Daniele Silvestri – “Disco X”: Con questo suo decimo album, anche per questo “X”, Daniele Silvestri altro non fa che resistere. Resistere al trend che ci dice che gli album non servono più, che ci si deve adeguare ad un mercato nuovo, che bisogna spingere sui social, che bisogna sperare nell’algoritmo, questa entità suprema e misteriosa che ogni singolo aspetto della nostra esistenza parrebbe dominare come un impietoso Grande Fratello (quello di Orwell, non quello di Signorini, mannaggia a voi!). Certo, è chiaro, non parliamo di un giovincello alle prime armi, Silvestri ha assunto uno status per cui può fare il proprio mestiere serenamente all’interno dell’abbraccio della sua comunità di ammiratori, ma non crediamo sia ugualmente facilissimo il confronto con questi ragionamenti che non lasciano spazio alla musica intesa esclusivamente come musica. Ecco, basterebbe questo per definire “Disco X”, un album musicale, inciso con l’artigianalità di chi ha qualcosa da dire e sa come dirla, come costruire un suono, come costruire un messaggio. L’album, come tutti quelli dei grandi autori, e Silvestri è grandissimo autore, andrebbe ascoltato con calma, andrebbero analizzate pure le virgole, andrebbe gustato ad occhi chiusi, stesi a letto, guardando il soffitto bianco, in modo tale che i nostri occhi si riempiano di parole così azzeccate, di concetti così intimi, superiori, enormi, filtrati attraverso una penna che si fa sempre più raffinata. Concetti che andrebbero sottolineati come si fa con le frasi sui libri che ci regalano quel lampo improvviso di lucidità ed enormità. Si, perché Daniele Silvestri cambia, si evolve, matura, non segna mai il passo, anche quando il luogo dove potrebbe segnarlo è particolarmente felice; tipo che avrebbe potuto provare ad inseguire dieci, cento, mille “Salirò”, ma non è più quella la sua esigenza, segno di una grandezza come musicista e anche come uomo, curioso di esplorare, a cavallo del proprio talento, tutti gli anfratti dell’esperienza del vivere. In “Disco X” c’è tanta vita, c’è ogni centimetro di rughe, c’è la solita ironia sottile e pungente, c’è la parola, vivisezionata e poi celebrata come elemento sostanziale, che gonfia i cuori di chi ascolta. C’è Daniele Silvestri insomma, uno degli ultimi amici rimasti nella musica italiana, uno degli ultimi a provare a dare un senso alle composizioni che vada oltre l’incremento vuoto della propria visibilità. C’è Daniele Silvestri; e menomale.
Madame – “Aranciata”: Strano ascoltare un brano così cupo mentre l’estate già ustiona di vuoto cosmico la musica italiana. “Aranciata” parla di una rottura con la profondità e la solidità solita della brava Madame e un sound vagamente anni ’80 che irrompe nel ritornello. Il brano è evidente che completa in qualche modo la narrazione di “Amore”, l’ultimo bel disco della nostra, nonostante in certi punti non ne regga la drammaticità, la crudezza, che sono stati gli elementi (ma sarebbe meglio chiamarli pugni allo stomaco) che lo rendono un lavoro davvero memorabile. “Aranciata” invece è semplicemente un buon brano; comunque, oh, ad avercene.
Tony Effe ed Emma – “Taxi sulla luna”: L’efficacia delle produzioni della premiata ditta Takagi&Ketra applicate al trash di Tony Effe con una spolverata di Emma su ritornello e special. Non un brano, una ricetta, tutto sommato riuscita, perché tutto funziona abbastanza bene, in particolare, immaginiamo, al quinto gin tonic. Certo, parliamo di un tormentone che tra una manciata di settimane riporremo a marcire nello sgabuzzino della casa al mare insieme a maschera e pinne, lo ritroveremo (forse) l’anno prossimo scolorito e lo butteremo via.
Francesca Michielin – “Fulmini addosso”: Chill ballabile interpretata molto bene, con una misura che apre spazi per una narrazione esistente. Non ce la sentiamo di definirlo un tormentone estivo a tutti gli effetti perché dentro non ci troviamo i soliti clichè del genere, perché è una canzone che dice qualcosa, non una scusa per un altro shot di tequila per un gruppo di “Woo Girls”. Sicuramente è un brano estremamente radiofonico ma forse, proprio per l’indole cantautorale della Michielin (ma che ti salta in testa di provare a raccontare qualcosa nei tuoi pezzi Francesca??!!), sarà sotterrato da tutte quelle hit pronte ad assecondare l’insignificanza della musica di questa stagione. In ogni caso è un lavoro strutturato, che parrebbe vivere di vita propria, senza alcuna ruffianeria nei confronti delle discoteche all’aperto.
