C on la testa già al prossimo 7 febbraio, quando il Festivàl della Canzone Italiana di Sanremo cannibalizzerà l’industria, ci godiamo le nuove uscite della settimana. BLANCO sta crescendo, è evidente, ma ancora si mantiene BLANCO, il che è già una buona notizia. Splendidi i nuovi brani di Mobrici e di Dente, che si fa accompagnare dai magnifici Post Nebbia; “Piccola” e “La vita fino a qui” sono davvero imperdibili. Ottimo, come sempre, anche Alessandro Fiori, così come N.A.I.P. e MIGLIO, tutti fuori con singoli estremamente godevoli. In zona rap niente male gli album di Mostro e Sacky; male Fasma, malissimo Tommy Dali.
Chicca della settimana: “Salute e malattia” di VERSAILLES.
BLANCO – “L’isola delle rose”: Dramma post adolescenziale incastrato in una ballad dal ritmo andante e solenne. Di certo non il miglior brano sfornato da BLANCO, si sente chiaramente come quell’istinto disperato e coinvolgente che ha contraddistinto la produzione di “Blu celeste”, l’album d’esordio, abbia, ragionevolmente, attenzione, fatto posto ad un modo di operare più strutturato. Infatti il brano è valido, funziona, immaginiamo già quel “Volevo fossi mia mia, mia, mia, mia, mia, mia” cantato a squarciagola live dai suoi numerosi fan, non si può pretendere quella meravigliosa scoordinazione quando le responsabilità che pesano sulle spalle di un ragazzo così giovane si vanno a moltiplicare nel tempo di un battito di ciglia.
Mobrici – “Piccola”: Mobrici, con il romanticismo che contraddistingue il suo cantautorato dal sapore immortale, propone un pezzo sull’inevitabilità dell’amore, troppo spesso raccontato come una di quelle palline pazze che si trovavano negli anni ’90 dentro le patatine, quelle che scaraventavi spregiudicatamente contro un muro divertito all’idea di rompere più suppellettili possibili. Ma l’amore è anche una stretta di mano, una lente di ingrandimento per studiare gli spigoli della nostra personalissima tempistica; è il momento giusto per buttare nel calderone della vita l’amore? È il momento di prendersi una tale responsabilità? Magari no, lo senti (o non lo senti, dipende), lo capisci, e allora tocca congedarsi, anche se “Piccola/Quando ti vedo sento la musica”, che è uno dei versi più belli che un essere umano possa dedicare ad un altro essere umano. Che poi, davanti puoi avere una giovane ragazza che senti di non poter incastrare in qualcosa di più significativo di una notte, o te stesso, allo specchio, che ti rendi conto che no, non è il momento. Allora ci si saluta, ci si lascia, ci si abbandona, ci si volta le spalle, se si è fortunati, senza alcun odio in serbo. Le storie d’amore dovrebbero sempre essere vissute così e, possibilmente, dentro una canzone di Mobrici.
Dente feat. Post Nebbia – “La vita fino a qui”: Dente con “La vita fino a qui” è come se guardasse il mondo attraverso una snow globes; elimina il rumore di fondo, il vociare incontrollato, il traffico, i commenti sui social, i cocktail annacquati, la rabbia, le luci stroboscopiche, la tv di flusso, il sesso disinteressato, le rincorse, il furioso presenzialismo che ci alita sul collo. Tutto. E lo osserva con la delicatezza della sua penna, una delle migliori in assoluto del cantautorato contemporaneo; e si fa accompagnare in questa visione dai Post Nebbia, una delle più belle sorprese dell’attuale circuito indie. Una perla di brano che ti rallenta i battiti del cuore fino a rubartene un bel pezzo, mentre degli archi ti solleticano lo stomaco e ti riservano vibrazioni indimenticabili. Bravissimi.
