AGI - Quarto appuntamento con i commenti di Umberto Broccoli ai testi dei brani in gara al Festival. Archeologo, professore universitario, ex Sovrintendente ai Beni Culturali di Roma Capitale, Commendatore della Repubblica, ideatore e conduttore dello storico programma radiofonico Rai ‘Con parole mie’, Broccoli è autore di “Questa è la storia” (Bompiani, 2019), viaggio in 50 anni di vicende italiane, dal 1938 al 1988, attraverso le canzoni che raccoglie la sua esperienza di narratore del nostro Paese sul Corriere della Sera e Sette utilizzando la chiave delle canzoni come memoria collettiva e privata. Attualmente nel cast del rotocalco quotidiano di Rai 1 ‘La volta buona’ ed in onda ogni giorno su Rai Radio 1 con ‘Cento storie per un secolo di radio’, è consulente per il film che Pupi Avati sta realizzando sul centenario della radio ed interviene nel dibattito culturale sui periodici ‘Gnosis’ e ‘Rivista Militare’.
Quarto gruppo di 6 canzoni: iniziamo da La Sad e ‘Autodistruttivo’ (di R. Zanotti - F. E. Clemente - M. Botticini - E. Fonte - R. Zanotti - M. Paganelli - M. Botticini).
I La Sad si definiscono guerrieri col cuore da cucciolone, ma vorrei spendere qualche parola sul loro modo di abbigliarsi. Io ero abituato a vedere i cantanti, ed i calciatori, vestiti come persone comuni. Se negli anni ’70, ad esempio, incontravi Gianni Rivera, trovandolo in giacca e cravatta o maglioncino lo riconoscevi dal viso. Oggi non succede più con i calciatori e nemmeno con certi artisti che vestono da artisti. Sia detto con profonda simpatia: attenzione al prevalere dell’apparire sull’essere. Di fronte a creste e borchie si pensa più a ciò che si vede che a ciò che si sente. Per venire, appunto, a quello che si sente: questo brano ci comunica un messaggio di autodistruzione che non sono certo sia positivo in questa fase della nostra esistenza comune. Preferirei altro, specie leggendo: ‘Vive sotto effetto per scappare dai ricordi’. Credo di capire di quale effetto si tratti e ritengo sarebbe opportuno non metterlo in piazza, e soprattutto che non che ci dovrebbe essere autocompiacimento. La frase: ‘E prendo a pugni lo specchio io non riesco a cambiare chi vedo riflesso’ riporta al mito di Narciso che specchiandosi si innamora, ma poi si trova a combattere la sua immagine. Io più che il riflesso vorrei vedere la riflessione, ma il verso ha il pregio di riportarci anche alle realtà altre di Alice. La chiusa recita: ‘Il tuo cuore è di plastica e starti vicino e autodistruttivo’. Ma allora distruggiamolo questo ricordo: più che indugiare su una cosa che non c’è e fa male cerchiamo di individuarne una che c’è e ci può fare del bene.
Loredana Bertè torna a Sanremo con ‘Pazza’ (di L. Bertè - A. Bonomo - L. Chiaravalli - A. Pugliese).
Parlare di Loredana significa attraversare decenni di musica italiana. La sua canzone ha una linea autobiografica addirittura di autodenuncia, perché è lei a dire testualmente:’Io sono pazza di me e voglio gridarlo ancora’. Una vera dichiarazione d’amore nei confronti di se stessa ed anche di chi che l’ha definita pazza in passato. A proposito di definizioni, non voglio citare, ma solo sfiorare il pettegolezzo che ha funestato la vita della sorella per ricordare quanto sia antico e purtroppo comune il germe oscuro del pettegolezzo in qualsiasi ambiente, ma soprattutto quello dello spettacolo. Loredana, in questa canzone dalla ritmica incredibile, si definisce senza peli sulla lingua: ‘Sono sempre la ragazza che per poco già si incazza’ ammette, aggiungendo ‘Amarmi non è facile’. Ne sa qualcosa una generazione di tennisti anni ’70, da Panatta a Borg. ‘Purtroppo io mi conosco’ continua, ma anche noi la conosciamo: è estroversa, incontenibile, stravagante e soprattutto un’artista. Nessuno può dimenticare che nell’1986 si presentò a Sanremo con una canzone di Mango intitolata ‘Re’ ed una coreografia di Franco Miseria che prevedeva un pancione da donna incinta. Esplosero le polemiche e la sua casa discografica sciolse il contratto. Ma decenni dopo, nel 2011, Lady Gaga esibì lo stesso look citandola volontariamente, tra gli applausi, addirittura sulla BBC. In ‘Pazza’ non mancano geniali quanto singolari passaggi come: ‘Io cammino nella giungla con gli stivaletti a punta e ballo sulle vipere’. Io non ci riuscirei, nemmeno portando il siero antiofidico contro i morsi. Loredana parla chiaro: ‘Non mi fa male la coscienza’. E dimostra che possono esserci canzoni provocatorie senza mettere in scena droghe e pistole. ‘Non ho bisogno di chi mi perdona io faccio da sola’ precisa infine definendo la sua totale indipendenza. La chiusa: ‘Sì perché mi sono odiata abbastanza prima ti dicono basta sei pazza e poi ti fanno santa’ denuncia una caratteristica della nostra società: si parla alle spalle e poi, quando si scopre che i germi della follia erano da artista, si santifica. Un pezzo che entra in una serie di grandi canzoni italiane dedicate alla pazzia, come ‘Ti regalerò una rosa’ di Cristicchi, ‘L’uomo coi capelli da ragazzo’ di Fossati ed un ‘Un matto’ di De Andrè, contenuta nell’album “Non al denaro non all’amore né al cielo” ispirato all’Antologia di Spoon River.