Irama e Rkomi – “Hollywood”: Un brano che vive solo ed esclusivamente del lavoro al banco regia del bravo Shablo, che lo salva da quella che dovrebbe essere leggerezza e invece è solo inconsistenza totale, dandogli delle vesti cool con una iperproduzione che prova a nascondere le falle, tante, a livello narrativo. Il singolo anticipa il loro joint album “No stress”; esattamente quello di cui avevamo bisogno, si, un’altra addizione musicale che, se questi sono i presupposti, risulterà del tutto fine a se stessa, utile solo per moltiplicare stream e follower. E abbiamo fatto la musica.
Francesco Renga e Nek – “Il solito lido”: Perché l’estate sorridente a tutti i costi è una bugia alla quale solo i ragazzini possono credere, “Il solito lido” è un gran bel pezzo, a prescindere dalla stagione, scritto e composto a dovere da due personaggi della musica enormi come Renga e Nek che confermano quanto sia felice la loro collaborazione. Diciamo che si tratta di un tormentone per adulti, che però, essendo per adulti, viene filtrato da quelli esagerati orpelli in fase di produzione, da quegli effetti extraterrestri che provano a rendere tutto digeribile, rendendo tutto plastificato. È una canzone con un sound estivo, che stuzzica gli anni ’80 con gusto, ma mantiene quella malinconia di fondo alla quale chi ha superato i 35 è tanto affezionato, per giustizia eh, perché tutta questa gioia giovanile ci percuote l’anima. Professionisti. Bravissimi.
Shiva – “Santana Season”: Facile fare due dischi in otto mesi se non si ha nulla da dire, se tutto ruota intorno ad una vacuità di fondo, se non si ha la capacità o il talento o la voglia, cambia poco, di affondare il colpo, di scrivere qualcosa di significativo che vada oltre la solita noiosissima autocelebrazione. Come dipingere una tela con un unico colore, resettando la differenza che c’è tra Modigliani e un qualsiasi imbianchino, e poi chiamarla arte.
Fabio Rovazzi e Orietta Berti – “La discoteca italiana”: Non un brano, un progetto multimediale; cosa che lo pone proprio al confine con ciò di cui noi ci occupiamo in questa rubrica. Si fa fatica in realtà a capire se sia il video ad essersi tirato dietro la canzone o la canzone ad essersi tirata dietro il video, a sto giro nemmeno così ispirato, se si prova a fare un paragone con i precedenti discografici dello youtuber, da noi considerato da sempre un genietto in termini di comunicazione. Si, il brano, costruito per essere un tormentone (of course), ha una certa ironia; si, il video introdotto dallo sketch con Aldo, Giovanni e Giacomo, con dolore immenso ormai più vicini al mondo di Orietta Berti che a quello di Rovazzi, strappa un mezzo sorriso, ma nulla di più. Ecco, diciamo che se è un brano lo giudichiamo appena appena funzionale per quello che deve fare, ovvero esistere per due mesi e poi sparire; se è un video su YouTube è girato benino ma non contiene alcuna scintilla. In generale niente che possiamo considerare riuscitissimo.
Rondodasosa – “Chiara”: Rondodasosa rispolvera in chiave trap “Due respiri”, una delle più azzeccate canzoni di Chiara Galiazzo, uscita esattamente dieci anni fa. Svolta intimista dai contenuti pop, arricchita da qualche barra azzeccata, che ammorbidisce, forse troppo, l’evidente tocco che Eros Ramazzotti diede ai tempi al brano, diciamo l’intuizione cardine che ne fece la fortuna; ma funziona, soprattutto perché il rapper allontanandosi dal sound della drill fa emergere un po' di sanissimo sentimentalismo. Non male.
