in doppio), Peter 'Carts' Carter.
Un australiano che si mise in mostra da juniores ma che poi non mantenne quanto prometteva per una serie di motivi: infortuni, mancanza di potenza nel gioco, sofferenza cronica alla schiena. Per guadagnare girò l'Europa giocando tornei tra club e poi arrivò a Basilea dove si fermò e iniziò a insegnare tennis all'Old Boys Basel, un club importante ma senza pretese dove Lynette Federer, che giocava nella sezione femminile del club, decise di iscrivere il figlio Roger di otto anni. E lì il piccolo prodigio fu affidato alle cure di Carter che gli insegnò a giocare un tennis d'attacco e a colpire la palla con l'eleganza che sarebbe diventata il marchio di fabbrica di Roger Federer. Con Carter, Roger ebbe un rapporto strettissimo fatto di grande amicizia, di tradimenti (quando lasciò la 'tutela' della federazione svizzera scelse come suo allenatore lo svedese Peter Lundgren preferendolo proprio a Carter) e di dolore fortissimo, quando 'Carts' morì durante il suo viaggio di nozze nel 2002 in Sudafrica, dove era andato dietro consiglio della famiglia Federer. Roger ne fu scosso in maniera tremenda.
Altra rivelazione ai più ignota riguardo il 'pianeta Federer' è quello che secondo Gunter Breskin, decano dei tecnici austriaci, è "la persona più importante nella carriera di Roger", ossia Pierre Paganini. Un ex decatleta svizzero diventato preparatore atletico che conobbe Federer nel 1995 e si unì al suo team nel 2000. E' stato lui a rendere possibile la longevità sportiva del campione di Basilea, creando per lui un percorso di allenamento che non ha mai stressato il suo fisico e gli ha permesso di mantenere reattività e resistenza anche in età avanzata per un atleta.
"Nel tennis devi essere forte, veloce, coordinato e avere resistenza, per cui bisogna svolgere esercizi per allenare questi aspetti - racconta Paganini a Clarey - ma non bisogna mai dimenticare che poi userai queste caratteristiche sul campo da tennis, non in strada o in piscina. Per questo è necessario creare un collegamento tra la velocità e come la si sfrutterà in campo, dove nove volte su dieci la velocità è nei primi tre passi prima di colpire la palla. Quindi ci si deve allenare per essere particolarmente veloci nei primi tre passi".
Carter, Paganini, e poi tanti altri personaggi che hanno avuto un ruolo nella crescita del campione svizzero sono i protagonisti della prima parte di 'Roger Federer. Il maestro', quando il tennista di Basilea era ancora in fase di formazione. Quando combatteva contro se stesso, contro la sua voglia di vincere sempre e contro la sua esuberanza e incontinenza emotiva. Un periodo che in pochi ricordano, perché il campione che tutti conoscono, quello che all'inizio degli anni Duemila ha dominato il tennis e poi si è confrontato contro il fenomeno esplosivo di Maiorca, Rafael Nadal (e poi col fenomeno serbo Novak Djokovic), era diverso: freddo, razionale, impassibile, quasi distante.
E non sudava mai. Eppure, racconta Clarey, per arrivare a quello stato di autocontrollo Federer ha dovuto lavorare tanto su se stesso ed è stato aiutato anche da uno psicologo dello sport, l'ex calciatore svizzero Christian Marcolli, che lo prese in cura quando aveva 17 anni.
Nel suo racconto Clarey arriva poi a quella che è la storia sportiva a tutti nota. Racconta quindi dettagli, particolari e curiosità delle grandi vittorie e delle clamorose sconfitte del 'maestro'. Racconta del suo carattere che lo porta a disperarsi dopo una sconfitta e a dimenticarsi di tutto il giorno dopo. Racconta del campionissimo dalla lacrima facile (dopo la sua prima vittoria a Wimbledon nel 2003 contro Philippoussis il tabloid inglese 'Daily Mirror' titolò: "It’s Roger Blubberer", è Roger il Piagnone).