VillaBanks – “Una vita”: “Una vita” è uno di quei brani che sembrano inutilmente leggeri e invece se ci stai attento hanno le potenzialità per dirti qualcosa. Per esempio che la vita, fino a prova contraria, appunto, è una, e andrebbe impegnata in qualche modo; amare una donna, si, certo, è nobile, oppure “prendersi tutto”, parecchio ambizioso ma in fondo, perché no? VillaBanks propone tante soluzioni in questo senso, tutte valide, tutte estremamente confortanti. MamboLosco – “Pochi pochi”: Solito lavoro raffinato e azzeccato di Nardi e Finesse in fase di produzione, solito body building concettuale per MamboLosco, che non riesce a fare a meno di guardarsi allo specchio mostrando i muscoli; che ha, nessuno glieli toglie, in questo pezzo per esempio è esemplare l’utilizzo della fonetica delle parole. Ma dirsi da solo allo specchio quanto si è fighi è una delle cose meno da fighi che possa esistere; e questo è un fatto. Dicono che la trap è così, con quella rassegnazione che richiama quasi l’inevitabilità delle umane cose; ma non è affatto così, sia in Italia che all’estero ci sono artisti che stanno facendo lavori egregi con il linguaggio musicale della trap, che è molto interessante. Se poi però quando esci intingi il piede sempre nella stessa pozzanghera allora vuol dire che in qualche modo ti piace; e se piace a te…ma non per questo noi siamo costretti a chiamare una pozzanghera mare, perché una pozzanghera del mare non ha nulla. Alessandro Fiori – “Trasloco”/ “Passeggiata”: Altra classe, altro spessore, quelli come Alessandro Fiori giocano un campionato a parte. Tira fuori due nuovi brani, “Trasloco” e “Passeggiata”, e con questi praticamente ti rapisce dal tuo tempo, te ne serve un altro in cui le canzoni hanno un significato, hanno tempo di respirare e di arrivarci. Ecco, le canzoni di Fiori respirano, hanno la consistenza del grano tra le dita, l’odore di una casa al mare, il sapore di una libertà che scorrazza a piacimento su un foglio scarabocchiandolo. La poesia, quando è poesia, e quando ti sfiora con una canzone. Fasma – “F.B.F.M.”: Un pezzo ingoiato dallo stesso vuoto che crea. Alle volte capita che si ascoltano brani che arrivano all’orecchio come un agglomerato di musica e parole, come fossero una canzone vera, e poi ti accorgi che dietro non c’è niente. Il testo di questa “F.B.F.M.” è talmente elementare da meritare una nota sul diario da far firmare ai genitori. N.A.I.P. feat. Galea – “Dovrei dire la mia”: N.A.I.P. ti mette sempre all’angolo, i suoi brani ti piacciono ma non sai se ti piacciono perché lui ti è molto simpatico e ti piace l’idea che i suoi brani ti piacciano, oppure perché sei caduto in un divertente tranello. Questo ritmo andante e scoordinato, questo loop di parole cariche di carattere, che potrebbero dire tutto ma anche niente e ti viene anche il dubbio che in fondo una canzone è anche qualcosa che ascolti e al quale in fondo sei tu fondamentalmente a dare un significato intimo, personale. Ma poi, ti chiedi, tutte queste domande hanno veramente un senso? Probabilmente no. Allora facciamo che abbiamo ascoltato questa “Dovrei dire la mia” e ci è assai piaciuta, che siamo lieti di constatare che N.A.I.P. abbia smussato gli angoli della sua musica flirtando con il pop e che il pezzo ci fa salire la voglia di ascoltare altri pezzi di N.A.I.P.. Si, così dovrebbe andare.
Giuse The Lizia – “Cara vita”: Un’uscita particolarmente azzeccata questa di Giuse The Lizia che prova (e riesce) a proporre un sound più impegnato, quasi R&B, senza perdere quella vena teen, quella sua poetica così diretta e convincente. Bravo.
Mostro – “The Illest, Vol 3.”: Inseguire un costrutto logico, poetico, linguistico, concettuale, noi crediamo, no, noi siamo sicuri, è l’unico modo per dar senso e forma e sostanza al proprio rap. Mostro con questo “The Illest, Vol 3.” va esattamente in quella direzione, il susseguirsi dei brani propone toni diversi, diverse ambientazioni, diverse voci, tutte azzeccate tra l’altro, e la necessità di esprimersi, l’esigenza artistica, requisito fondamentale e sempre più declassato in termini di priorità quando si produce musica oggi. Nel disco di Mostro, pressoché perfetto, senza alcuna sbavatura, parimenti interessante ed entusiasmante, troverete la più buona e funzionale idea di rap. Bravissimo.
