I n un mondo in cui non si dimette nessuno, Justin Gimelstob ha voluto dire lui l’ultima parola e si è messo da parte, prima ancora delle fatidiche votazioni del nuovo Board dell’Atp Tour del 14 maggio a Roma, durante gli Internazionali d’Italia al Foro. Che, dopo undici anni, doveva essere il trampolino per lanciarlo alla presidenza dell’ente che gestisce il circuito dei tennisti professionisti.
Il 42enne statunitense era stato condannato da una sentenza del tribunale di Los Angeles per aver picchiato senza motivo un ex amico, causando – secondo la parte lesa – l’aborto della sua figlioletta. Perché la moglie, presente ai fatti, gravemente turbata dagli eventi, aveva avuto un aborto spontaneo. Ma, se non fosse spuntato fuori un clamoroso conflitto di interessi con lo stesso Atp Tour, forse avrebbe potuto ancora mantenere la posizione.
Praticamente tutti i media, ma solo qualche giocatore di spicco, da Murray a Wawrinka, dall’ex allenatore Darren Cahill alla signora del tennis, Martina Navratilova, si erano espressi chiaramente per la sua rimozione. Soprattutto i giornalisti inglesi, per via della misteriosa defenestrazione del presidente dell’Atp, l’inglese Chris Kermode, alla quale Gimelstob aveva dato un decisivo contributo con l’avallo del presidente del Council, Novak Djokovic, al quale Gimelstob ha ufficializzato di persona le dimissioni, presentandosi a Madrid dove Nole è in gara questa settimana.
Ma, pur bocciato dall’All England Club, cioè da Wimbledon, che, per la prossima edizione di luglio, gli aveva pubblicamente negato l’accesso al Royal Box che spetta ai passati vincitori del torneo, l’ex pro statunitense aveva ricevuto una specie di assoluzione sia dall’Atp stessa che da Tennis Channel e dalla Federtennis Usa con le quali ha un rapporto di lavoro. E mercoledì ha dato un’ultima dimostrazione di forza al mondo del tennis che teneva in pugno da tempo, dimettendosi anche dall’impegno con il canale televisivo specialistico.
Da ex pro, non brillantissimo in singolare (n. 63 del mondo nel 1999) ma campione di due Slam nel misto (era arrivato al n.18 in doppio), da ricco e potente rappresentante della potente lobby ebraica statunitense, da manager dell’ex n. 1 del mondo Lindsay Davenport, da co-allenatore di John Isner, da influente collaboratore Tennis Channel, da organizzatore di eventi di beneficienza (con la possibilità di ruotare i colleghi e dargli maggior esposizione e possibili sponsor). E, soprattutto, da membro del Board ATP che gestisce la cassaforte dei tennisti professionisti e decide gli ultimi aumenti di premi. Ma, nello stesso momento, con un evidente conflitto di interessi, da titolare dell’azienda di produzione partner dell’Atp (la Without Limit Production, responsabile dal 2013 di ATP World Tour Uncovered, il video magazine trasmesso in oltre 150 Paesi per 60 milioni di spettatori).
Justin è un carrierista, uno di quelli che vive intensissimamente il suo lavoro, dorme pochissimo, parla tantissimo e ti chiama spessissimo anche all’alba. Ma il problema non è se sia bravo o no, come è sembrato per mesi davanti alla melina da parte dei vertici del tennis, il problema è il suo carattere focoso che l’ha portato ad alzare bandiera bianca nel Board dell’Atp dove siede dal 2008.
“Sono profondamente rattristato e pentito che le mie azioni abbiano causato una tale distrazione allo sport, ai giocatori, ai colleghi, agli amici e alla famiglia. Le azioni hanno delle conseguenze e io mi allontano da un ruolo che amo tanto e che accetto. Il mio compito era quello di rappresentare i giocatori e l’Atp, ed essere un custode dello sport. Le mie scelte e le mie azioni dell’ultima notte di Halloween mi impediscono di farlo in questo momento, ed è chiaro che ora sono diventato un peso e una distrazione significativi per entrambi. Non posso continuare, anche se ho il cuore a pezzi dovendo lasciare qualcosa che amo così tanto, ma data la situazione non merito di restare in questa posizione di influenza… Spero sinceramente di imparare dai miei errori e diventare la miglior versione di me stesso, non solo per me ma, cosa molto più importante, per mio figlio”.
Già condannato da un’ordinanza restrittiva del tribunale per reiterate violenze domestiche nei confronti della ex moglie (che ha sempre contestato), condannato per le violenze e le minacce di morte del 31 ottobre contro l’ex amico Randall Kaplan (che accusa di aver avuto un flirt con la sua ormai ex moglie). È stato salvato dagli avvocati dalle conseguenze penali per gli ultimi gesti – ha già pagato oltre 4 milioni di dollari di spese legali – ma è stato condannato a tre anni di libertà condizionale, a sessanta giorni di lavori socialmente utili e a un orso di cinquantadue settimane di gestione della rabbia. E, soprattutto, ha irrimediabilmente distrutto la sua carriera politica nello sport.
Per il suo posto, fra i sei membri del Board Atp si sono candidati i connazionali Brad Gilbert e Tim Mayotte, e l’ex coach di Andy Murray e Grigor Dimitrov, Dani Vallverdu.