C i sono flash che si ripresentano imperiosi, e non abbandonano più l’immagine di un atleta. Quando, all’Olimpiade di Torino 2006, vedemmo sfrecciare sul ghiaccio uno scricciolo biondo che sgomitava e spingeva su una pista, infilandosi, frenetica, in spicchi di curve impossibili, e rispuntava fuori da un marasma, di gambe, braccia e corpi guantati come anguille, Arianna Fontana ci fulminò come una doccia fredda.
Quella ragazzina di 15 anni (e 314 giorni) sembrava morsa da una tarantola, era la dinamo della squadra azzurra e meritava di diventare la più giovane medaglia italiana ai Giochi invernali. Infatti fu lei a schizzare in cielo più alta di tutte all’annuncio che le cinesi erano state squalificate per una scorrettezza, e dovevano cedere il bronzo al nostro quartetto. Con quegli occhi magnetici e quel fascino smunto che faceva tanto Linda Blair nell’Esorcista ci raccontò della passione per i film horror: “Sono cresciuta con Shining”. Ci parlò della passione immediata, già a 4 anni, per il pattinaggio su ghiaccio, spinta dalla rivalità in casa col fratello maggiore, Alessandro. Ci raccontò della sua vita in auto, insieme a mamma Maria Luisa, 150 chilometri al giorno, avanti e indietro, per anni, dalla pista di allenamento in Valmalenco fino a Bormio.
Da Torino 2006, dalla medaglia olimpica azzurra numero 100, ha continuato a schizzare e sgusciare, correre e scivolare sulle lame, sempre a mille, ha tirato fuori tutta la personalità, ha vinto e rivinto ed è diventata il simbolo del suo sport, lo short track, in un Bolero esaltante. “Dopo Vancouver, dopo la prima medaglia individuale olimpica azzurra, ho capito che potevo dare molto di più nel mio sport, e ho lavorato sempre più duramente. Così, è stato tutto un crescendo». L’atterraggio è fissato il 9 febbraio, a Pyeongchang, quando sarà la portabandiera azzurra, il simbolo di tutti i nostri atleti ai Giochi.
Quattro giorni più tardi, Ary scenderà in pista per la finale dei 500 metri, la sua gara, quella nella quale punta all’oro, dopo un argento e quattro bronzi olimpici, fra Vancouver 2010 e Sochi 2014. “L’assenza di una medaglia d’oro olimpica mi ha portato a continuare. La vedo davanti a me". Già, perché ha sempre quell’aria da ragazzina ma, a 27 anni, è la veterana di quattro Olimpiadi, già campionessa d'Europa e del mondo, con una consapevolezza e una sicurezza gigantesca. Armi indispensabili per infilarsi con perizia ed esperienza in quel solito groviglio di corpi impazziti e lottare a ogni metro, come in uno sprint per la sopravvivenza, fra lame che stridono sul ghiaccio e gente che urla di eccitazione in tribuna. "Portabandiera? In tanti mi chiedevano: ”Ma allora sei tu…?”. Io però finché non ho avuto la conferma direttamente da Giovanni Malagò, il presidente del Coni, non ci volevo credere, la delusione sarebbe stata troppo grande. Poi è arrivata la telefonata ufficiale e un altro mio sogno che mi portavo dietro fin da piccola si è realizzato”. Dandole una carica in più: “Non devo dimostrare niente a nessuno, sono tranquilla, in Corea voglio essere più forte e veloce che mai, al 110%”.
E’ un bel tipo, Ary, dovreste vedere su Instagram la foto della sua schiena tutta tatuata e incerottata, accompagnata dai messaggini, piena di emoticon per il suo popolo, che chiama “raghi”: “Essere un atleta non è sempre rose e fiori, sono caduta e ho preso un colpo di frusta, spero di non svegliarmi e camminare come una zombie”; “Altro che befane, noi donne abbiamo tutte una forza da wonderwomen”. Nel 2010, l’azzurra indemoniata ha rinunciato alla staffetta “infortunata”, e ha fatto fuoco e fiamme contro i tecnici e contro il gruppo “inesistente: non ci conosciamo, pattiniamo solo insieme”. Una ribelle? “Chi mi conosce sa che se qualcuno o qualcosa che mi sta a cuore viene minacciato esce quella parte di me”.
Ary, “fuoco sul ghiaccio”, come si definisce lei, ha sposato Anthony Lobello, pattinatore italo americano che ha corso per gli Stati Uniti e poi per amore ha rappresentato l’Italia insieme col suo amore all’Olimpiade di Sochi, finché non ne è diventato anche l’allenatore. “Non è un rapporto facile, litighiamo spesso, ma non c’è giorno che non lo ringrazi per l’aiuto e il sostegno che mi dà”. Così come non è facile alternarsi fra Valtellina, Courmayeur e Florida. Il paradiso - “adoro il mare” - dove la portabandiera azzurra vede il suo futuro.
Futuro, una parola chiave: ”Gli ultimi anni non sono stati facili, dopo Sochi volevo smettere, ma è bastata una gara dalla tribuna, da spettatrice, mentre ero ferma, e la voglia è tornata subito. Ho capito che avevo ancora fame di vincere, è quella che mi fa superare fatica e sacrifici, perché so che c’è un dopo, con le soddisfazioni più grandi”. Non solo gli amati 500, anche i 1000: “Per me, da sempre, la gara più difficile”. Ma l’ha appena dominata, centrando il settimo trionfo europeo e agganciando Evgenia Radanova come più vincente di sempre a livello di vecchio continente. E poi? “Poi mi piacerebbe darmi da fare nello short, ricreare il movimento perché è uno sport ancora poco conosciuto e solo in alcune zone del nord Italia si può praticare. Bisognerebbe estendere su tutto il territorio italiano un progetto per far crescere questo sport incredibile. È qualcosa che sicuramente mi piacerebbe fare, se ci fossero le possibilità, una volta finita la mia vita da atleta”.
Lo short track è duro, lo short track è una corsa folle su un pista poco più grande del campo da hockey, lo short track è in massa e senza corsie e perciò permette i contatti fra gli atleti, lo short track nasce in Canada a Calgary nel 1988 ma diventato sport ufficiale ai Giochi solo nel 1992 ed è stato poi adottato in Asia, e a Pyeongchang sarà una giostra bianca ancor più frenetica dalla quale i padroni di casa coreani si aspettano tutte le medaglie, o quasi. Lo short track è giovane, giovanissimo ed è bello, bellissimo per Arianna Fontana: “Velocità, sorpassi al limite, cadute impreviste, in un attimo può capitare sempre di tutto. Si vive di istinto, è adrenalina pura. Come lo vedi ti affascina, ti conquista”. Il premio poco più della torta, tutta intera che, da gran golosa si è promessa.