Sacky – “Quello vero”: Se i contenuti di “Quello vero”, disco solista d’esordio di Sacky, possono decisamente essere ancora smussati, ingentiliti, ripuliti da quella patina di street youth che puzza vagamente di immaturità (che ci sta, essendo un 2001); d’altra parte non possiamo non notare un sopraffino gusto per questo sound paziente, per beat che non puntano all’esplosione ma alla narrazione, che hanno la sacrosanta pretesa musicale di valere, di esserci, di rappresentare qualcosa, la presenza artistica di un ragazzo che ha prodotto un disco cupo e davvero intrigante.
MIGLIO – “Sexy solitudini”: MIGLIO ha uno stile talmente preciso e accattivante che sulla punta della sua penna si potrebbero costruire grattacieli di storie e lei riuscirebbe a fare arrivare tutto, fino all’ultima virgola. “Sexy solitudini” ti spoglia, ti trasmette un tale senso di intimità da risultare subito eccitante e coinvolgente. Bravissima, come sempre.
VERSAILLES – “Salute e malattia”: Scoordinato, quasi sussurrato, quasi accennato, traballante, sottile, certamente minimal, certamente profondo, certamente efficace. VERSAILLES strugge in questo brano dalle tonalità autentiche, malinconiche, come se il pensiero sia ancora fresco e pressante nella testa: amore, ma quale amore se poi tutto perde di significato dinanzi al tempo che passa, alla trama che si infittisce. Tutto legittimo. Bravo.
Punkreas – “Le mani in alto”: I Punkreas tornano con un inno alla fiducia, al fare qualsiasi cosa senza le mille paure che ogni giorno attanagliano le nostre giornate, le spengono, le addomesticano, le addormentano. L’invito musicale (e che consigliamo vivamente di accettare) è appunto quello di alzare le mani, arrendersi a ciò che vogliamo fare, quindi di base a ciò che siamo; a ballare, a pogare da soli, come se l’efficacia del brano dipenda da quanto noi riusciamo a farci coinvolgere, a mettere al posto giusto l’ultima tessera di un puzzle sdentato. Bene. Eccoci. Play.
Tommy Dali – “Ogni minuto”: Qualcosa di già sentito e anche quando abbiamo sentito la prima volta, fatto da altri.
Kaufman – “Miyazaki”: Ballad magnifica, meravigliosamente nostalgica, scritta con grande mestiere. Perché parlare di relazioni a distanza in un brano potrebbe far cascare nel tranello della didascalia, dello spiattellamento facile facile; perché il dolore è così acuto e comune che poi alla fine basta far scattare un click per provare a stimolare sensazioni che in un modo o nell’altro, in un tempo o nell’altro, tutti abbiamo provato. Invece i Kaufman propongono una serie di immagini, di minuscole parentesi di vita quotidiana, quelle in cui l’assenza si fa più insopportabile, e tutto torna vivido nei nostri cuori.
NASKA – “Cattiva”: Nonostante la tematica sia vecchia come il cucco, ovvero lui che racconta delle notti con lei, che in realtà sta con un altro, che non è un figo come lui; nonostante anche l’arpeggio che guida il brano sia anch’esso non illuminante, discretamente trito e ritrito; è innegabile che il brano funzioni e anche molto molto bene, che in certi cambi di tono sia inevitabilmente trascinante.
CeK EL BLANCO – “Valzer del diavolo”: Andate a scoprire come si vive, come si pensa, da quale angolazione si guarda alla vita quando l’unica faccia che ti mette a disposizione è l’altra, quel girone della dea fortuna inventato per i duri e sentimentali, per i dannati dal cuore grosso, per chi non si trova, per chi guarda più lontano, dentro e fuori se stesso. È questo il mondo di CeK EL BLANCO, ed è un mondo distante, autentico, come Matrix quando si denuda della propria fasulla umanità; è il mondo dove si finisce quando ti accorgi che ciò che dicono di buono abbia da offrire la vita, ti accorgi che non è poi così buono, così allettante, così interessante. “Il paradiso lo preferisco per il clima, l'inferno per la compagnia” scriveva Mark Twain; ecco.