T utte le volte, e sono sempre più frequenti, che Roger Federer si commuove e versa le sue lacrime in pubblico come durante l’intervista in Australia alla CNN in cui ha ricordato il primo allenatore, Peter Carter, prematuramente scomparso, ci torna in mente sua moglie Mirka. Cioè le parole con le quali la dura ex tennista slovacca Vavrinec apostrofò Stan Wawrinka nel combattutissimo derby svizzero al Masters di Londra 2014. E così riassumiamo anche i rapporti di forza di quel matrimonio. Perché Il Magnifico, così straordinario come atleta, non riesce spesso a trattenere le sue emozioni e, altre volte, se non ha proprio pianto materialmente, ha avuto delle reazioni talmente clamorose da scaricarsi completamente a partita in corso. Basti pensare a certi crolli emotivi contro la sua bestia nera, Rafa Nadal, o dopo aver fallito grandi opportunità contro Novak Djokovic.
La bellezza di Roger sta anche in questa sua debolezza, che l’avvicina alla gente comune più di quanto possano mai fare quei superman di Rafa e Nole. Di certo, con l’andare degli anni, proprio come accade a noi mortali, anche il dio del tennis ha la lacrima sempre più facile. Piangeva commosso, a gennaio di un anno fa, sul palco d’onore della Rod Laver Arena, dopo aver domato Marin Cilic ed aver conquistato lo Slam numero 20, subito dopo aver ringraziato il suo team: “I love you guys”.
Perché, una volta sciolta la concentrazione del match, rivive il percorso dello sforzo, e magari l’angoscia per il pronostico favorevole che è sempre così difficile da gestire: “Aspettare questa finale è stata una faccenda molto lunga e complicata, è più facile quando si gioca nel pomeriggio, ma quando è di notte ci pensi tutto il giorno”. Strano, non aveva pianto invece dodici mesi prima, dopo aver sconfitto in finale Nadal, sempre a Melbourne. Eppure quel titolo era stato ancora più importante, dopo cinque anni senza successi Slam, da Wimbledon 2012. Quando invece le lacrime gli erano venute fuori copiose: era la prima volta che si aggiudicava i Championships davanti ai figli. E lo festeggiò con un pianto di felicità, di orgoglio, di partecipazione familiare.
Le lacrime del Roland Garros 2009 erano state completamente diverse: lì s’era liberato dell’enorme peso del tabù che - senza il fondamentale aiuto di Robin Soderling che gli aveva tolto finalmente di mezzo Rafa - sarebbe forse rimasto insuperabile. Poteva dirsi ad alta voce: “Ora posso andare avanti senza più preoccuparmi di non vincere mai Parigi”.
Lavando in qualche modo via, d’incanto, le sconfitte più amare nella rivalità con il nemico Nadal: il terrificante 6-1 6-3 6-0 subito nella finale del Roland Garros 2008, talmente duro da seccargli le lacrime, il micidiale 9-7 al quinto set, un mese dopo a Wimbledon, col quale il rivale invadeva il suo regno sull’erba e lo faceva piangere a sangue, nell’anima e anche alla premiazione, e quindi il micidiale crollo psicofisico sotto il traguardo degli Australian Open 2009. Quando, sotto gli occhi del suo idolo, Rod Laver, Roger Express non riuscì nemmeno a completare il solito pistolotto in mondovisione e mormorò un patetico: “Dio, questo mi sta uccidendo”. Che commosse persino il Maciste di Maiorca.
Non era il getto della spugna del pugile, suonato, sul ring. Anche se sarebbe scappato volentieri da tutto, come faceva, da ragazzo: “Ero terribile”. Era un umanissimo sfogo, come quello di altri significative tappe. Pianse, infatti anche dopo il successo degli Australian Open 2001 contro Baghdatis: era il suo settimo trofeo Slam, che riceveva dalle mani di Laver e gli faceva fare un salto di qualità raggiungendo il livello degli eroi giovanili, Becker e Edberg. Ha pianto più volte nell’alzare il trofeo nella sua Basilea, dov’è cresciuto e dove ha fatto da raccattapalle. Un’atmosfera che gli ricorda quando un giovane allenatore australiano gli ripeteva: “Stai attento a non disperdere il tuo talento, Roger, impegnati seriamente”. Era quel Peter Carter che non può vedere il frutto del proprio lavoro, e che dà un’occasione in più di piangere a Roger. “Le lacrime dimostrano quanto ci tenga”.