L ’evento della settimana è certamente l’uscita del disco dei Maneskin, ma la discografia italiana si prende lo sfizio di proporci anche un nuovo singolo de Lo Stato Sociale, ancora una volta, parrebbe, alla riscoperta della propria anima. Samuel rimastica meravigliosamente in chiave tech Vivaldi e Rose Villain ci offre un disco bello e cupo. Torna Speranza, certamente tra i migliori rapper che operano nel nostro paese, e torna pure Maria Antonietta, cantautrice illuminata della quale sentivamo una gran mancanza. Bravi Sacky e Mostro, molto ben fatto l’EP di Samia e il nuovo singolo dei Management.
Chicca della settimana: “Il cielo sulle spalle” di Ciulla.
Maneskin – “Rush!”: Tutto sta a decidere cosa si intende esattamente per rock. Se il rock è un genere musicale, oppure un’attitudine di vita, personale, che prevede un certo atteggiamento, un certo look e poi si, se c’è tempo, anche un certo sound; se il rock è disobbedienza, se il rock è rottura degli schemi, o magari se il rock è semplicemente quello che piace a noi, quello che decidiamo debba essere rock ma, soprattutto, sembrerebbe, quello che decidiamo non debba esserlo per nessun motivo al mondo. Il successo globale dei Maneskin è per forza di cose divisivo, nessuno che si preoccupi di dove sta andando a finire il cantautorato italiano, ma tutti sono lì preoccupati del fatto che una band sia considerata o meno rock e che forse, non essendo abbastanza rock, diamine, potrebbe non salvarlo il rock.
A scanso di equivoci, tutta l’intera storia del rock è disponibile gratuitamente in rete, già messa in salvo su questa enorme ed invisibile zattera di salvataggio, ma soprattutto nessuno ha chiesto ai Maneskin di salvare alcunché. Il rapporto che lega i Maneskin a quei grandi della storia che sono accusati di scimmiottare è semplicemente evocativo e proprio in questo senso la band romana sta facendo un lavoro eccellente riguardo gli input che può dare (e da) ad un’intera generazione di loro ascoltatori, tra i quali non ci sono rocckettari alle soglie dei 50 né illustri violinisti; ma ragazzi che sono cresciuti a rap e talent, che non hanno la minima idea di cosa sia né cosa abbia significato il rock dello scorso millennio, quello scomodo, sgarbato, politico, audace. I Maneskin sono i primi a riuscire a prendere un sound e portarlo ai giorni nostri, farlo digerire ad un pubblico che si sta sempre più abituando, in maniera, questa si, preoccupante, alla musica semplice, alle basette, all’autotune, all’assenza di contenuti.
“Rush!” è pieno di contenuti, musicali prima di tutto, perché all’interno troviamo le schitarrate ipnotizzanti che stanno diventando un marchio di fabbrica, semplici, lineari, trascinanti, come in “Own My Mind”, una ricerca di inserimento di melodia pop dentro uno scheletro audace come in “Gossip” (questa confezionata con il supporto di Tom Morello, chitarrista dei Rage Against the Machine) o le ballad come “Timezone”, fino al divertissment di “Bla Bla Bla”; il disco è perfettamente strutturato, regala alla band romana almeno altri tre o quattro grandi pezzi di repertorio. La scommessa è ampiamente vinta, il disco fila, si beve in scioltezza ma soprattutto racconta la loro visione del mondo, racconta questa favola dai tratti alle volte anche malinconici, basta ascoltare “La fine”, che è un brano struggente, che fa percepire nitidamente quanto possa turbare il distacco dalla realtà per dei giovanissimi impegnati, armati del proprio sogno e del proprio talento, a conquistare il mondo.
