AGI - Figlio di madre croata e di padre serbo, Sinisa Mihajlovic veniva da una terra segnata dalla guerra, una terra tragica, di gente che non si fida, gente 'dura'. E lui era così, un 'duro', un sergente di ferro, un guerriero, in campo e fuori, un uomo di spogliatoio, nel senso che sapeva comandare, era un 'capo' da calciatore, da allenatore e da uomo, uno che lo spogliatoio se lo portava dentro, sempre pronto ad azzuffarsi, a gridare, a bestemmiare, ma anche ad abbracciarti, a urlare di gioia, ad incitare, o rimproverarti, senza mezzi termini, a muso duro, ruvidamente.
Era fatto così, 53 anni vissuti intensamente: un campione, politicamente scorretto, razzista, fascista, ma dal cuore tenero e dagli occhi di bambino. Personalità duplice, scissa, Sinisa, era come la sua città d'origine: Borovo, un villaggio croato popolato da serbi, un luogo a metà, proprio come lui: un uomo in bilico, amato e odiato, un centrocampista che di mestiere faceva il difensore, un giocatore di classe e ma tutto 'grinta', coraggio, fisicità e, sul finire della vita, un allenatore spavaldo ma ferito dalla leucemia.
Da laziale sfegatato me lo ricordo in campo ma un po' sfuocato, perché è passato tanto tempo e anche perché osservandolo dalla curva sud dell'Olimpico (la sud, quella dei romanisti, non la nord, perché abitando a Trastevere mi veniva meglio entrare là) non è che lo vedessi tanto bene: tutte le partite dalla Nord più che vederle le intuivi, per la distanza siderale che ti separava dal campo, con quella pista di atletica, in mezzo, che ti costringeva a strizzare gli occhi per vedere meglio e comunque non vedevi niente lo stesso.
Ricordo i gol di Giorgione Chinaglia che, quando segnava nella porta verso la curva sud, potevi solo immaginare che aveva segnato e la conferma era il boato dello stadio e la rete che si gonfiava, come in un sogno. Lo stesso accadeva con le punizioni di Sinisa, le chiamavano 'sentenze', perché non si sa come, non si sa con che traiettoria, mai diretta, sempre spiovente, ma anche potente - solo lui ci riusciva a tirarle così - finivano sempre dentro.
Così me le ricordo ma potrei anche sbagliarmi, perché quei tiri su punizione di Sinisa per qualche inesplicabile ragione, lui andava a farli sempre dall'altra parte, verso nord, verso la tifoseria laziale, che l'adorava. E anche perché quando l'arbitro fischiava una punizione e Sinisa andava a tirarla, il tifoso lo sapeva che l'avrebbe buttata dentro: era una questione di fede, non di tecnica. Anzi, più le tirava da lontano e più la palla s'impennava in alto e poi scendendo prendeva velocità e s'insaccava.
E Sinisa ci provava gusto a prendere la rincorsa e poi, bum!, le tirava, centrando la porta. E lo sapevamo tutti, tutto lo stadio lo sapeva che quel tiro poteva solo finire dentro Potevi tranquillamente chiudere gli occhi e aspettare che arrivasse il boato, che tanto neanche ci provavi a vederla entrare la palla, sia per la distanza, sia per la velocità del tiro. Dalla Sud ricordo che vedevo un Sinisa piccolino, un pallone che roteava, e poi l'urlo: una sentenza, appunto.
E poi, a casa, con comodo, alla Domenica Sportiva te la rivedevi con calma la punizione e te la gustavi anche con la vista, che tanto a quell'epoca non solo segnava Sinisa ma la Lazio di Cragnotti vinceva quasi sempre, per cui: doppia goduria, gol di Mihajlovic e vittoria. Bei tempi! Grazie Sinisa, grazie per quelle punizioni e per quei ricordi. Grazie di tutto!