AGI - Milleottocentotrenta km. La distanza che separa Setúbal, la città dell’Estremadura portoghese dove è nato, e Roma, quella dove festeggerà i suoi 60 anni; lo stadio Bonfim, il piccolo impianto dove da bambino raccoglieva i palloni durante gli allenamenti del papà portiere, e l’Olimpico, regolarmente sold out nonostante la Roma fatichi a ritagliarsi obiettivi all’altezza dei suoi sogni. Ma - calcisticamente, si intende, che la vita vera è un’altra cosa - non sarà un compleanno facile per Josè Mourinho, sospeso tra la tentazione di lasciarsi ammaliare dalle sirene brasiliane che gli offrono un posto da ct della Selecao e la voglia di turarsi le orecchie e di provare, onorando il terzo anno di contratto, a centrare l’obiettivo di riportare il club giallorosso ad essere competitivo per lo scudetto. Obiettivo tanto ambizioso quanto complicato per i paletti finanziari imposti dall’Uefa a casa Friedkin.
Che attorno allo Special One tiri un’aria meno salubre di qualche mese fa lo suggeriscono le voci critiche che si sentono sempre più spesso sulle radio locali, vero termometro del tifo capitolino, e il fuoco amico di parte della stampa locale che, ad ogni vittoria di ‘corto muso’, ritira fuori il più vecchio dei luoghi comuni sul vate portoghese: l’assenza di gioco. O, nel migliore dei casi, di un gioco scintillante. “Boring”, ‘noioso’, direbbero gli inglesi (proprio come veniva etichettato l’Arsenal di Graham, quello reso immortale da un titolo vinto ad Anfield al fotofinish e da un libro, “Febbre a 90”, diventato poi anche un film cult): ma a parte che il football sarebbe pur sempre uno sport e non uno spettacolo, dove vincere alla fine conta più di convincere, accusare le squadre di Mourinho, tutte le squadre di Mourinho, per il solo fatto di essere allenate da Mourinho, di non concedere nulla all’estetica, è una approssimazione grossolana, a smentire la quale basterebbero un buon almanacco e una raccolta basica di dvd.
I numeri, prima di tutto
- 2 Champions League
- 2 Coppe Uefa/Europa League
- una Conference League
- 2 campionati portoghesi
- 2 Serie A
- una Liga
- 3 Premier
- una Coppa di Portogallo
- una Supercoppa portoghese
- una Coppa Italia
- una Supercoppa italiana
- una FA Cup
- 4 Coppe di Lega
- 2 Community Shield
- una Coppa del Re
- una Supercoppa spagnola
Ora: sostenere che si possa vincere tanto, sempre e comunque giocando male, rasenta l’esercizio di “prostituzione intellettuale” (citazione non casuale di una conferenza stampa che vanta centinaia di migliaia di visualizzazioni su Yotube). Ma anche volendo ignorare la statistica, non si può ad esempio dire che non fosse bello da vedere il Porto che vinse tutto in due anni irripetibili con schemi votati al pressing e all’offensiva; non si può dire che fosse speculativo il Chelsea di Lampard e Drogba che riporto’ a Stamford Bridge un titolo atteso mezzo secolo; non si può dire che giocasse solo di ripartenza l’Inter del Triplete, che schierava contemporaneamente Pandev, Schneider, Eto’o e Milito; non si può dire che prediligesse il catenaccio il Real Madrid che nel 2012 strappo’ la Liga al Barcellona di Guardiola collezionando 100 punti e 121 reti.
La verità - se di verità si può parlare in una materia tanto scivolosa - è che Mourinho, da quando è diventato Mourinho, è protagonista attivo o passivo della guerra di religione che da decenni divide gli appassionati in ‘risultatisti’ da una parte e ‘giochisti’ dall’altra, teorici della prevalenza dei giocatori sul gioco da un lato e partigiani della superiorità del gioco sui giocatori dall’altro. Mou è diventato nel tempo (suo malgrado?) sacerdote della prima ‘Chiesa’ e se agli esordi portoghesi spremette il massimo da interpreti tutt’altro che di primissima fascia come Maniche, Derlei, Jorge Costa e Costinha, negli anni ha sfruttato il suo carisma per imporre al presidente di turno campagne acquisti dispendiosissime (cosa ormai impossibile in Italia).
Giocatori top, e spirito di gruppo: nell’avventura nerazzurra in tanti scoprirono dalla sera alla mattina l’importanza motivazionale del “rumore dei nemici” ma già anni prima sulla porta degli spogliatoi del Dos Antas, il vecchio tempio del Porto, un cartello recitava “Qui non entra nessuno… tranne noi”. Io, i miei e tutto il resto fuori: è possibile che con gli anni, complice magari un certo,involontario appagamento, lo schema abbia perso parte della sua efficacia, ma prima del flop al Tottenham - a conti fatti il più bruciante della sua carriera, l’unica parentesi da ‘zero tituli’ anche se l’esonero arrivo’ a pochi giorni dalla finale di coppa di Lega - Mourinho ha portato il Manchester United al solo grande trofeo del dopo Ferguson (l’Europa League). E al primo anno di Roma ha messo in bacheca una coppa europea minore quanto si vuole, la neonata Conference, ma pur sempre primo successo continentale del club dopo 61 anni di astinenza.
Ora Mourinho è all’ennesimo bivio: ‘snaturarsi’ e tentare di fare grande la Roma con il capitale umano che il fairplay finanziario consentirà di portare a Trigoria. Oppure salutare tutti e partire per un’altra avventura. Nessuna soluzione è da escludere, salvo forse quella del ritorno in una delle piazze dove ha scritto la storia. Che quasi sempre è un errore: anche se “l’uomo è l’unico animale che inciampa due volte nella stessa pietra”. Parola di Saramago. Un altro Jose’. Un altro portoghese.