Lo Stato Sociale feat. NASKA – “Che benessere!?”: Lo Stato Sociale ha avuto un senso forte quando è riuscita a declinare in salsa pop quella loro meravigliosa ed impegnata scoordinazione in un determinato momento storico, il peggiore della musica italiana di sempre probabilmente, in cui tutto era così sbrilluccicante e quadrato, due concetti che non rappresentavano nessuno, quindi fallimentari. Poi la storia la conosciamo, lì nasce l’indie, che dura il tempo di produrre un nemmeno troppo fastidioso rumore di sottofondo ed essere acquistato praticamente in blocco. Lo Stato Sociale però in quel modus operandi ci credeva e forse si è trovato nei guai, quelli raccontati in “Fottuti x sempre”, il precedente singolo, proprio quando ha cominciato a provare ad adeguarsi a quel cerchio che proprio loro anni prima avevano rotto. Perché i regaz sono così, così li abbiamo conosciuti e così li amiamo: opposizione musicale pura, ironia e politica, guizzi musicali favolosi all’interno di composizioni precarie e dirette. “Che benessere!?” è così, appunto, diretta, è un pezzo che ti parla, che ti racconta, che ti viene incontro serenamente, che dissacra il disastro sociale che stiamo vivendo, così da non farti sentire mai più solo.
Samuel – “La cena del tempo”: Samuel cala la briscola che non ti aspetti: “La cena del tempo” è un meraviglioso incontro musicale tra la voce dei Subsonica e Antonio Vivaldi. Samuel rimastica alla sua maniera, così futurista e contemporanea, le composizioni del “Prete Rosso”, portando nel proprio mondo avanti, oltre, anche un’opera classica immensa che diventa pura pop art musicale. Bravissimo.
Rose Villain – “Radio Gotham”: Un disco cupo ma necessario, da parte di una delle poche voci femminili della scena urban italiana; cupo come Gotham City, la città di Batman, per chi fosse nato su un altro pianeta. Necessario soprattutto perché un bel disco è sempre una buona notizia e “Radio Gotham” è praticamente perfetto; e poi perché servono sempre più album a metà strada tra rap e pop che siano centrati, solidi, che solchino questo sentiero che così battuto sarà in futuro. Non un pezzo sbagliato, alta concentrazione sull’introspezione, l’album pulsa della necessità di raccontarsi di Rose Villain e ascoltare queste quattordici storie è un vero e proprio piacere.
Speranza – “Welcome To Favelas”: Il ritorno di uno dei rapper più forti del game; Speranza è un fenomeno assoluto, quella voce arrabbiata che tiene in alto ogni singolo brano della sua produzione, dall’inizio alla fine, la spregiudicata analisi, sempre in bilico, tra bianco e nero, buono e cattivo, giusto e sbagliato, come se tentasse di spiegarci tutte le storture del mondo con uno squilibrio dal fascino fatale. “Welcome To Favelas” è un brano che va ascoltato e riascoltato, uno di quelli che quando spingi play sei una persona, quando il pezzo finisce sei un’altra.
Maria Antonietta – “Arrivederci”: La divina Maria Antonietta torna nelle nostre vite con un pezzo che ci manifesta i motivi per cui la riteniamo una delle più talentuose e raffinate ed entusiasmanti cantautrici della scena (tutta) italiana. Prima di tutto lo stile, inconfondibile, ipnotizzante, sensuale, poi la totale assenza di indulgenza nei propri confronti, come se ogni brano raccontasse una battaglia interiore e sanguinosa, ma sempre (sempre) con quella fatale leggerezza, come se la vita le scorresse sotto il naso e lei le concedesse giusto un’annusatina. “Arrivederci” è un pezzo divertente e trascinante, un magnifico caleidoscopio attraverso il quale guardare il mondo e provare, giusto provare, a liberarsi dei propri demoni con un semplice saluto.
Albe – “Se non mi ami”: Un brano carico di carattere, divertente, sensato, dalle venature teen; tanti ragazzi colpiti da amore non ricambiato troveranno sollievo in questa canzoncina orecchiabile e disinibita.
Sacky – “Nessuno”: Una ballad rap che, sulla linea armonica di “Lonely” di Akon, srotola una sincera dichiarazione di amore. Un pezzo frutto di un ottimo lavoro e che potrebbe rivelarsi perfino utile per riacciuffare nel rap un sentimentalismo che non necessariamente deve scaturire in quella ormai proverbiale cafonaggine. Bravo.
