AGI - La nostra telefonata coglie Gianni Clerici in un momento di difficoltà. Il suo computer è appena impazzito, lo schermo mostra un’immagine ribaltata, quella del pezzo che deve mandare al giornale entro pochi minuti. Sul monitor l’articolo si vede rovesciato, forse per una impostazione del monitor improvvisamente saltata. L’agitazione si percepisce bene anche al di qua della cornetta e il figlio Luigi ci chiede cortesemente di soprassedere.
Roger il più grande di tutti?
Noi abbiamo telefonato con un obiettivo preciso. Convincere il più famoso, longevo e autorevole giornalista e scrittore di cose di tennis che Roger Federer è il più grande tennista di sempre, in base ad un ragionamento a nostro dire sostenibile. L’impresa – convincere Clerici, che il 24 luglio compirà 90 anni e che da 70 scrive la storia di questo sport con garbo e perizia inarrivabili – come noto ha visto molti fallire.
Pochi minuti ed è lui a richiamare. Il guasto al pc è stato risolto, pezzo inviato, noi possiamo esporre la nostra tesi: è vero che i tennisti di epoche diverse non sono comparabili – diversi i fisici, le racchette, le palle, alcune regole del gioco, i campi, i tornei – ma è pur vero che nessuno ha vinto tanto nel proprio tempo (15-20 anni) quanto il campione svizzero, che per questo è il più grande di tutti. Nessuno è stato così vincente, per così tanto tempo, giocando così bene nella propria epoca di appartenenza. “Caro signore, lei è stato molto gentile a chiamarmi, ma il suo ragionamento non sta per nulla in piedi, se ha tempo le spiego perché”.
Ha unito i puntini della storia
La parlantina dello ‘scriba’, come lui ama da sempre definirsi, è la solita, oggi forse più meditata, con più pause. Per chi segue il tennis, la firma di Clerici sotto un pezzo è un marchio storico. Significa che quell’articolo e quella pagina raccontano di un fatto che finirà negli annali non tanto per la storia in sé, ma per l’autore che a quella storia ha deciso di dedicarsi.
Gianni Clerici ha contribuito come nessuno in Italia e pochi nel mondo a mitizzare giocatori e match di tennis. È stata la sua ‘penna’, oggi un pc con lo schermo indisciplinato, a unire i puntini di ciò che era meritevole di essere ricordato e ciò che non lo era sopra un campo d’erba o di terra rossa. Finire in un pezzo del cronista comasco, un tempo sul Giorno, da alcuni decenni su Repubblica, è stato nell’ultimo mezzo secolo un riconoscimento per tanti tennisti, campioni e non, leggendari o lì per caso che certi suoi articoli hanno reso immortali.
Sorte che è toccata anche a lui: dal 2006 è nella Hall of fame di questo sport, unico italiano insieme a Nicola Pietrangeli. “Vede, signore, Bill Tilden è stato una sola volta in Australia, tre volte in Europa, tre volte in Francia perché la sua federazione non voleva comprargli i biglietti. Dicevano che era professionista, che giocava per soldi. Ha giocato solo tre volte a Wimbledon, e ha vinto, il più forte nella sua epoca, possiamo dire che è stato meno bravo di Federer? Io non riesco a dirlo, la grandezza di un campione la si può misurare nella sua epoca, mai comparare epoche diverse. Non ha senso”.
Su Tilden, campione americano degli Anni Venti – fu numero uno al mondo e vincitore di 19 tornei del Grande Slam: 10 in singolare, 4 in doppio e 5 in doppio misto - Gianni Clerici scriverà un altro libro. “L’ho incontrato una sola volta a Hollywood. Aveva appena dato una lezione di tennis a Ginger Rogers. Non ebbi il coraggio di chiedergli l’autografo”.
Un altro libro su Big Bill
La nostra telefonata è breve, ma capiamo che se esiste un favorito in una dunque improbabile, ideale classifica verticale – e non per epoche tennistiche – di questo sport, in cima Clerici metterebbe sicuramente Tilden e non Federer, a cui il cronista in tante corrispondenze non ha risparmiato critiche caratteriali e persino culturali, dopo aver imparato durante un’intervista che lo svizzero non aveva mai letto Freud, e quindi - a suo dire - capito poco dei propri limiti contro certi avversari.
