AGI - La prima cosa che resta dopo la visione de’ “La primavera della mia vita”, esordio da sceneggiatori e attori di Colapesce e Dimartino, è che si tratti di un film, un film vero, autentico, e se pensate che la cosa sia normale, avendo fruito del prodotto in una sala cinematografica, allora ignorate tutte quelle volte in cui il cinema altro non ha rappresentato che una scorribanda presuntuosa e pretenziosa di musicisti famosi, magari anche bravi, ma senza alcuna familiarità con il linguaggio, e i conseguenziali e disastrosi risultati.
“La primavera della mia vita” dunque è cinema a tutti gli effetti; quanto ci sia effettivamente dei Colapesce e Dimartino uomini non è dato saperlo ma si tratta di un’opera che certamente li riguarda, nomi e facce sono le loro, e tutto parte da un presunto futuro in cui i due amici non si vedono da tre anni,
Dimartino, snervato dall’inconsistenza del sistema discografico, ha infatti abbandonato il progetto alla vigilia della pubblicazione di una hit ed è finito adepto di una sorta di setta la cui venerazione ruota attorno al mandorlo.
Colapesce è rimasto a Milano, provando, invano, a mantenersi all’interno dello showbiz musicale e coltivando un inattaccabile cinismo. Insomma, i due amici si ritrovano da uno accanto all’altro sul palco, così come li conosciamo, a separati da intere stratosfere, uno sulle nuvole, vestito “come un Bee Gees”, distaccato da una dimensione terrena; l’altro con i piedi ben saldi nel pantano della discografia italiana, che ti chiede il tormentone estivo, magari il film o il libro, “e poi il film tratto dal libro e poi il disco sul libro tratto dal film”, così come recita la brava Stefania Rocca, che interpreta la loro manager.
L’occasione è il ritorno di Dimartino con un progetto che potrebbe portare qualche lira in tasca e solo questo convince Colapesce, offeso da questi anni di assenza dell’amico, ad accettare e seguirlo in un giro della Sicilia per la stesura di un libro su leggende siciliane. Il film a questo punto stiracchia le proprie potenzialità, da un lato il racconto di un’amicizia, è chiaro, due amici in rotta, chiusi dentro una macchina d’epoca, la stessa con la quale hanno affrontato anni di gavetta, costretti in qualche modo al confronto, ognuno ferito dall’altro, ognuno in fondo consapevole delle proprie colpe.
Dall’altro il road movie alla norma, perlomeno sulla carta, ma dimenticatevi la Sicilia da cartolina, gilet, coppola e lupara, il mare, il sole, il cibo in abbondanza.
Colapesce e Dimartino utilizzano solo il pretesto narrativo dei film dalle scenografie itineranti e ci portano in un mondo fatato e grottesco, all’esplorazione di un universo che esiste e non è nemmeno sotterraneo, fatto di personaggi che vivono la propria dimensione, da isolani, lontani da tutti, riuscendo a rappresentare contemporaneamente e meravigliosamente la bellezza antica e definitiva della semplicità, l’intrigo della follia e l’avanguardia pura di chi segue la propria strada e non quella imposta dagli altri.
Niente è vero ne “La primavera della mia vita” e tutto è verosimile, nel senso che certe atmosfere surreali, psichedeliche, mistiche, già raccontate, con l’eccesso che si concede ai grandi maestri, da Ciprì e Maresco, sono suggerite dall’isola stessa ed esistono; oppure non esistono ma potrebbero serenamente esistere, senza stonare.
Per dire, non sappiamo quali delle leggende con le quali i due protagonisti del film si confrontano sono autentiche, in quanto leggende ovviamente, non fatti in sé, ma sappiamo però che davvero c’è una nutrita ed insospettabilmente autorevole vastità di persone convinte che William Shakespeare fosse messinese, ingiustamente esiliato in Inghilterra, dove poi diventa il bardo che conosciamo.
Colapesce e Dimartino mettono in bocca questa narrazione, a proposito di insospettabilità, a Roberto Vecchioni (quindi ancora il basso della leggenda popolare e l’alto di chi la interpreta) e tutto viene smontato con una battuta di Colapesce: “No, io Vecchioni complottista non me lo accollo”.
Tutto e il contrario di tutto, l’alto e il basso, il terreno e il mistico, che si scontrano creando scintille tradotte in comicità a tratti esilarante; che poi è anche la cifra stilistica delle opere di Colapesce e Dimartino, come cantautori: la poetica che tradisce la dipendenza dalla tangibilità, la necessità, per illuminarla, di specchiarsi nella nostra vita di tutti i giorni, dalle immagini comuni, dalla battuta fulminea che strappa in due il pirandelliano cielo di carta, una cosa molto siciliana, la più autentica delle rappresentazioni in quello che è forse il più grande palcoscenico del mondo.
Il film, girato con un tocco straordinario dall’esordiente Zavvo Nicolosi, capace di dare un ritmo perfetto alla storia, non è chiaramente un colossal, ma vive di luci, immagini dipinte, personaggi pittoreschi, grotteschi, che si lasciano ammirare, attraversare, raccontare, per poi sparire, sazi di ciò che hanno e sono, come i Jim Morrison dell’Iguana dei Nebrodi, il pirata drogato, le suore sommozzatrici, che dette così potrebbero sembrare figure che poco c’entrano con la Sicilia, con Colapesce e Dimartino e, soprattutto, tra di loro.
Nel mondo de “La primavera della mia vita”, e in questo, soprattutto in questo, viene davvero raccontata la Sicilia, c’è spazio per tutti, niente stona, tutto esiste e tutto si basta. L’epica che si fa terrena, quella degli eroi e delle grandi imprese; perché in fondo “La primavera della mia vita”, senza spoilerare alcunché, è di questo che parla: di una grande impresa, profondamente umana, dove anzi, le luci dello star system sono volutamente tenute lontane, diventano ampiamente secondarie, poco interessanti, rispetto ad un mondo, quello di Colapesce e Dimartino, che da musica si materializza, attraverso i loro occhi e la loro scrittura, in qualcosa di estremamente auspicabile.
Un mondo lontano dal mondo, periferia felice del pensiero comune, materiale, disinteressante, abituato a rimbalzare su se stesso regalandoci sempre lo stesso tormentante tintinnio.
“La primavera della mia vita” insomma è un’opera d’arte profonda, nel senso che si tratta di un’opera che ha senso di esistere a prescindere dai risultati al botteghino (dove comunque sta andando benissimo), dai numeri, dai tweet, i follower, i dati; un film che in fondo racconta anche la sconfitta del mondo che viviamo, che invita alla fuga dai ritmi ossessionanti ai quali ci siamo abituati, che propone la tempistica lenta, e per questo audace, della Sicilia, che ti inchioda, magari su una spiaggia, dopo un bagno, dinanzi a tutto quel mare, a riflettere sull’essenziale, su ciò che sei ora prima ancora di ciò che potresti diventare domani.