C osì piccola e fragile, 1.68 per 64 chili, fuori dalle piste nei boschi, così grande e forte nelle battaglie sugli sci, Marit Bjoergen s’identifica nello spirito dei vikinghi, guerrieri duri, sanguinari. Ma ha anche qualità tecnica, volontà di ferro e prodigiosi sprint, e perciò si è auto promossa più grande fondista di sempre.
A Pyeongchang, arriverà alla sua quinta Olimpiade a 37 anni e 11 mesi, forte di 10 medaglie ai Giochi, 106 successi individuali in coppa del mondo (4 coppe), 18 titoli iridati. Per i quali ha guadagnato 2.6 milioni di euro di premi. Condivide il record assoluto di medaglie olimpiche con Raisa Smetanina e l’italiana Stefania Belmondo, ma vanta quello di ori, 6, e non le bastano. Così si ripresenta ancora al via a cinque cerchi, dopo Salt Lake City 2002, Torino 2006, Vancouver 2010 e Sochi 2014.
Lei filosofeggia: “La vita è troppo breve per avere rimpianti, viviamo una volta sola, godiamocela, magari dividendo con buoni amici, un buon pasto e una buona bottiglia di vino rosso. L’ideale, in crociera, ai Caraibi”. Spolvera il coté femminile: “I dirigenti volevano che entrassi in quarantena per evitare di prendermi qualche malattia dal mio bimbo per il quale ho saltato una stagione, ma gli ho risposto che starò attenta e mi laverò più spesso le mani, però, come avrei potuto mai farcela addirittura due mesi senza Marius e il mio compagno? Mi sono concessa due settimane di distacco prima di partire per la Corea, cinque sarebbero state davvero troppo difficili”.
Rivela che soffre di vertigini, ma evidentemente le capita solo quando guarda giù, dalla cima dei suoi monti, non quando scala i sogni. L’ultimo è superare il primato assoluto di medaglie olimpiche del mitico connazionale Ole Einar Bjørndalen, “il re del biathlon”, a quota 13. “Sono ad appena tre medaglie da quella vetta e questo pensiero è nella mia testa. È una piccola motivazione in più. Non un obiettivo, ma un sogno, sarebbe bello chiudere in questa maniera. Ma lui è lui e può vincere anche altri ori a Pyeongchang”.
“Gul Marit” (“Marit d’oro”), è sempre in gara, anche nella vita di tutti i giorni, che divide con Fred Borre Lundberg, due volte campione olimpico di combinata, e si nasconde, come fa con le avversarie, per poi infilarle allo sprint. “Non ho ancora una risposta sul mio futuro. Prenderò una decisione sulla carriera solo in primavera, dipenderà dalle motivazioni, se dovessi avere ancora voglia, potrei proseguire un altro anno”.
Marit è un fascio di muscoli, è mascolina, e nell’abbigliamento deve mascherarsi coi media che la punzecchiano sempre lì. Anche se subito dopo sono pronti ad esaltarla, come l’anno scorso, quand’è rientrata alle gare e ha dominato i Mondiali, aggiudicandosi tre gare individuali su quattro individuali, più la staffetta con la squadra. E ha lanciato subito la volata per i Giochi in Corea, dove la Norvegia confida ancora nell’eccellenza: “L’Olimpiade è il mio obiettivo, sarà l’ultima, e quindi voglio fare tutto quello che posso per essere il più preparata possibile”.
La più forte fondista di sempre è cresciuta strada facendo, è partita da specialista della velocità, coi primi successi tutti nella tecnica libera, per poi guadagnare potenza ed esplodere anche nelle prove sulla lunga distanza, a cominciare dal 2004. A San Lake City 2002, ad appena 19 anni, ha cominciato la collezione di medaglie olimpiche con l’argento a squadre nella staffetta 4x5 km. “Già essere selezionata mi sembrava il massimo che potessi sperare, salire sul podio fu fantastico”.
A Torino 2006, la prima Olimpiade da Nagano 1998 con la Norvegia a zero successi individuali, anche Marit è mancata all’appello e s’è messa al collo soltanto l’argento nei 10 km a tecnica classica. “Semplicemente, ero malata e fui in grado di raggiungere solo l’argento nella mia gara”. A Vancouver 2010, s’è riscattata andando sul podio in tutte le prove disputate, in una cavalcata trionfale, che l’ha laureata atleta più titolato dei XXI Giochi Olimpici Invernali garantendole la medaglia Holmenkollen, la più alta distinzione dello sci nordico: ha cominciato col bronzo nella 10km freestyle, quindi ha infilato tre ori di fila (nella sprint, nella 15km a inseguimento e nella staffetta 4x5km), e poi ha vinto l’argento nella 30km classica, staccata appena 0.3 secondi da Justyna Kowalczyk.
Anche se lei, nella testa, conserva soprattutto un enorme, sconvolgente, flash: “Il primo titolo individuale sprint mi ha fatto capire che ero forte abbastanza per vincere gli ori”. A Sochi 2014, s’è confermata nella 15 km, ha firmato la gara sprint a squadra e poi, al quarto tentativo, ha sfatato il tabù nella 30 km. Ma non era soddisfatta: “Abbiamo avuto dei problemi coi nostri sci nelle particolari condizione di neve e mi sono costati un paio di medaglie. Con un pizzico di fortuna avrei raggiunto Bjoerndalen. E’ seccante, ma così va ai Giochi“.
Le sue parole suonano un po’ arroganti. Ma sono sincere. “Sono competitiva, e voglio sempre di più. So che cosa devo fare per ottenere soddisfazione e successo. Anche se è sempre più dura”, ha confessato dopo il grande slam 2014-2015 di coppa del Mondo, quando si è regalata come premio un anno sabbatico per dare alla luce Marius. Per poi migliorarsi ancora, ai Mondiali1, quando ha superato il record di 14 vittorie della russa Elena Valbe, conquistando 18 ori in 26 podi.
Che succederà a Pyeongchang? L’incognita viene dalle tante prove contro avversarie più giovani di dieci anni e più, che vuol dire più forza e baldanza, ma anche meno esperienza e capacità di gestione. Qualità che la campionessa norvegese possiede a iosa e che, in una gara delicata come l’Olimpiade, possono risultare decisive. Anche perché l’amica-nemica, compagna di staffetta e rivale, Therese Johaug, è stata stoppata per 18 mesi per doping. E “Marit d’oro” è una vera vikinga, guerriera dura, anche sanguinaria.