Mostro – “Underrated”: Brano molto interessante, carico di ironia, Mostro ci racconta questa sua visione del rap, così intima e anche così dannata, così pulsante di rivalsa e anche di puro amore verso la materia.
Cricca – “Se mi guardi così”: Pezzo dal sapore sospettosamente sanremese, cioè uno di quei brani che solitamente vanno in gara al festival e passano del tutto inosservati. Ce n’è sempre qualcuno, ogni anno, ecco Cricca prende la scorciatoia e butta sul mercato un brano che ci dimenticheremo senza nemmeno affollare il già decisamente affollato palco dell’Ariston. Ottimo.
Management – “Anita”: Brano meravigliosamente deprimente che si va a mettere accanto a cult assoluti come “Silvia lo sai” di Carboni o “Perché lo fai” di Masini, quelli che raccontano una storia proprio triste triste, senza mai indorare la pillola, con la poetica che certe storie pretendono se proprio vuoi avventurarti in una narrazione così toccante; ma il tutto costruito con un’impronta moderna e agrodolce. “Anita non sa/Che questa notte morirà/E che sarà/Il più gran bel giorno della sua vita” è un ritornello epico, definitivo, che rimette tutta la nostra visione dell’esistere in discussione. Eccellente.
Calma – “Sabato sera”: Pezzo che funziona meravigliosamente bene, la storia è chiara, nitida, coinvolgente, perché racconta di un genere di rapporto, quello con ex compagni, che tutti conosciamo a memoria. Racconta quell’imbarazzo, quel gioco, quella valanga di emozioni che guardi negli occhi mentre barcolla potenzialmente mortale nella tua direzione. Il sabato sera serve anche per questo, no? Per essere rovinato, per scansare pugni, per saltare ostacoli e per rincontrare ex, che è comunque una delle cose più pericolose che possano accadere. Buon lavoro.
Lil Kvenki feat. VillaBanks e The American Boyfriends – “Domani”: Brano dalle venature talmente teen che le vecchie signorotte che non accettano l’inevitabilità del tempo che passa se lo potrebbero spalmare sulle cosce dopo la doccia. Per dire, a noi dopo il primo ascolto ci si è riempita la faccia di brufoli e ci è risalita il terrore per gli esami di Stato. “Domani” valica a più pari la sottile linea che divide i brani generazionali dalla seconda media.
Jore – “Solo tu”: Quella volta che giocando a pallavolo e saltando a muro un compagno di scuola ci ha deviato il setto nasale; quando sei al mare, l’acqua è fredda, il caldo è micidiale e tu, confuso, sai che non potrai salvarti in nessun modo; il mal di testa dopo aver visto il primo “Avatar” con gli occhialini 3D; “Avatar”, proprio in generale come film; la paura la prima volta che abbiamo visto da bambini “IT”; quando la professoressa di matematica scorreva col dito l’elenco per scegliere chi interrogare e tu non hai mai nella vita saputo niente di matematica; un disco di Laura Pausini, così, a scelta; la noia snervante guardando “Il Trono di Spade”; ogni singola opera di Frida Khalo; il minestrone; la morte di John Lennon; i matrimoni, a luglio, “Che, ci abbiamo pensato, fa meno caldo”; fare il compleanno; quando il piede del tavolino limona ardentemente il mignolo del tuo piede; l’hangover; l’Italia fuori dai Mondiali; quella volta che credevamo fossero gocce di cioccolato e invece era uvetta. Ecco una serie di cose brutte che ci sono accadute nella vita e che comunque preferiamo a questo pezzo di Jore.
Samia – “Cadiamo a pezzi”: Questa specie di arrendevolezza nel timbro blues di Samia ci disarma totalmente, che fosse brava lo avevamo capito già da tempo, ma questo “Cadiamo a pezzi” è un EP davvero ben fatto. Le canzoni sono tutte molto belle, elaborate con un sensato sguardo alla contemporaneità, i suoni infatti si adagiano con gentilezza sulla voce di Samia, rispettandone le inclinazioni cupe ma senza rinunciare ad un sound pulito e funzionale, ma anche complesso e intrigante. Si tratta di un disco davvero ottimo di un’artista da tenere seriamente d’occhio.