Mahmood interpreta ‘Tuta Gold’ (di J. Ettorre - A. Mahmoud - F. Catitti - J. Ettorre - A. Mahmoud)
Anche una tuta può servire a ricostruire tratti di storia del nostro paese. In questo caso si tratta di un modello in acetato di quelli che andavano di moda negli anni ’90: è stato lo stesso Mahmood a dichiararlo. In termini di abiti, si passa così da ‘i Roy Roger’s come jeans’ mitizzati dagli 883 nella loro ‘Gli anni’ dedicata agli ’80, al decennio successivo. Mahmood mette dunque al centro del suo racconto la tuta dorata di uno spacciatore, fotografando la vita di periferia in versi come: ‘Fumando fino all’alba non cambierai e non cambierò fottendomi la testa in un night’. Capisco la rima con night, ma molto meno, e certo è un mio limite, il resto. Vi è presa di distanza o senso di compiacimento nella frase? Certe cose vanno raccontate, ma credo sia necessario porsi, oltre che come testimoni, anche come giudici. Se c’è presa di distanza condivido in pieno testo e ispirazione, altrimenti esprimo perplessità. Leggendo: ‘Ricorderò i gilet neri pieni di zucchero’ è evidente che non si parla di Adelmo Fornaciari o di saccarosio, ma di altra polvere bianca. Benché io sia cresciuto negli anni ’60 e ’70 e ricordi bene quando al liceo Tasso di Roma si affacciava l’acido lisergico - celebrato in quella comunione laica che fu il musical, poi film, di Milos Forman “Hair” - da usi simili mi sono sempre tenuto lontano. Mahmood continua con un altro click fotografico esistenziale: ‘A stare nel quartiere serve fottuta personalità se partirai dimmi tua madre chi la consolerà’. Ed io mi chiedo ancora: si distacca o descrive questa ‘fottuta personalità’ con compiacimento? Se vale la prima ipotesi, non sono stato in grado di cogliere il suo intento. Del fenomeno purtroppo trasversale della droga si è parlato tante volte nelle canzoni, ad esempio ad inizio anni ’70 in ‘Un ottico’ di De Andrè: ‘Non più ottico ma spacciatore di lenti per improvvisare occhi contenti perché le pupille abituate a copiare inventino i mondi sui quali guardare’. Nonostante come uomo Fabrizio abbia amato l’estremo, nel suo testo si sente la presa di posizione. Perché chi fa un mestiere pubblico deve immagine di poter essere considerato esempio. Anche non volendolo.
Mannini presenta ‘Spettacolare’ (di A. Mininni - F. Xefteris - W. Guglielmi - G. Pollex)
Quando dico che non c’è bisogno di esibire look trasgressivi o raccontare vicende a tinte fosche penso a Mannini e alla sua ‘Spettacolare’. La parola spettacolo ha una antica radice latina che indica il vedere e l’osservare. E Mannini osserva e scrive: ‘Tutto il mondo è una gabbia di specchi una partita a scacchi con la verità’’. Si tratta di un testo forte e ben concepito, costruito e sviluppato. ‘Ho imparato a cadere con stile con fanno i campioni di muay thai’ recita un altro verso. Rimandando alla definizione del campione olimpico per eccellenza: non quello che non cade mai, ma quello che si risolleva e continua la gara. Mannini crea una canzone d’amore dando efficacia alle sensazioni e valore al contatto fisico: ‘Stringerti forte è spettacolare come l’amore il primo giorno d’estate come i dischi belli che non scordi più come l’istante che ti cambia per sempre’. Sarebbe interessante, e lo consiglio, provare a leggere queste parole con intonazione attoriale, come fossero una poesia, davanti a uno specchio. Ne chiarirebbe la potenza, anche se canzone e poesia restano cose molto diverse. ‘E non ci saranno le giornate bastarde quelle che non ce la fai più’ è infine una citazione, forse non voluta, del Vasco Rossi di ‘Vita spericolata’.
