L a generazione perduta del calcio ha smarrito la strada in Africa, in un dedalo di sogni infranti, dribbling impossibili e una selezione naturale che sa molto di operazione di mercato ed un po’ anche di eugenetica. Li avevano radunati tutti, i più talentuosi e i più promettenti, per trovare il Migliore, il Calciatore Perfetto, il nuovo Messi che un giorno avrebbe, al Messi vero come al suo grande rivale CR7, tolto il trono con un parricidio degno del peggior Bruto, o un atto di giustizia divina come Zeus fece con Kronos.
Di loro non ne è restato nemmeno uno solo. Perché l’unico che pure non è rimasto sconfitto dalla vita non ha certo avuto il destino non si dica di Maradona, ma nemmeno di Padoin: una vita da mediano che non ha mai vinto il Mondiale, ma almeno cinque scudetti italiani se li è cuciti sulla maglia. Non stupisce, se si considera che su diecimila ragazzi iscritti oggi alle scuole di calcio del Regno Unito solamente 100 riusciranno a fare mestiere della loro passione. Uno su cento ce la fa, nella terra natale del football. Che se poi diventa soccer, fenomeno sportivo mediatico economico e pop al tempo stesso su scala globalizzata, si fa ancora più duro e più spietato. Non è un caso, forse, se dietro questa storia c’è la mano degli sceicchi, che insieme ai magnati russi sono l’anima di tanto fulgore di quattrini e coppe internazionali giocate ad ogni ora del giorno e della notte, perché il soccer non dorme mai.
La storia è quella di Football Dreams, il programma internazionale per la grande accademia mondiale del calcio da cui avrebbero dovuto essere sfornati tutti i campioni dei prossimi quarant’anni, e del suo terribile fallimento. La racconta Sebastian Abbott, uno scrittore di New York, nel suo libro The Away Game; The Epic Search for Soccer’s Next Superstars. Un’epopea al contrario, l’epica di una sconfitta.
Tutto comincia con un’esplorazione in barca lungo il delta del Niger, nel 2007. Su un vascello, sotto la scorta armata di un pugno di ribelli, un europeo dalla pelle bianca va alla ricerca di ragazzi di particolare prestanza fisica da portare lontano da casa. Si chiama Josep Colomer, ed è l’uomo che anni prima ha scoperto in una periferia argentina un ragazzetto gracilino e in ritardo con lo sviluppo. Uno che gli amici chiamavano La Pulce. Lui lo ha portato a Barcellona, trasformandolo in Lionel Messi.
Se è riuscito a fare una cosa del genere con Messi, è il calcolo, chissà cosa si può fare con qualcuno di quei ragazzi alti e fisicamente fortissimi che crescono tutto talento naturale e palloni fatti di cenci in quella che tutti considerano la futura casa del calcio. E non è un calcolo suo: i soldi per risalire il Niger glieli ha dati Jassim bin Hamad al-Thani, della famiglia degli emiri del Qatar. È lui che punta cento milioni di dollari sull’operazione. Il suo emirato, nel 2022, ospiterà i Mondiali e la nazionale locale dovrà scendere in campo, perché il paese ospite è qualificato di diritto: meglio allora non rischiare brutte figure, e quindi preparare per tempo il vivaio. Almeno questa è la motivazione ufficiale.
Colomer, che il suo mestiere lo conosce bene, con quei soldi organizza in poco tempo una rete di seimila tra osservatori, allenatori, talent scout e reclutatori. Nel corso degli anni successivi gireranno l’Africa, soprattutto Ghana e Senegal, alla ricerca di bambini forti, scattanti e di piedi buoni. Età massima richiesta: 13 anni. Più grandi no: troppo giovani per essere immediatamente rivenduti sui mercati europei ed asiatici, troppo anziani per essere formati. La ricerca del nuovo Messi è senza quartiere: si calcola che siano centinaia di migliaia i ragazzi scrutati dagli occhi rapaci della Football Dreams. Centinaia di migliaia ogni anno, in ogni angolo d’Africa. I ragazzi che superano la prima, difficilissima scrematura vengono portati lontano, a Doha, a giocare a calcio dalla mattina alla sera. In una sorta di Disneyland che si chiama Aspire Academy.
L’idea pare funzionare: la megascuola degli aspiranti accademici del soccer sforna i suoi primi giovani talenti, che in una serie di test match abilmente organizzati con i parigrado ben più blasonati del Real Madrid e del Manchester United fanno polpette degli avversari. Persino un giovanissimo Neymar, agli albori delle sue glorie, fa le spese delle capacità manovriere di questa legione straniera di bambini affamati di vittorie. Ma è solo l’alba di un giorno che non arriverà mai.
La Fifa, un po’ per dovere e forse anche un po’ per preoccupazione, avvia degli accertamenti, e si scopre che i ragazzi o sono troppo ragazzi o non lo sono per nulla. In altre parole, alcuni hanno ben più dell’età dichiarata, altri molto meno. In certi angoli d’Africa l’anagrafe è un concetto relativo. Risultato: o non possono restare perché fuori età, o devono essere immessi immediatamente nel circuito del calcio internazionale.
E poi ci sono anche altri fattori, perché non è sul solo rigore sbagliato che si giudica un giocatore: troppo motivati, troppo individualisti, non sanno fare spogliatoio, non stanno alla disciplina, non sanno controllarsi sul campo. Gli emiri posseggono una squadra di seconda divisione in Belgio: è lì che ne mandano qualcuno a farsi le ossa su un vero campo da gioco. L’esperimento però riesce solo a metà e la Serie A resta irraggiungibile. Altri evidenziano problemi di personalità; altri ancora se ne vanno per conto proprio, convinti di avere il mondo in mano. Uno solo, fra tutti, finisce al Barcellona, ma non andrà mai oltre la panchina.
E alla fine, nel 2016, Football Dreams chiude i battenti, con i suoi dreamers abbandonati a se stessi. I più sfortunati sono preda di procuratori senza scrupoli e senza contatti con i club: c’è chi finisce a vivere di espedienti, con la vergogna di non poter tornare a casa a mani vuote. Dove intanto, nella polvere di campetti rossi di terra, i loro fratelli più piccoli continuano a tirare calci a palloni fatti di pezza ma con addosso la maglietta di Messi. Quella originale, perché il soccer sarà pure per Foreign Affairs un mondo pieno di ombre, ma è anche una macchina che non dorme mai, che non si ferma mai.