Carl Brave – “Migrazione”: Quando si ha una visione così chiara di come comporre la propria musica, non si ha bisogno di inseguire le hit; anche perché poi, se parliamo nello specifico di Carl Brave, quando lui vuole fare le hit le fa e sfascia radio e piattaforme. “Migrazione” è un album colorato e intimo, dentro si percepisce la volontà del cantautore e producer romano di raccontarsi e, proprio attraverso questa narrazione, entrare nel suo mondo, che comprende anche una Roma vivace, seppur strascicata nelle parole, nei concetti, nelle intenzioni, una sorta di metafora musicale onomatopeica perfetta e chi ha dimestichezza con le strade della capitale se ne accorgerà. È semplice e colorato il mondo di Carl Brave, vive di rime azzeccate e produzioni da sogno, di efficacia divina ed una continua e sottile interazione, che sia con chi ascolta, che infatti si sente totalmente coinvolto, divertito, meno solo, e anche con i colleghi, con i quali riesce ad entrare in una sintonia assoluta, riesce ad incastrare nei propri brani usandone impietosamente e felicemente le caratteristiche principali. I featuring di questo album sono tutti perfetti, tutti entusiasmanti, tutti azzeccati e, più in generale, il disco, composto da 19 canzoni (diciannove: eroe), si ascolta con estrema piacevolezza, non annoia un attimo, come un’altalena emozionale dalla quale non vorresti mai scender giù.
Venerus – “Il segreto”: Molto complesso provare a raccontarvi “Il segreto”, come è complesso raccontare un volo, “La stanza” di Van Gogh, fare un bagno a Torre Faro, la prima volta che i vostri occhi si sono incrociati, come risuonano le note dentro il Teatro Regio di Torino o perdersi in mezzo ai canali ad Amsterdam…insomma quelle sensazioni molto forti che non colpiscono un punto identificabile del tuo corpo. È un disco che ti riaccende il plesso solare, che ti scalda, ti coccola, fa quello che i dischi dovrebbero fare sempre, prendersi uno spazio tutto loro, svuotarti, non riempirti, arricchirti, non spegnerti, inciderti un’emozione nel cuore, non intrattenerti. Non ci si può fermare su un solo brano, anche se “Istruzioni”, “Fantasia” e “Binari” ci hanno letteralmente affondati, inutile forse fermarsi sull’elemento suono, fondamentale, perché tutto ne “Il segreto” è intimo, si percepiscono i rumori, il suono delle labbra che schioccano quando le parole nascono e crescono e muoiono nella bocca; è più corretto invece, che magari qualcuno che fa musica legge e ne fa tesoro, soffermarsi su questo approccio così autentico, nudo, alla musica, senza la minima volontà di dare indicazioni precise, tipo: di qua c’è l’amore, di qua c’è la rabbia, qui abbiamo la delusione, lì l’allegria, ce la balliamo forte lì. No, “Il segreto” è una rigogliosa prateria, uno di quei paesaggi talmente estranei agli accumuli di cemento che ci siamo abituati ad arredare nella nostra vita, che non sei sicuro nemmeno se esistano davvero. Ora, se esistono davvero foreste rigeneranti, cascate infinite, montagne silenti, cieli vergini, non possiamo saperlo, perché la nostra vita (salvo rarissime eccezioni) è stata impoverita dalla volgarità dell’opera umana, ma esiste “In silenzio” e basta metterlo su per goderselo.
Iosonouncane e Paolo Angeli – “Jalitah”: Noi c’eravamo, ce lo ricordiamo molto bene quel concerto del 2018 che oggi diventa un disco. Un concerto indimenticabile, anche perché particolarmente faticoso, senza alcun dubbio il più faticoso mai affrontato in una vita particolarmente ricca di concerti, molti dei quali faticosi, che le cose facili non è che ci stuzzichino così tanto. Un disco è più semplice, ti permette di immergere questa musica straordinaria, scoordinata, che segue un filo conduttore del tutto intellettuale, che accelera e frena, oscura, che non viene incontro e nemmeno si fa acchiappare, in un contesto più aperto, più umano, più contemporaneo, e forse il contrasto aiuta anche la comprensione. Provate a salire su un bus, cuffie alle orecchie, trovatevi un posto, guardate fuori dal finestrino e cliccate play, provate a dare una connotazione metropolitana a questi suoni antichi, che provengono da lontano, e magari riuscirete a comprenderne l’infinita bellezza.