Mr. Rain interpreta ‘Due altalene’ (di M. Balardi - L. Vizzini)
Prende ispirazione da una mancanza familiare questa canzone che inanella una serie di immagini costruite su frasi estremamente tradizionali, ma non per questo meno efficaci. Siamo di fronte a quello che chiamo luogo comune, ma dando l’accezione migliore al termine: un qualcosa di trasversale che riguarda tutti. Un verso come: ‘parlarti di quello che sento mi sembra impossibile perché non ci sono parole per dirti cosa sei per me’ appare obiettivamente di quelli che ognuno potrebbe scrivere, ma proprio per questo parla a ognuno di noi. Anche: ‘Tu mi hai insegnato a ridere tu mi hai insegnato a piangere’ esprime concetti che originano nella tradizione, ma al tempo stesso restituisce immagini ed anche voglia di vivere o rivivere ‘momenti vissuti di già’, citando ‘Il mare d’inverno’, brano di Ruggeri portato al successo dalla Bertè. A proposito di piangere: l’occhio umido di lacrime si dice sia quello che vede più lontano, perché quello della passione dei sentimenti. ‘L’ho imparato da te che certe volte un fiore cresce anche nelle lacrime’: chi ha detto che piangere è sintomo di debolezza? Denota invece forza saper esprimere la passione che ci abita, dimostrando di non voler reprimere i sentimenti, compresi tristezza e malinconia. Insomma, complimenti a Mr. Rain, nel suo brano trovo intensità, trasporto e voglia di abbandono. Bene anche andando verso la chiusura: ‘In mezzo al temporale abbiano unito i nostri lividi come due oceani indivisibili’. Sembra una provocazione, ma i lividi sono frutto dei colpi della vita e gli oceani indivisibili la realtà: siamo noi che abbiano creato confini e divisioni anche sui mari.
Chiudiamo con Negramaro e la loro ‘Ricomiciamo tutto’ (di Giuliano Sangiorgi).
Ricordiamo che i Negramaro presentarono a Sanremo Giovani del 2005 ‘Mentre tutto scorre’, con una partenza non dichiaratamente colta, ma che sottotraccia riportava a Eraclito e alla filosofia greca. Anche oggi, tanti anni dopo, presentano un’operazione colta senza esibirla. Sangiorgi nomina Battisti e cita Mogol con parole come ‘discese e risalite’ e ‘bionde trecce’, scegliendo soluzioni che mostrano una ricerca nella tradizione ed al contempo una innovazione della stessa. E’ la forma con cui si va avanti, perché pensare che la vita sia fatta solo di presente è un errore, come spiegava il grande scrittore spagnolo George Santayana, secondo il quale chi non conosce la propria storia è condannato a riviverla. Il futuro, nei fatti, si costruisce sul passato e non esiste una dimensione del presente fino a se stessa. Oltre ad operare un recupero della tradizione la canzone si avventura nella quotidianità: ‘Quanto tempo ti manca per esser pronta? Io sono sotto che ti aspetto, così ti porto al mare.’ E noi ripensiamo a ‘Una giornata al mare’ di Giorgio e Paolo Conte ed al verso ‘ti porterei ogni giorno al mare’ di ‘Sara’ di Venditti. Poi c’è il compiacimento di: ‘Non rifacciamo il letto!’ che suona gioiosamente opposto al ‘dai rifai quel letto’ del Baglioni di ‘Io me ne andrei’. Due letti sfatti molti diversi. La canzone trasmette una reale voglia di vivere e ripartire, anche nel senso di viaggio; il verso: ‘Basta saper andare, andare, andare... Chi se ne frega dove?’ riporta a contrario ancora a Baglioni, ed al malinconico verso di ‘Poster’: ‘e tu che sogni di fuggire via e andare lontano’. Dopo tante riuscite citazioni, divertente l’idea di chiusura: ‘Io, qui, ti aspetto! Dici che poi ti trovo in un cassetto.’