AGI - Pausa. Il vocabolo più censurato da un mondo sportivo che esige performance sempre più perfette, veloci e anagraficamente precoci è stato appena sdoganato da Naomi Osaka. La tennista giapponese-americana, 23 anni, numero tre del mondo e già numero uno, dopo essere stata clamorosamente sconfitta al terzo turno degli Open Usa dalla diciottenne canadese Leylah Fernandez ha coraggiosamente dichiarato di volersi prendere una pausa di riflessione dal tennis: “In questi ultimi tempi, se vinco non sono tanto felice quanto sollevata; se perdo invece sono tristissima. Non credo sia normale… Non vorrei piangere, ma a questo punto devo capire cosa voglio fare, quindi non ho sicurezze su quando giocherò il mio prossimo incontro” le parole con cui venerdì sera ha ufficializzato il suo disagio psicologico e il relativo passo indietro verso la fine di un annus horribilis, iniziato con una fobia rispetto alle conferenze stampa, spia di una depressione culminata con il ritiro al Roland Garros e quindi da Wimbledon, e seguito dalla ricomparsa in veste di front woman a Tokyo, da tedofora. Anche lì però, una volta in campo, ha portato a casa però una prestazione deludente.
"Il primo passo"
Attenzione però. Alzare una bandiera bianca emotiva, spiega all’AGI Umberto Longoni, docente della Simp (Società italiana di Medicina psicosomatica) esperto di psicologia dello sport e autore di “Il tennis al contrario. Perdere insegna a vincere, nel tennis e nella vita” e di “Il tennis e l’arte di allenare la mente”, non è la dichiarazione ufficiale di uno status di perdente, ma il primo passo, vincente, per tornare campioni: “Chi si vergogna di ammettere il suo down, cammuffandolo con disturbi fisici vari provoca un’ulteriore caduta della sua autostima, dichiararlo invece significa realizzare che non dipende solo dai risultati”, spiega.
Da Biles a Pilato
Osaka non è da sola a metterci la faccia, accompagnata nel reparto "stressati consapevoli" da Simon Biles, la ginnasta americana che ha collegato i suoi “twisties” cioè la sensazione di perdita di percezione dello spazio durante le sue performance, alla sensazione di “avere il mondo sulle spalle” e anche dalla nostra nuotatrice Benedetta Pilato che aveva puntato tutto sulle Olimpiadi e ha quindi ammesso di avere fatto una gara orribile “e non so perché” una volta in vasca. Considerando anche i precedenti di Casey Stoner il campione di motociclismo che si è ritirato precocemente perché non ne poteva più, il periodo in cui Federica Pellegrini soffriva di attacchi di panico, le pallate tirate addosso ai giudici di linea da Novak Djokovic, resta da capire perché tanti sportivi siano così stressati, e sempre più spesso preda di un “burn out” fatto di “saturazione e mancanza di motivazione”, spiega Longoni paragonandolo a quello dei manager e per il quale, chiarisce, è essenziale prendersi una pausa in stile Osaka.
Lo stress mediatico
“Una delle cause è senz’altro il grande stress mediatico cui gli atleti sono sottoposti – spiega – sanno di essere sotto gli occhi di tutto il mondo, che nessuna loro sconfitta può passare inosservata e che saranno giudicati”. Di pressione in pressione (“vanno considerate anche quelle familiari e sentimentali, che non conosciamo nel dettaglio”) c’è poi quella degli sponsor “che investono e si aspettano risultati che vanno onorati” appesantita anche dai risvolti psicologici della pandemia: “Oltre a compromettere gli allenamenti il coronavirus ha caricato anche sulle spalle degli atleti un carico di abbattimento emotivo”. Che fare quindi? Prima di tutto ammettere il disagio, “scaricandolo con onestà intellettuale e autocritica che torneranno utili una volta di nuovo in campo o in pista”. Ma secondo Longoni occorre anche fare altro nella vita “perché il pensiero fisso è senz'altro logorante”. E cita come esempio di buona condotta emotiva la recente esternazione (che ha fatto storcere il naso ai puristi del tennis) di Camila Giorgi: “Ha spiegato che per lei il tennis è un lavoro e che non rappresenta tutta la sua vita. Ha ragione lei”.