F anno tenerezza, Lenù e Lila, che scoprono se stesse e con se stesse, il valore forte di un’amicizia destinata a durare per tutta la vita e l’asprezza di un mondo, quello dei “grandi”, che sentono così ostile.
I primi due episodi della serie tv di Saverio Costanzo, “L’amica geniale”, tratto dal bestseller di Elena Ferrante, hanno tutta la crudezza dello stile asciutto della scrittrice dal quale traspare anche il palpitante desiderio di vita che anima le protagoniste e il senso profondo del racconto.
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La prima della serie tv è stata un evento: sui social l’hashtag “LAmicaGeniale” è stato un trend topic già da prima che andasse in scena. Lenù e Lila hanno insomma conquistato il pubblico, dall’inizio quando attraverso gli sguardi imparano a conoscersi.
Mentre il loro legame si sviluppa, e si fortifica in occasione della sfida con un “guappo” violento che le malmena, è l’esistenza tutta del Rione a scorrere, pieno di contraddizioni, di ingiustizie ma anche di gesti di gentilezza inaspettati. Non si conosce la sua reale ubicazione, ma si capisce che è una zona degradata, di una città che accenna a rialzare la testa dopo il Dopoguerra (siamo negli anni Cinquanta), dove convivono piccole e grandi prepotenze e dove chi è il più forte ha sempre ragione.
Tra le due bambine, così diverse tra di loro, una bionda, l’altra bruna, una più accondiscendente, l’altra più ribelle, si sviluppa un forte sodalizio quasi un’alleanza per sopravvivere. Ma entrambe conservano la freschezza della loro età - come ha voluto la stessa Ferrante che ha collaborato alla sceneggiatura, sono state scelte due attrici non professioniste (Elisa Del Genio è Elena, detta Lenù e Ludovica Nasti è Raffaella, detta Lila) - amano giocare con le bambole, e sognano un futuro diverso, in cui possano riscattarsi e allontanarsi da lì.
La fuga è rappresentata proprio da un ponte, al di là del quale c’è il mare, quel mare che a loro non è permesso di vedere. Ma è soprattutto con la lettura che riescono a sognare un nuovo domani, al punto che leggono avidamente per mesi e mesi “Piccole donne”, libro che sono riuscite ad acquistare solo grazie al fatto che don Achille, l’usuraio di quartiere, ha regalato loro 20 lire come “riscatto” per le loro bambole.
La voce fuori campo che narra la storia è quella di Lenù, la quale confida come non riesca a sottrarsi da quell’amica ribelle, selvaggia quasi, con cui condivide tanti sogni e segreti. “Quello che fai tu, lo faccio anch’io”, le dice ma non per desiderio di emulazione. E’ un qualcosa che va oltre, porta all’istinto di potersi fidare di qualcuno, di avere una sintonia che in casa, come nel Rione, sa di non poter trovare.
Sono entrambe brave a scuola, ma soltanto Lenù riesce a fare l’esame di ammissione alle medie, a Lila non è consentito perché il suo futuro è già segnato dalla famiglia, e non è sui libri di latino.
Ed è per questo che l’amica, umiliata, si allontana ma poi la vita del Rione le fagocita nel loro tran tran di violenza e tornano nuovamente in contatto. I dialoghi sono in dialetto, ma ci si aiuta con i sottotitoli; l’ambientazione ha come colore predominante il grigio, con tanto di lenzuola distese, di volti femminili giovani ma segnate dalla disperazione, di bambini che guardano il mondo con fare disincantato e di padri violenti. Ma la realtà è, o meglio è stata, questa e l’adattamento allo schermo dell’Amica geniale non ci risparmia niente. Nemmeno la speranza, quella fiammella nel cuore di tutti per la quale riusciamo a consolarci dicendoci, in dialetto ovviamente, “tiramm ‘annanz”.