Nobraino – “Acufeni”: In questo mondo di plastica, fasullo come monete da 3 euro, costruito con il pressapochismo, povero di qualsiasi intellettualismo, che vive e prolifera tra le fauci di un consumismo social sfrenato e folle, il ritorno dei Nobraino è una delle migliori notizie possibili. Perché i Nobraino sono autentici musicisti e in questa “Acufeni”, nonostante i sei anni di silenzio, si percepisce la voglia di proporre musica e soltanto musica, lontani dalle luci degli smartphone, alla vecchia maniera, che poi alla fine è sempre la migliore. Quelle chitarre che reggono le fila del pezzo sembrano inseguirci per la stanza, ti acchiappano per la gola, ti danno una sonora svegliata. È tutto molto vero. È tutto molto bello. Quanto mancavate.
Giancane – “Tutto male”: Tutto crudo, tutto autentico, “Tutto male” è un disco che da un lato ti mette KO, dall’altro ti tira su, come a volerti fare sapere che non sei solo nelle tue turbe, nel disagio, in quell’indole rabbiosa rispetto alle storture di questo mondo, quella che devi tenere al guinzaglio e che invece Giancane, cantautore impegnato, dal gusto sopraffino, mascherato da musicista da localacci, cosa che lo accomuna a Zerocalcare, con il quale, non a caso, torna a collaborare per la nuova serie Netflix, in musica può stiracchiare, liberare dalle catene, per risolversi, evidentemente, come uomo e come musicista. “Strappati lungo i bordi”, per dire, è un piccolo capolavoro, una canzone che inchioda una certa generazione a quella malinconia alla quale è stata condannata, a distanza di un anno forse possiamo rivelare che noi l’abbiamo addirittura votata come miglior canzone al Premio Tenco. Perché, non fatevi illudere dai colori, dalle schitarrate irruenti, dalla voce graffiata, dal rifiuto, concettuale, artistico, di scendere a patti con un certo circuito pop mainstream, stiamo parlando un autore raffinatissimo, di quelli che ti squarciano in due con un verso, che individuano il centro e non lo stuzzicano, lo sfiorano, lo osservano inermi, ma lo fanno proprio a pezzi. “Tutto male” sa di vita vissuta, contiene canzoni che raccontano noi con la precisione di chi tra noi, si ha l’impressione, sta. Un valore prezioso, che lato nostro dovrebbe essere irrinunciabile, e che fa di Giancane un artista necessario. Imperdibile.
Bugo – “Un bambino”: Bugo, dopo gli exploit mediatici che lo hanno visto protagonista suo malgrado, torna alle origini con un brano dalla forte cazzimma, sanguigno, pensieri in libertà, scoordinazione, veemenza. Forse è questo il Bugo che ci serve, quello spregiudicato, che si diverte come chi trova la valvola giusta per sfogarsi e, in quello sfogo, permettere anche a chi ascolta di lasciarsi un po' andare. Buon lavoro.
Nayt – “Provare qualcosa”: Solito rap in punta di penna e di lingua, extraterrestre, eccellente, pungente, intimo, malinconico. Nayt è un artista stupefacente e i suoi brani si trascinano forti di una necessità pulsante. Questo parte quasi come un morbido ma incisivo R&B e poi ad un certo punto si sviscera questa narrazione, come al solito, quasi letteraria. Entusiasmante.
Gianni Bismark – “Non dirmi di no”: Colpo di fulmine in una festa che si trasforma in un brano rap leggero, fresco, ottimamente prodotto e scritto…vabbè, ma parliamo di Gianni Bismark, un fenomeno vero. Noi l’abbiamo inserita nella nostra playlist, non vogliamo proprio dimenticarcela, voi fareste bene a fare lo stesso.
Tropea – “La versione migliore”: Un’insoddisfazione che galoppa su un ritmo asfissiante e che denuda la nostra umanità che alle volte, forse anche più che alle volte, diremmo proprio spesso, ci toglie l’energia per far qualcosa del nostro tempo e della nostra vita. I Tropea sono entrati a X Factor da artigiani del palco e ne escono ancora artigiani del palco, l’indole, onesta, sincera, buon per loro, buon per noi, è quella.
I Camillas – “Mi scrocchia il cuore”: Genialoidi, divertenti, esplosivi, anche quando minimal. I Camillas in questo “Mi scrocchia il cuore” in pratica spargono canzoni complete in mezzo a quelli che sembrano appunti musicali, degli inviti ad entrare nel loro mondo, che sembra ideato da Lewis Carrol, se fosse stato marchigiano. L’album si ascolta e si ride molto, alle volte si pensa “Ma che sta succedendo?” e poi ti rendi conto che ogni minima sensazione è controllata, anche quando viene accennata “Mirko sei un’anguilla dentro le mie mani” e a te viene tanta malinconia, pensando a Mirko, uno dei due fondatori della band, ucciso dal Covid, ma anche a quanto l’ironia possa risultare ancor più commovente e poetica di un qualsiasi cordoglio di plastica propinato a favore di social.
