AGI - “Nella mia vita sono stato spesso in guerra con me stesso, il mio problema è che non sono mai del tutto contento di ciò che faccio”. Prima di iniziare l’intervista con l’AGI sui suoi primi 70 anni, con l’autoironia e il disincanto tutti capitolini che l’hanno sempre contraddistinto Adriano Panatta, nato il 9 luglio del 1950, ex numero 4 del mondo, dominatore del 1976 tennistico, quando portò a casa gli Internazionali d’Italia, il Roland Garros e la Coppa Davis sfoggiando una provocatoria maglietta rossa contro il Cile di Pinochet, premette scherzando che una mezz’ora al telefono per parlare di sé stesso è eccessiva. Perché in fondo, scherza, “non dobbiamo mica scrivere “Guerra e pace”. Ricordi, bilanci, rimpianti e progetti consegnati all’AGI dal campione che più ha segnato la storia del tennis italiano sono invece parecchi, svelano lati intimi e inediti dell’uomo noto soprattutto per la sua mitica “Veronica” e prendono il via, appunto, dal titolo dello scrittore russo.
Adriano Panatta (Foto Afp)
Nei suoi primi 70 anni è stato più in guerra o più in pace, dentro e fuori dal campo?
“Guerra e pace nella mia vita sono in equilibrio, quando giocavo non mi sono mai sentito completamente in battaglia contro i miei avversari ed ero tranquillo anche verso me stesso. Quando invece dopo il tennis ho iniziato a lavorare in modo normale, ho sempre voluto fare tante cose, sempre nuove, alcune mi sono riuscite bene altre meno. Penso che alla fine il bilancio sia positivo, ma è indubbio che io sia un po’ un uomo senza pace”.
Come e con chi li festeggia questi settant’anni?
“Con i nipoti, i figli e la mia compagna Anna. Organizzerò una tranquilla cena in Versilia, non sono un tipo celebrativo, dovrebbe essersi capito”.
Non c’è dubbio… Ma ci sarà stato nella sua vita un compleanno indimenticabile, forse quello del ’76 il suo anno magico?
“Figuriamoci, neanche mi ricordo dov’ero, quel 9 luglio del '76”-
A Treviso, dove un romano di Roma come lei vive da sette anni con la sua compagna Anna Bonamigo, ha finalmente trovato pace?
“Mi trovo meravigliosamente, tanto da essere intenzionato a rimanerci fino al resto dei miei giorni”.
Eppure Roma è un tutt’uno con lei e viceversa: dal nome, alla nascita, fino al pubblico del Foro Italico che intonava “A-dria-nooo”e alle esperienze politiche, prima da consigliere comunale con Rutelli e poi da assessore provinciale allo Sport con la giunta di Enrico Gasbarra, che da ragazzino faceva il tifo per lei anche sugli spalti di Wimbledon...
“A Roma sono ancora molto legato, ma è una metropoli incasinata, con mille problemi che si porta dietro da sempre, mentre Treviso ha una dimensione umana, civile, esco da casa in bicicletta e se devo andare al cinema faccio 500 metri a piedi, non ho bisogno di prendere l’auto, non c’è l’inferno della capitale insomma”.
A Treviso sta per andare in scena anche la sua nuova impresa imprenditorial-tennistica.
“L’anno prossimo, dopo una ristrutturazione completa io e il mio socio Philippe Donnet, numero uno di Generali, inaugureremo il nuovo circolo. Ci saranno campi da tennis, da padel, una Spa e soprattutto una scuola tennis dove ai bambini verrà insegnato il tennis classico, non esasperato, diverso da quello che viene inculcato oggi, tutto basato sulla potenza. Dovranno innanzitutto divertirsi, perché senza divertimento l’abbandono del tennis è assicurato”.
Il metodo “pof” dal rumore della palla colpita di piatto che decantava nel suo mitico cameo ne “La profezia dell’Armadillo” e che richiama quello del suo tennista contemporaneo preferito, Roger Federer, riuscirà a plasmare nuovi talenti?
“Da noi i bambini dovranno innanzitutto divertirsi. E comunque i campioni non si cercano, arrivano, a Treviso come a Roma o a Caltanissetta. Poi però qualcuno che capisce di tennis deve saperli riconoscere…”.
Tra gli azzurri di oggi chi è il nuovo Panatta?
“Sinner ha un grande talento, si diverte e tutto fa prevedere un suo sbarco nei top ten, ma in quanto a risorse azzurre e talento ci sono ovviamente Matteo Berrettini che è numero otto del mondo e Fognini, un grande tennista. Di Sinner mi piacciono molto le caratteristiche della sua famiglia, molto simile alla mia, potranno contribuire a farlo diventare un campione di cui si parlerà parecchio. Vivono in un rifugio di montagna, sono persone positive, normali e soprattutto non rompono le palle, stesso comportamento dei miei genitori anche se in montagna non ce li avrei visti tanto bene”.
I suoi genitori come gestivano un figlio campione, anzi due visto che anche suo fratello Claudio se l’è cavata bene?
“Mia madre non ha mai neanche imparato come funziona il punteggio del tennis, veniva a vedermi soltanto quando giocavo a Roma e mio padre mi ha seguito soltanto in due trasferte di Coppa Davis, in Australia e a San Francisco. E soprattutto, non mi ha mai detto nulla, mai commentata ad esempio una mia sconfitta, avevamo un rapporto molto tranquillo”.