Per gli appassionati di tennis - non solo di Federer - leggere il libro di Clarey è un piacere anche perché non mancano riferimenti ai grandissimi del passato, da Pete Sampras diventato amico di Federer ad Agassi che volle essere presente a Roland Garros nel 2009 per consegnare a Roger il trofeo dell'unico major che gli mancava (diventando così in quell'anno l'unico tennista dell'era Open dopo l'americano ad aver vinto tutti e quattro i tornei del Grande slam). E neppure, ovviamente, i grandi match vinti o persi da Federer. Come sottolinea l'autore del libro, è incredibile come uno dei tennisti più vincenti di sempre e detentore di molti record, sarà ricordato anche per le sue incredibili sconfitte. Su tutte la semifinale degli Australian Open del 2005 persa contro Marat Safin dopo una maratona finita oltre la mezzanotte o la finale di Wimbledon del 2008 vinta da Nadal 6–4, 6–4, 6–7(5–7), 6–7(8–10), 9–7 e considerata da McEnroe la più bella partita di tennis dell'era moderna (anche più avvincente della sua storica sfida persa contro Borg nel 1980). Oppure, ovviamente, la finale del 2019 a Wimbledon vinta da Djokovic con il punteggio di 7-6 (5), 1-6, 7-6 (4), 4-6, 13-12 (3) che con le sue quattro ore e cinquantasette minuti è anche la finale più lunga del torneo inglese in oltre 140 anni di storia.
Leggere 'Roger Federer. Il maestro' è un tuffo nel passato ma anche un modo per capire il presente, quando Roger sembra ormai destinato ad arrendersi all'unico nemico contro cui non c'è partita, l'età; quando Nadal è alle prese con i suoi tanti acciacchi; quando Novak Djokovic sta per diventare il più vincente tennista della storia (approfittando di essere il più giovane dei Big Three). Merita un'ultima notazione la considerazione fatta da Clarey riguardo al dibattito che coinvolge gli appassionati da anni su chi sia stato il più grande tennista di sempre. "Si tratta di una questione irrisolvibile, anche limitandola alla sola era Open - scrive il giornalista - Björn Borg, Jimmy Connors, John McEnroe e gli altri campioni degli anni Settanta e Ottanta spesso saltavano gli Australian Open, che ai tempi era il più remoto e il meno prestigioso dei major. Connors, Borg e in generale i tennisti di quella generazione non consideravano la conta degli Slam il dato statistico distintivo del loro sport. Se avessero saputo, forse avrebbero fatto qualche viaggio in Australia in più".
Poi cita Jimmy Connors che al podcast 'Match Point Canada' ha spiegato: "Io ho giocato gli Australian Open due volte. Ho saltato gli Open di Francia sei o sette volte quando ero all’apice della carriera, per cui sostanzialmente il mio nome e la mia reputazione si basano su due tornei: gli Us Open e Wimbledon. Ci ho messo vent’anni per giocare una cinquantina di Slam. Questi ragazzi ne giocano quattro all’anno". In definitiva, il confronto tra i Big Three e gli altri si deve fermare, conclude Clarey, ai tennisti dell'epoca di Pete Sampras. "Se non altro, un confronto tra gli Slam vinti da Federer e quelli vinti da Sampras è corretto", conclude.
Ora, in attesa di capire se il viaggio di Federer nel tennis professionistico si è concluso, il dibattito resta aperto. Così come i suoi record che Djokovic sta pian piano battendo (a partire dall'ultimo e forse più importante, il numero di settimane in vetta alla classifica mondiale: il serbo ha superato le 310 settimane dello svizzero e il suo record è ancora in aggiornamento essendo n.1 del mondo) e che Federer non sembra considerare troppo: "Per quanto mi piacciano i record, credo che la parte davvero bella è quando li infrangi, non quando ce li hai - racconta nel libro - perché è un momento che nessuno può portarti via. Tutti i record sono fatti per essere infranti, ma quando compi quel passo o fai quel salto dove nessuno era mai stato prima, ecco, quello è davvero stimolante".