Casino Royal feat. Marta Del Grandi – “Cospiro”: Composizione eterea, magica, stralunata, calma e, allo stesso tempo, vigorosa. Un volo in musica con una band che ci continua a regalare infinite gioie, questa “Cospiro”, per dire, è delicata e invincibile, una vera perla, una riflessione alta da gustarsi celebrando la calma che richiede per godersela a pieno.
Aka 7even – “Rock N Roll”: “Rock N Roll” è un prodotto industriale, firmato da Aka 7even, che è un altro prodotto industriale, buttato su un mercato che tende a conformarsi ad ogni angolo, forte della sola volontà di vendere. Vendere, vendere, vendere. E chi se ne importa se il prodotto che ne esce fuori è di scarsa qualità…tipo questa imbarazzante “Rock N Roll”, che ricerca con tale apprensione il sound che va, da risultare già scaduta.
Il Pagante – “Poveri mai”: La prova che si può anche andare incontro alle richieste del mercato senza necessariamente perdere in qualità. “Poveri mai” è un brano leggero, danzereccio, ma anche ricercato nella produzione, molto spinto nell’essere multiforme, in quegli schizzi, in quelle intuizioni. Non è “La donna cannone”, non è “Let It Be”, ma si fa ascoltare piacevolmente.
VillaBanks – “Giochi”: VillaBanks è un artista assai controverso, alterna genialate assolute ad abbagli insospettabili; questa “Giochi”, per esempio, è un reggaeton che dovrebbe giocare su una sorta di malizia, ma che risulta sexy quanto la foto in bianco e nero della prozia morta esposta nella vecchia casa dei nonni.
Ketama 126 – “Piano piano”: Ketama126 sperimenta con successo delle sonorità nuove, un po' chill, un po' reggaeton, ci infila sopra le sue barre e ciò che ne viene fuori è assolutamente godibile, anche quando un attimo ridondante, anche se qualche pennellata in più, qualche variazione sul tema, male non avrebbe fatto di certo.
Avincola – “Barrì”: Avincola sa di primavera, di prati sui quali spalmarsi spensierati. Ha quei colori lì, quegli odori lì, una festa nel cuore, un po' di sana positività in questa musica di duri e puri a tutti i costi. “Barrì” alterna ottimi brani a brani davvero stupefacenti, non solo per quel che riguarda la scrittura, perché quella è precisa come un arcobaleno, parte da un punto e finisce in un altro, e tu ti godi questo splendido arco che, tra l’altro, è segno che qualcosa di oscuro è ormai passato; ma soprattutto per le atmosfere che crea con la sua indole musicale: Avincola fa fiorire le piante, fa respirare le mura di casa. Avincola ripulisce le orecchie, calma le nevrosi di questa irrequieta caccia all’ultimo stream; stupefacente, nello specifico, è proprio la title track “Barrì”, scritta insieme a Pasquale Panella, che era quello che scriveva con Lucio Battisti, che è altro materiale da Tenco. Ma Avincola non ha bisogno dell’attenzione degli espertoni del settore, ha bisogno che il pubblico ne percepisca le qualità, che il pubblico si immerga in quella luce pulita e intensa. Cosa che, tra l’altro, serve molto più al pubblico, con questa moria di impegno nella musica italiana. Insomma, una mano lava l’altra ed entrambe lavano la faccia. Bravo. Disco necessario.
Drusilla Foer feat. Asia Argento – “Io ne voglio ancora”: “Io ne voglio ancora” non è solo un brano che pulsa della pretesa di essere quasi intellettuale e provocatorio, risultando in realtà povero e innocuo come un Fruttolo; ma soprattutto è un brano di una presunzione disarmante. Signori, la musica è una cosa seria, non materiale da intrattenimento, un modo come un altro per far sentire al pubblico la presenza, non un’arte di serie B da sfruttare come un giochino puntando sulla propria celebrità; anche perché, musicalmente parlando, Drusilla Foer e Asia Argento giusto su quella possono contare, perché parliamo di un disastro di pezzo. Tipo che ascolti “Io ne voglio ancora” e dopo un minuto pensi che non ne vuoi più, ma proprio per tutta la vita.