Dal suo mitico papà Ascenzio, custode al Tc Parioli di Roma, ha ereditato il nomignolo “Ascenzietto”.
“Quella è stata un’invenzione di Nicola Pietrangeli, si divertiva a chiamarmi così, ma lo faceva giusto lui, e sono pochi anche quelli che mi hanno chiamato pure “Cristo dei Parioli”. Mi definì così un giornalista, riferendosi alla faccia sofferente che avevo in campo, ma non sono mai stato un pariolino, tutt’altro” (erano così chiamati i ragazzi dei quartieri di Roma nord, Parioli in testa, che guardavano politicamente a destra, ndr). Però grazie agli articoli che dopo la vittoria su Pietrangeli agli Assoluti del ’70 cantavano il ricambio generazionale del tennis italiano, sfiorai la carriera artistica, fui chiamato addirittura da Zeffirelli”.
Racconti quell'incontro.
“Notandomi sui giornali Zeffirelli mi fece convocare per un provino in ‘Fratello sole, sorella luna’. Dovevo interpretare un guerriero fustacchione e peloso amico di San Francesco che tornava dalle crociate, ma io a quell’epoca dimostravo anche meno dei miei vent’anni, non avevo manco la barba e l’addetto al casting mi rimandò indietro senza neanche fare il provino. Non incontrai neanche Zeffirelli. Peccato, ma da lì a pensare che sarei potuto diventare un attore ce ne vuole, anche il cameo de ‘La profezia dell’Armadillo è stata una cosa estemporanea, il cinema preferisco guardarlo”.
Tra pubblicità, fidanzate come Mita Medici e Loredana Bertè, amici del cuore come Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio quel mondo lì poi l’ha frequentato parecchio, portandosi dietro la nomea di viveur che al sacrificio in campo preferiva la bella vita e le ore piccole…
“Avevo anche altri interessi oltre al tennis e il mio era un gioco più dispendioso di altri, l’indolenza e lo scarso spirito di sacrificio invece fanno solo parte della narrazione…”.
Era molto legato a Tognazzi e Villaggio, se potesse decidere di richiamarne uno in vita chi sceglierebbe?
“Sono tanti quelli che hanno arricchito la mia vita dentro e fuori dal campo, accanto a Tognazzi e Villaggio, tennisticamente anche il mio coach Mario Belardinelli e Bitti Bergamo. Mi mancano allo stesso modo, in sentimenti e dolori come quello del lutto è impossible stilare una classifica simile a quella tennistica. Mi hanno dato tanto tutti, per motivi diversi”.
Restando in tema (e con i dovuti scongiuri) un campo da tennis che consegni il suo nome alla storia, così come è stato in vita per quello intitolato a Pietrangeli, se lo aspetta prima o poi?
“Normalmente i campi si intitolano post mortem, e comunque non ci tengo proprio, neanche da vivo”.
Ma oggi gioca ancora a tennis?
Molto raramente, il mio socio Philippe Donnet è tra i pochi che riesce a farmi prendere la racchetta in mano. Gioco più spesso invece a padel, mi diverte molto di più”,
Lo lascia vincere il suo socio?
“Giochiamo in coppia in doppio, e solo contro amici simpatici”.
Che valore aveva l’amicizia tra i tennisti negli anni Settanta/Ottanta?
“In quell’epoca nel circuito c’erano campioni che erano anche delle persone umanamente molto belle, tennisti come Nastase, Borg, il povero Gerulaitis, Newcombe e tra gli altri Paolo Bertolucci che ho sempre considerato un po’ un fratello, Zugarelli e anche Barazzutti. Non è vera la leggenda che non ci vuole amici, è solo che abbiamo caratteri diversi e non ci siamo mai frequentati quando abbiamo smesso di giocare, non ho niente contro Corrado, ci mancherebbe altro”.
Ma c’è qualcuno, tra gli ex del circuito, verso cui in partita ha nutrito sentimenti di odio profondo?
“L’odio non funziona sul campo da tennis, è un sentimento irrazionale che non ti fa essere lucido e il tennis invece esige molta lucidità. Però qualcuno che mi stava proprio antipatico c’era”.
Fuori i nomi.
“Lendl, con cui però non ho giocato parecchio, Connors e Jauffret, ex numero uno francese che mi infastidiva molto”.
La partita che potendo, rigiocherebbe?
“Il quarto di finale a Wimbledon perso contro Pat Duprè nel 1979. Non ho mai amato Wimbledon, con il suo prato e i suoi inchini sotto il palco reale, ma quell’anno se non avessi perso al quinto una partita che stavo conducendo 6/3 – 4/1, avrei vinto il torneo. La presi troppo sottogamba, un errore molto grave nel tennis…”.
A conclusione della sua autobiografia ‘Più dritti che rovesci’ che ha scritto con Daniele Azzolini nel 2009, spiegava che per preservare i suoi tre figli da un confronto ingombrante con la figura paterna non li avrebbe indirizzati versi il tennis, ma che sperava invece in un nipote… Come sta andando?
“Ho due nipoti: Leonardo cinque anni, figlio del mio secondogenito Alessandro, gioca con una racchettina, il tennis gli sta piacendo, vedremo… Per il figlio della mia terzogenita Rubina, che si chiama Adriano come me e ha 8 anni invece c’è poco da fare, gioca a calcio, è bravo, è pure della Juve e mi è toccato regalargli perfino la maglia di Ronaldo. Da nonno ho dovuto violentare il romanista che vive in me da sempre”.