(Francia-Stati Uniti di Coppa Davis nel 1928. Da sinistra, Jean Borotra, Henri Cochet, Bill Tilden e Francis Hunter (Foto LEEMAGE VIA AFP)
Ma a domanda esplicita, la risposta è sorprendente. “Il tennista di cui serbo il ricordo più intenso? Nessun dubbio, Augusto Rado”. Lo chiamavano ‘il Meazza del tennis’, perché fu il primo campione italiano ‘popolare’, figlio di una modesta famiglia milanese, capace di vincere il titolo assoluto e di tenere testa ai più forti di allora – erano gli Anni Trenta - tra cui Borotra, Von Cramm, Fred Perry, Palmieri e De Stefani. Giocò anche 6 volte in Davis e incantò per il suo tennis creativo e imprevedibile.
Il rovescio di Augusto Rado
“Uno strano male gli impedì a un certo punto della carriera di colpire la palla di dritto, non si capì mai l’origine di quel disturbo così invalidante. Rado giocò per anni soltanto di rovescio, batteva anche di rovescio, e vinceva, incastrava gli avversari con le sue geometrie. A guardarlo si provava una grande pena, ma anche profonda ammirazione. Senza quella menomazione sarebbe diventato fortissimo, ne sono sicuro. Nessuno come lui è rimasto nel mio cuore”.
(Augusto Rado, foto Facebook)
Lo scriba è stanco, forse un altro articolo lo attende, l’ennesimo pezzettino di storia da inviare in redazione. Pietrangeli o Panatta? “Ricordo la finale tra i due agli assoluti di Bologna del ’70. Vicino a me Giorgio Bassani, che sapeva di tennis come pochi, mi disse: ‘Dobbiamo tenere per Pietrangeli, perché è la nostra giovinezza che sta sfiorendo”. Quel match lo vinse il giovane Panatta, 6-4 al quinto e fu il passaggio di consegne tra i due più forti e popolari tennisti italiani di sempre (Clerici ci rimprovererà, perché i campioni di epoche diverse non sono comparabili).
Le piace la nuova Coppa Davis? “Signore, la Davis è morta nel 1945, quando morì il suo inventore”. Il tennis è diventato un sport per ‘picchiatori’, muscoli e corde tesissime lasciano sempre meno spazio a intelligenza e fantasia, c’è una regola che cambierebbe per restituire imprevedibilità a un gioco oggi così ‘violento’? “No, il tennis non va cambiato. Ho visto il tentativo che hanno fatto a Milano per il master dei giovani (le finali Atp Next Gen, ndr) dove si contano i punti in maniera diversa, ma non ci ho capito molto, almeno dalla tv. Credo che il tennis troverà il modo di sopravvivere allo sviluppo della tecnologia. Succede così dal 1300”. Perché piccole nazioni con pochi abitanti come Svezia e Svizzera hanno avuto dei numeri uno nel tennis e l'Italia non c'è mai riuscita? "Non so rispondere a questa domanda, questo giovane altoatesino (Jannick Sinnner, ndr) mi pare molto promettente".
Il tennis in tv, oggi
Le piace il tennis in tv di oggi, lei che è stato con Rino Tommasi un pioniere delle nuove telecronache negli Anni ’90? “Insomma, mica tanto. Questi giornalisti televisivi credono di sapere tutto loro e non raccontano le storie dei giocatori, che bisogna invece conoscere bene per capire cosa succede in campo. Ce ne sono alcuni bravi, ma sono pochi”. E sulla carta stampata, sul web, esiste un erede di Gianni Clerici? “Mi piace molto come scrive di tennis Stefano Semeraro”. Perché nelle scuole tennis non si insegna più il chop di dritto? “Non lo so, me lo chiedo da anni. I maestri non lo spiegano, peccato, rischia di diventare il primo colpo estinto".
La dittatura delle donne
Gianni Clerici ha scritto una trentina di libri, alcune pietre miliari nella storiografia del tennis, alcuni romanzi. L’ultimo è in libreria da poche settimane per Baldini & Castoldi e ha un titolo orwelliano. “2084 – La dittatura delle donne”. Quando andranno al potere loro, per davvero, in politica e in economia, le cose andranno meglio? “No”, risponde Gianni Clerici con un filo di voce e di ansia, perché il tempo stringe e c’è un articolo per ‘Il tennis italiano” che va rivisto. “Le cose non andranno meglio perché avverrà quello che è successo con gli uomini. Chi comanda perde umanità, ce lo insegna la storia. Le donne sono migliori degli uomini perché hanno dovuto subire e non hanno potuto comandare. Il giorno che avranno il potere non saranno migliori di noi”.