K obe Bryant amava l'Italia. E l'amava perché in quei sette anni passati nel nostro Paese, dai 6 ai 13 anni, aveva imparato, per davvero, a giocare a pallacanestro. Quello sì, il vero amore della sua vita. Nel marzo del 2019 venne chiamato a sorteggiare i gironi del mondiale di basket giocato poi alla fine dell'estate e, in un'intervista rilasciata alla FIBA aveva ricordato l'importanza di quegli anni: "Crescere dall'altra parte dell'oceano mi ha dato un incredibile vantaggio perché avevo imparato i fondamentali. Non come fare il giocoliere ma come muovermi senza palla e usare i blocchi, utilizzare entrambe le mani, passare la palla in maniera efficace". Metodi che in America non avrebbe trovato. "Facevamo solo una partitella a settimana, se eravamo fortunati". Chi ha giocato a basket sa quanto valgono queste parole.
Kobe non era capitato per caso nel nostro Paese. Suo padre, Joe, anche lui cestista, aveva deciso di venire a giocare in Europa portandosi dietro la famiglia. Quattro città dove il basket è, ancora oggi, più che una religione: Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Kobe era piccolo ma giocava già con i più grandi. Nel torneo plasmon aveva 6 anni, gli altri 9. Il giornalista Andrea Barocci lo ha raccontato bene nel suo libro “Un italiano di nome Kobe”. E vale la lettura.
Come ricorda La Giornata Tipo, la piattaforma (sito e social) che meglio racconta il basket, Kobe non era uno che mollava. Fin da piccolo ci teneva a giocare, a diventare il più forte, a far vedere cosa era in grado di fare. Per quello diventerà "Black Mamba". Uno, con la palla in mano, davvero letale. Ma che dentro era capace di emozionarsi. Soprattutto con la palla a spicchi tra le mani e i compagni tutt'attorno pronti a ricevere un passaggio, uno scarico per un tiro da fuori o una schiacciata. O semplicemente per vederlo arrestarsi, fintare, alzare la parabola e, come sempre, fare canestro.
Nel 2016 fu intervistato da Radio Deejay esprimendosi in un italiano quasi perfetto. "Lo parlo poco, ogni tanto con le mie sorelle". L'occasione era quella di incontrare, in Italia, alcuni giovani fan per ricordare loro che "la cosa più importante è che quella che state facendo ora". Il concetto resta lo stesso, quello che lui aveva imparato da piccolo: "Le cose che sembrano piccole in questo momento, con grande lavoro, diventeranno tra due anni cose grandissime".
Il legame con l'Italia, così come quello per lo sport, lo aveva trasferito anche alle figlie. Natalia Diamante, Bianka Bella e Capri Kobe e Gianna Maria-Onore. Nomi che raccontano il nostro Paese e che ne evocano i luoghi. L'ultima Gianna, 13 anni, è morta con lui, nell'incidente in elicottero che lo ha ucciso a soli 41 anni.
Kobe and Gigi courtside breaking down the game pic.twitter.com/FxqSjVx6ew
— ESPN (@espn) December 22, 2019