AGI - “Noi abbiamo rischiato l’infarto, non per scherzo, non per posa”. Difficile raccontare meglio di Gianni Brera quello che la “Partita del secolo”, la semifinale tra Italia e Germania Ovest ai mondiali di Messico del 1970, evoca e significa per i tifosi azzurri e tedeschi, reduci da una delle più dure e incerte battaglie di tutti i tempi. E cinquant’anni dopo, l’effetto non è svanito.
C’è chi la sequenza precisa dei sette gol segnati non l’ha mai scordata e la ripete come un ritornello di una canzone mai scalfita dal tempo. Boninsegna, Schnellinger, Muller, Burgnich, Riva, ancora Muller. E infine, dopo tanto patire, Rivera. Per la precisione “il piatto di Rivera”. Secco, preciso, di quelli che non danno scampo anche ai più agili tra i portieri. Quattro gol per l’Italia, tre per la Germania. 4 a 3. Una vittoria festeggiata come fosse una finale e che invece era solo un grande romanzo del Novecento calcistico. E non solo italiano. Un romanzo incompleto perché l’ultimo capitolo, quello con il Brasile, stona per tono di voce, stile e, nondimeno, risultato finale. Meglio fermarsi prima e limitarsi a quei 120 minuti di epica lotta che cinquant’anni dopo, mentre il calcio ha appena accettato di vestire i panni della ripartenza post-Coronavirus, echeggia ancora con chiarezza.
Come echeggia quel nome, Gianni, di Rivera e di Brera, capaci di illuminare quel campo messicano indossando divise diverse. Rivera così decisivo, e così criticato dal giornalista per quella fase difensiva così carente, ma che con quel gol si consacrò alla memoria di chi c’era e di chi non c’era, di chi aveva ascoltato le parole di Martellini o Ameri, in diretta, o quelle di padri e nonni che, quella volta, pur distanti chilometri dallo stadio Azteca, si sentirono, ancora di più, italiani.
Ma Brera, che di sconti non ne faceva a nessuno, il 18 giugno 1970, sulle pagine de Il Giorno, racconta come Rivera, il 10 in pagella se lo sarebbe sognato. “Effettivamente Rivera va tolto dalla difesa. Io non ce l'ho affatto con il biondo e gentile Rivera, maledetti: io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?”.
Se lo ricorda il portierone Albertosi che non gli risparmia parole e occhiatacce mentre osserva il pallone colpito da Muller insaccarsi senza che Rivera, sulla linea di porta e vicino al palo, riesca a fare nulla per impedirlo. Ma, in fondo, a un disastro si può rimediare: basta un piatto, forte e angolato, per rigirare frittata e destino.
Quell’Italia, nonostante non vinse quell’edizione dei Mondiali per colpa di un Brasile divinamente ispirato, rimane una delle massime espressioni sportive che il nostro Paese fu in grado di esprimere. Dalla roccia, difensiva e mentale, del capitano Facchetti alla vena offensiva di Riva e Boninsegna che quella maglia azzurra non avrebbe dovuto neanche indossarla in quell’inizio di estate messicana.
Ma quell’aereo che sembrava già partito lo aspettò, come ha raccontato lo stesso “Bonimba” in un’intervista all’Unione Sarda: “Il centravanti titolare era Pietro Anastasi che, il giorno della partenza per il Messico, venne operato. Io ricevetti una strana telefonata dalla Figc, in cui mi si diceva di preparare la valigia e di presentarmi a Roma, da dove sarei partito per il Messico. Vado a letto e, la mattina dopo, mi sembra d'aver sognato, tant'è che chiedo a mia moglie la conferma di quel colloquio telefonico. Col ct Valcareggi per me sarebbe stata dura. Infatti, andai al Mondiale grazie al malore di Anastasi”.
Con il suo gol, all’ottavo minuto, inizia però il racconto della partita del secolo. Perché dopo il vantaggio l’Italia, catenacciara ed estrosa allo stesso tempo, si difese con ordine fino al 92’ quando un difensore tedesco dal presente milanista, Schnellinger, decide di segnare il suo unico gol con la maglia di Germania e di rimandare una gioia che non avrebbe avuto, però, contorni mitici e leggendari.
Nei trenta minuti successivi sono cinque le marcature realizzate. E di queste, come ricorda ancora la penna di Brera, poche degne di essere definite tali. Oltre ai gol di Riva e Rivera, infatti, “tutti gli altri, sono rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich)”. Brutti nell’estetica, certo, ma validi. Maledettamente validi. Perché se anche in tecnica e in tattica lasciò a desiderare, quella partita, allora come oggi, seppe riscattarsi su un altro piano: “Sotto l’aspetto agonistico, quindi anche sentimentale, (fu) una vera squisitezza”.
Ed è proprio l’aspetto sentimentale, da gol riveresco alla spalla malconcia dell’ultimo guerriero tedesco ad arrendersi, Franz Beckenbauer, ad aver fatto diventare Italia-Germania Ovest la “Partita del secolo”. Perché anche nel 2020, ricordandone gesta e dettagli, ciò che più risalta oggi è la capacità di farci innamorare di un gioco senza tempo e di una maglia di un bellissimo colore, l’azzurro. Come ha detto Brera, “una squisitezza”. Sì, ma anche grazie a “un piatto” indimenticabile.