C+C=Maxigross – “Cosmic Res”: Giusto per dovere di cronaca: non siete obbligati ad ascoltare musica brutta, potreste anche buttarvi su questo splendido nuovo album dei C+C=Maxigross, “Cosmic Res”. Su, prendetevi una pausa dal pop stantio, da chi vuole mettervi in bocca paroline d’amore inconsistenti, da chi fa i muscoli con le barre rap con la pretesa di insegnarci a vivere; provate invece a cliccare play e chiudere gli occhi, provate ad esplorare le meraviglie della composizione complessa, abbracciate l’arte che non conosce mercato e marchette, chiudete la bocca per nove canzoni, senza distrarvi, senza pretendere che la musica vi arrivi addosso ma provando voi, con cuore e testa, ad andarle incontro. Non sarà facile, lo capiamo, ma ne resterete ampiamente soddisfatti. Così, giusto per dovere di cronaca eh…
Bluem – “Adele”: Un guizzo psichedelico, ancestrale, incantevole. Bluem è una artista eccezionale, capace di aprire varchi temporali e geografici tenendoti attaccato con le orecchie alle casse, impaziente di capire quale sarà il panorama al prossimo giro. Eccezionale.
I Dolori del Giovane Walter – “Coralli”: Brano malinconico, carico di forte emotività, uno di quei pezzi che ti fanno incantare e guardare nel vuoto con la testa appesantita dai ricordi. “Coralli” ti porta dove non vuoi andare e ti riporta indietro quando ti accorgi che vuoi rimanere.
Ciulla – “Il cielo sulle spalle”: L’amore quando si fa minuscolo, l’amore quando è stanco, non ce la fa più, e chiede aiuto, l’amore quando guarda fuori dalla finestra, vede tutta quella enormità di mondo e ha paura, l’amore che fugge affannosamente dalla complicatezza dei rapporti umani, l’amore che vince e quello che perde, l’amore che incrocia le braccia perché non trova una soluzione, l’amore che percepisce un sorriso alle spalle, l’amore quando sta nell’altra stanza, l’amore che affonda il viso tra le braccia. L’amore quando è amore. Ciulla ha scritto un pezzo meraviglioso, una preghiera commovente, ficcante, proprio perché comune a tutti. Ciulla ha scritto un pezzone.
Luv! – “Sento lento”: Luv! mette da parte l’attitudine a scrivere in maniera diretta e audace per buttarsi in una tech ballad che prende l’umanità e fallibilità dell’amore, inteso come universale, antropologico, e la porta in alto, la rende quasi vapore che lascia tutta la consistenza alla voce graffiata e incisiva di Luv! che ci accarezza dolce sul viso mentre ascoltiamo, rendendo così quell’amore che ascolti qualcosa di quasi tangibile che puoi toccare, smanacciare, abbracciare, baciare. L’amore, insomma, quando la musica è fatta bene.
Riccardo De Stefano – “Quando viene sera”: Riccardo De Stefano fa tutto il contrario di ciò che andrebbe fatto per sfondare nella musica. Contrappone all’essere così diretti, quasi elementari, dell’urban uno stile etereo, che viaggia ben oltre il cielo sopra le nostre teste; se la musica che va è audace e frettolosa, che ci sono le radio da inseguire, le playlist da conquistare, quella storia su Instagram da fare, De Stefano invece se la prende con estrema calma, come se vivesse su una nuvola e non avesse altro a cui pensare se non al divino meccanismo che regola ogni singola virgola della nostra esistenza. Però, attenzione, si scansa, scala di una sedia, ci fa spazio, ci invita, ci sorride, ci desidera lì con lui; in qualche modo ci indica la strada, addirittura sul finale ci svela la verità: “è tutto un sogno, siam dentro un sogno e non c’è niente oltre il tempo”. Bello. E ci vivrei.