“Davanti al virus siamo tutti uguali soltanto dal punto di vista del contagio”. Andrea Purgatori ha titolato “Effetti collaterali” l’ultima puntata del suo ‘Atlantide’ (il mercoledì sera su La7 ore 21.15), programma ormai dedicato, racconta il giornalista-conduttore all’AGI, quasi completamente all’approfondimento del virus. Due puntate, le prime dal via al lockdown, le ha condotte addirittura da casa sua, con tutte le difficoltà del caso, quando, di ritorno da una zona rossa, era in autoquarantena.
Il coronavirus visto come “livella” è quindi un facile slogan ?
“Difficoltà, angosce e problemi di sopravvivenza si moltiplicano per disabili, anziani nelle case di riposo, migranti. Nel nostro racconto in diretta che si è aperto con una riflessione di Ascanio Celestini sulle diseguaglianze sociali di questa tragedia, per capire che il problema per qualcuno è ben più grave della rinuncia a una corsetta al parco bastava sentire la psicoterapeuta Priscilla Berardi. Ha affrontato il tema della disabilità, raccontando il dramma di chi non riesce a comunicare e l’angoscia espressa da quelli che temono di finire in ospedale, con l’incubo di essere scartati a favore di altri nella drammatica assegnazione dei posti in terapia intensiva”.
Ormai le inchieste storiche e i reportage esteri di Atlantide hanno abdicato a favore dell’approfondimento del virus.
“Ho già pensato ad alcune puntate su temi diversi, ma in questo momento è difficile fare altro in tv. Da una parte i telespettatori non ne possono più di ospedali e conteggio dei decessi, dall’altra vogliono essere informati. Il nostro tentativo è quello di parlare di quello che sta succedendo, trovando prospettive e filoni diversi”.
Ha approfondito il tema dell’infodemia…
“L’intasamento delle notizie, vere e false, che stanno accompagnando la pandemia con la relativa difficoltà ad orientarsi del pubblico. C’è anche una dose di responsabilità di chi fa informazione, trovo sbagliato rincorrere qualsiasi opinione o notizia, anche se il vero elemento di pericolo in questo senso sono i social dove si diffondono fake news, ad esempio quella cospirazionista sul 5G responsabile del contagio: lo pensano le stesse persone che credono alle scie chimiche, i no vax, e non sono poche…”
Continuando con le etichette relative al virus, la convince la definizione, parecchio di moda, di “guerra contro un nemico invisibile”?
“Le guerre le ho seguite da inviato e trovo che questa sia una definizione che rischia di disorientare il pubblico, perché nelle vere guerre sai dove sono i nemici sul campo, adesso invece non è chiaro neanche dove si prende il virus: ho amici che si sono ammalati e ancora non sono riusciti a capire dove e come è successo, quello che prevale è la paura di finire intubati. Sono convinto invece che il coronavirus più che una guerra abbia generato uno stress totale del sistema sanitario, che ci costringe a una serie riflessione e a un ripensamento sulla sua organizzazione, e non certo solo in Italia”.
A parte le due puntate forzatamente casalinghe, cosa è cambiato tecnicamente nella preparazione e nella messa in onda di Atlantide?
“Le difficoltà della diretta ci sono, dai collegamenti via Skype che saltano allo straniante studio dove tutti quelli che lavorano (rigorosamente a turno per mantenere il distanziamento sociale) indossano mascherine e guanti, me compreso: prima della diretta cambio almeno quattro o cinque paia di guanti, li indosso con la mascherina fino a un attimo prima di andare in onda e poi approfittiamo di ogni interruzione pubblicitaria per lavarci le mani. I veri problemi, però sono alle spalle delle dirette. Per organizzare il programma facciamo almeno tre o quattro riunioni al giorno via Skype, ed è sicuramente molto più complicato del vedersi tutti intorno a un tavolo. Il racconto di ‘Atlantide’, prevede una costruzione diversa dai talk che ragionano su circa 15 collegamenti, io nell’ultima puntata ne ho avuti tre, via Skype all’interno di un copione di 15-20 pagine che scrivo insieme ai miei autori”.
Il virus come le sta cambiando la vita privata?
Mi manca la possibilità di vedere i miei figli, adesso magari ci sentiamo più di prima, ogni giorno abbiamo il nostro appuntamento su Skype, ma non è certo la stessa cosa dell’andare a cena insieme. E poi mi mancano i ritmi della vita di prima: il mio lavoro, i miei racconti, mi portavano a prendere almeno un treno o un aereo a settimana, magari qualche volta lo trovavo stressante, adesso ne ho nostalgia”.