AGI - Nei primi anni '80, con l'espansione delle televisioni private, la stagione eroica del cinema di genere italiano si avviava ormai al tramonto. Concluse da tempo le epopee dello spaghetti western e del poliziottesco, i produttori spinsero il più possibile su sesso e violenza nel tentativo di restare a galla. La commedia sexy stava cedendo il passo al porno tout-court e il filone horror, prima di esaurirsi del tutto ("Tenebre" di Argento l'ideale canto del cigno), aveva spinto sempre più in alto l'asticella del mostrabile. Nessuno - nemmeno Lucio Fulci o Aristide Massaccesi - riuscì però a toccare le vette di estremismo raggiunte da Ruggero Deodato con "Cannibal Holocaust", autentico film maledetto al quale il cineasta lucano, scomparso il 29 dicembre a 83 anni, deve gran parte della sua fama.
Parte di una trilogia a tema antropofago inaugurata nel 1977 da "Ultimo mondo cannibale" e conclusa nel 1985 da "Inferno in diretta", la pellicola del 1980 vide Deodato, con la creatività ribalda propria di tanti artigiani del B-movie tricolore, inventare dal nulla un filone che, vent'anni dopo, sarebbe stato riesumato con successo da "The Blair Witch Project", quello del 'found footage'. Ovvero, il ritrovamento di una pellicola - gabellata per vera - che disvela nefandezze sempre più intollerabili. Negli anni successivi gli horror girati con la telecamera a mano - da "Rec" a "Cloverfield" - si sarebbero sprecati.
Chi sono i veri cannibali?
Il film prende le mosse dalla scomparsa di un gruppo di quattro giovani reporter nella foresta amazzonica, dove si erano addentrati per un documentario sugli ultimi cannibali. A recarsi in Brasile sulle loro tracce è il professor Monroe, interpretato da Robert Kerman, che entra in contatto con le tribù incontrate dalla troupe svanita. Prima gli Yacumo, che mostrano capanne bruciate e resti umani indicandole come il frutto di crimini lasciati da uomini bianchi passati prima di lui. Poi gli Yanomamo, il cui capo mostra a Monroe gli scheletri dei reporter e gli consegna la pellicola da loro girata dopo aver condiviso con lui un banchetto a base di carne umana.
Il contenuto del filmato è agghiacciante e il contrasto con le soavi musiche di Riz Ortolani lo rende ancora più insostenibile. I quattro giovani, in cerca di immagini sempre più sensazionalistiche, prima seviziano alcuni animali (a queste uccisioni non simulate - in particolare quella di una testuggine acquatica - si deve buona parte della sinistra fama del film) e poi si accaniscono sugli indigeni, violentandoli, ferendoli e bruciandoli vivi nei loro villaggi. Nelle ultime sequenze arriva la vendetta degli autoctoni, che assaltano i quattro e ne fanno scempio mentre Mark, il cameraman, ultimo a cadere, continua a girare fino alla fine, dopo aver immortalato l'orribile morte dei suoi compagni. "Mi sto chiedendo chi siano i veri cannibali", è l'iconica frase pronunciata da Monroe dopo essersi congedato dagli ammutoliti dirigenti dell'emittente, ai quali ha mostrato il filmato, per poi addentrarsi nella giungla d'asfalto newyorchese, non meno pericolosa di quella pluviale.
Un realismo fin troppo riuscito
Per rendere il più credibile possibile la presunta autenticità della pellicola girata dai reporter, Deodato arrivò a strisciare i nastri sul terreno e scelse attori sconosciuti (tra cui un quasi esordiente Luca Barbareschi) ai quali poi impose di sparire dalla circolazione per un po'. L'operazione funzionò fin troppo bene. "Cannibal Holocaust" fu sequestrato in tutta Italia un mese dopo l'uscita e il regista fu costretto a presentarsi in aula con gli attori per dimostrare che fossero ancora vivi. Non bastò a salvare lui, lo sceneggiatore Gianfranco Clerici, i produttori e il distributore da una condanna a quattro mesi di reclusione, con la condizionale, per aver dato vita a un'opera "contraria al buon costume e alla morale". E che gli animali massacrati dal vero di fronte alla cinepresa fossero poi stati mangiati da operatori e indigeni non fu una giustificazione che convinse il giudice.
Il film sarebbe tornato nelle sale, in versione integrale, solo nel 1984, dopo il via libera della Cassazione e gli incassi furono magrissimi, nonostante la leggenda nera. Il culto all'estero, però, crebbe progressivamente, soprattutto in Giappone, dove "Cannibal Holocaust" è ricordato come il maggior successo al botteghino di sempre dopo "E.T." (se il Sol Levante questa settimana è l'unico Paese al mondo dove il film più visto non è "Avatar 2" bensì "The First Slam Dunk" vorrà pur dire qualcosa).
Nascita di un culto
Oggi le rivalutazioni si sprecano. C'è chi lo paragona a "Natural Born Killers" per la satira del compiacimento dei media nel mostrare la violenza. Chi lo accosta a "Zombi" di Romero per la critica alla società dei consumi. Chi lo celebra per aver puntato il dito dall'interno sul fenomeno un po' grottesco dei "mondo movie", inaugurato dal celebre "Mondo Cane" di Gualtiero Jacopetti. È c'è chi, semplicemente, ne sottolinea la maestria registica, la sfida alla sospensione di incredulità, la capacità di descrivere e raccontare la violenza come pochissimi altri film al mondo.
Allora, come scontato, le critiche furono spietate e "Cannibal Holocaust" fu bollato come bassa macelleria. Tra le poche voci fuori dal coro ci fu quella di Sergio Leone, che lodò l'incredibile realismo della seconda parte, quella del "found footage", ma previde che il suo estremo realismo avrebbe causato a Deodato "guai in tutto il mondo". La previsione si rivelò azzeccata. Ma ai guai seguirono una fama mondiale, la devozione di seguaci illustri come Quentin Tarantino ed Eli Roth e la consacrazione di "Cannibal Holocaust" come capolavoro dell'horror più radicale. Respingente, controverso, ma pur sempre capolavoro.
Deodato ha potuto chiudere gli occhi con la serenità di aver avuto giustizia. A molti suoi colleghi, a partire dallo sfortunato Fulci, non andò così bene.