AGI - Gianluca Vialli non è mai stato una figurina. Il mondo che stava dentro e dietro il suo volto Vialli lo ha sempre offerto a tutti quelli che ne seguivano le gesta, da calciatore e da uomo.
Ha mostrato l’esuberanza giovanile, la gioia, le delusioni, i difetti, il piacere del riso, il godimento di una maturità raggiunta fuori dal campo e anche la malattia. Con Mancini ha rappresentato la coppia di fratelli italiani perfetta, l’antitesi di Rivera&Mazzola tanto per dirne una.
Festeggiando gli ottanta anni il Baffo ha detto poco tempo fa: inviteresti Rivera alla tua festa? E lui rispose: non ci penso nemmeno. Della saga e dell’amicizia di Vialli e Mancini resterà invece la foto di quell’abbraccio, entrambi in lacrime, l’anno scorso, sul prato di Wembley dopo il successo nell’Europeo: il ct e il dirigente già in lotta con il tumore, ma soprattutto i due amici. La loro è stata l’Italia dell’unità, quella di Rivera e Mazzola del campanile, dei regni vicini ma opposti.
Gianluca, scomparso a 58 anni, troppo prematuramente, era quello che quando una tifosa della Samp in lacrime lo abbracciava perché era arrivata la notizia del suo passaggio alla Juve lui rispondeva: “I veri dolori sono altri, quando qualcuno muore sul lavoro, ad esempio”.
Lui che era arrivato alla Samp di Mantovani dalla sua amata Cremona e che nemmeno lui, così come i suoi compagni si sarebbe aspettato di costruire quel miracolo sportivo e di comunione umana, almeno per la maggioranza del tempo, che fu la Samp anni ’80. Di quell’esperienza che trascinò Genova (e magari pure il Genoa) con la testa fuori da una crisi spaventosa, restano risultati grandiosi: uno scudetto, tre edizioni della Coppa Italia, una della Coppa delle Coppe e soprattutto una Coppa Campioni (quello sarebbe stato l’ultimo anno di questa antica e gloriosa denominazione) mancata per un soffio.
Se un refolo di vento ha trascinato pochi giorni fa fuori dai pali una palla che a una manciata di secondi della fine avrebbe consegnato il titolo Mondiale alla Francia, quello stesso vento trascinò una punizione di Ronald Koeman nei supplementari di una finale contro il Barcellona a infilarsi nella porta di Pagliuca.
La prima delle due delusioni più cocenti della carriera di Gianluca. Che la Coppa nel frattempo ribattezzata Champions League l’avrebbe vinta tre anni dopo con la maglia della Juve battendo l’Ajax. E l’immagine di lui che solleva la Coppa resta ancora oggi per gli undici milioni di tifosi juventini presenti in Italia l’unica in grado di diventare simbolo di gioia, superando il dolore per quell’altra vittoria, nell’85 all’Heysel, che fu simbolo solo della mostruosità latente nell’essere umano.
Il Vialli che vinse quella coppa aveva fisicamente e tatticamente quasi nulla in comune con quello che era diventato una stella della Samp. Trapattoni prima e Lippi poi ne avevano fatto un attaccante più di manovra e potente, meno scattante e fantasioso. Molto si mormorò a quei tempi, sulla trasformazione fisica di Gianluca che nella maglia della Samp pareva danzare e quella della Juve invece la saturava anticipando i tempi dei calciatori scultorei. A voler sottolineare quel cambiamento sparirono anche i riccioli e comparve una testa calva.
Forse Vialli voleva provare a essere un altro o almeno a vivere un’altra vita. Quella vissuta fino a quel momento aveva avuto in Italia ’90 il momento più basso. Partito per essere il trascinatore e pure il simbolo di quella squadra che era stata pensata per vincere il titolo nel Mondiale casalingo, era stato minato da infortuni e dallo sconforto per non riuscire a essere così incisivo come avrebbe voluto; e magari anche perché la stella di Schillaci lo stava oscurando più di quanto avrebbe potuto pensare.
Più volte escluso o sostituito da Vicini mise a segno però un gol di stile di rara bellezza, un’anticipazione di quel senso di equilibrio e di stile che ne fece di li a poco un grande giocatore e un ottimo coach nel campionato inglese e un commentatore tv poi: continuò a fondersi col gruppo, a motivarlo non lasciando trasparire mai, ne’ lo ha fatto in seguito, alcun malumore. Un uomo squadra il cui valore è stato evidente nei giorni felici dell’Europeo 2021, quello dell’abbraccio con Mancini il suo fratello di sempre
Sulla panchina del Chelsea vinse tanto (una Coppa delle Coppe, una Supercoppa europea, Una Coppa d’Inghilterra una Coppa di Lega inglese) vestendo i panni dell’allenatore giocatore. Vialli, che è stato grande ambasciatore di talento e stile, nella terra che si picca di averlo inventato il football e lo stile. A Londra ha trasferito la sua casa e il centro del suo mondo e ha messo su famiglia, con l’ex modella oggi arredatrice d’interni Cathryn White Cooper, sposata nel 2003, da cui ha avuto le due figlie Sofia e Olivia. Una famiglia riservata, lontana dal gossip in cui sguazzano tanti protagonisti del pallone.
Nel 2017 la sua vita cambia. Non nasconde il tumore al pancreas che lo ha aggredito: dirà più tardi che un male cosi grave è un’occasione per scoprire qualcosa in più di sé stessi e forse anche di migliorarsi. Lo lascerà sullo sfondo, dando aggiornamenti dei risultati della partita più dura. Una partita che per un breve periodo pensava di avere vinto o almeno pareggiato. Fino al giorno in cui ha annunciato di rinunciare ad ogni incarico per dedicarsi in toto al suo corpo.
È stato sempre un uomo felice di giocare a calcio, parlare di calcio, pensare di calcio. È stato un amico, non una figurina. E non solo per Mancini: ma per tutti noi