AGI - Tiziano Ferro fa un disco di Tiziano Ferro. Chiaro, un Tiziano Ferro al quale succedono delle cose, belle o brutte che siano, e che rientrano chiaramente nei pezzi del disco, in maniera forse più consistente in questo disco, ma poi in realtà neanche troppo.
Tiziano Ferro è un ottimo artista, con le idee chiare per quanto riguarda il proprio percorso artistico, che riesce a dominare, forse anche di più rispetto al proprio percorso personale, sempre così travagliato; e la specialità della casa è certamente la capacità, davvero ammirevole e coraggiosa, di mettere questo travaglio nella propria arte, spremere, se vogliamo utilizzare questo termine, le storture della propria vita per ricavarne musica che poi, cosa da tenere sempre fortemente in considerazione, diventa così significativa per moltissime persone, il che, chiaramente, certifica il fatto che la sua musica sia buona musica.
Questo è “Il mondo è nostro”, sentirete parlare della sua depressione, del rapporto con il padre e del rapporto con il suo essere diventato padre, passando per dei ben fatti divertissment musicali (tipo i featuring con Ambra e Vecchioni) fino ad arrivare al riscatto per quello che ha vissuto e anche la forza di passarci sopra, considerarlo un passato che lascia cicatrici indelebili, ma che comunque non sanguina più.
Le canzoni hanno tutte un’ottima struttura, se va bene smuoveranno le classifiche digitali quanto uno sputo può condizionare le maree del Mediterraneo, ma dovremmo cominciare a pensare che in fondo le classifiche digitali contano tanto quanto, l’importante, specie per artisti con tale seguito, è buttare fuori musica che abbia un senso e questo disco ha senso, specie per tutti quelli che seguono con pathos ciò che Tiziano Ferro scrive e canta.
Noi rientriamo nel gruppo giusto a tratti, ma questo, a ben ragione, importa poco al mercato, a Tiziano Ferro e anche a voi che leggete; noi siamo qui per dirvi se il disco di Tiziano Ferro è un buon disco e lo è di certo, la valutazione può solo crescere rispetto alla vostra considerazione di Tiziano Ferro come artista. Ecco, Tiziano Ferro è certamente un ottimo artista, se pensate il contrario, allora si che abbiamo un problema
È un disco molto intimo, talmente intimo che quasi ci si sente in imbarazzo ad ascoltarlo, come se spiassi dal buco della serratura i segreti di qualcun altro…era uno dei tuoi intenti?
Parto col dire che è una delle cose che mi sento ripetere più spesso. Bello, d’accordo, però mi chiedo “Ma perché? Fino ad ora che ho fatto?”. Sinceramente, a me, e te lo dico con uno stupore gioioso, mi pare di non aver fatto altro nella vita, non ricordo un disco in cui “Naaaa, ora quasi quasi cazzeggio, non ci metto dentro i fatti miei!”, anche perché non ce la faccio, io appena vedo che in una canzone non c’è un’urgenza la accantono, appena mi accorgo che sto scegliendo le parole invece di sputarle sul foglio (so che non è un verbo esteticamente carino) mi sento in colpa, mi sento finto, lascio stare, mi dico “Ci ritorno poi”. Invece le canzoni che mi piacciono di più, che sento debbano finire in un disco, sono quelle che finisco per registrare sulle note vocali, perché già nella melodia c’è qualcosa. Quindi a me, personalmente, non sembra di aver fatto nulla di più o meno intimista o personale, io ho sempre aperto le dighe e parlato, ma accetto con gioia che questo disco arrivi così. Va bene, il contrario mi renderebbe triste, se mi dicessero “Ti sei un po' limitato”, ecco quello mi ucciderebbe, perché è il contrario di me, proprio nella vita.
Secondo me è un discorso di onestà, forse qualcosa in più, non rispetto al tuo lavoro però alla musica italiana nuova in generale, c’è. Si può dire che questa voglia di darsi completamente, senza architettare niente a tavolino, è un po' il segreto del successo delle tue canzoni? Che sono talmente oneste che poi arrivano così bene al pubblico e diventano così significative per il pubblico…?
Il tavolino è molto romantico, io vorrei fare come fanno in tanti: prendere un casale in montagna e dire “Oggi scrivo”, ma non scrivi mai quando “Oggi scrivo”. Mai. Ci fosse una canzone che finisce in un disco, una canzone che poi diventerà importante, (parlo di quelle uscite già, queste non so che fine faranno). È proprio scientifico, nessuna delle canzoni che poi sono diventate importanti per me sono nate da “Ah, ora mi siedo, in questa stanza, a questa scrivania che ho ordinato apposta per scrivere la prossima canzone…”. Mai, mai. È sempre scontrini, oggi per fortuna ci sono i cellulari, ma prima era la qualunque, ti chiamavi a casa e lasciavi un messaggio in segreteria. Il tavolino è romantico ma non funziona, così come non funzionano queste session di scrittura; probabilmente funzionano per gli altri, ma io quando mi siedo accanto a qualcun altro per scrivere, a meno che non è il mio migliore amico, come succede, o tra i miei migliori amici, come Emanuele Dabbono, uno degli autori con i quali ho scritto di più, che conosco da quando ho 17 anni, quindi è una cosa completamente diversa, organica, è una cosa talmente reale che non conta. Il resto, per me, non funziona, anche se ammetto che sarebbe il mio sogno. “Guarda, ho preso un casolare in montagna per scrivere il nuovo disco”, molti lo fanno eh…ed io dico: “Che culo! Ma come fai?”.
Questo approccio incide nell’essere più autentico?
Ti dico una cosa: non credo che sia essere più veri o non più veri, è proprio che a me il contrario annoia, lo trovo deprimente, lo trovo la perdita di un’occasione, cioè tu hai la possibilità di fare questo per mestiere, di passare tutta la vita a scrivere canzoni, qualcuno articoli come te, qualcuno libri, ti danno finalmente la possibilità di farlo perché c’è qualcuno che aspetta di ascoltare quello che scrivi e tu che fai? Ti metti lì e lo centellini, che palle! Che uno lo faccia bene o lo faccia male non sta a me dirlo, però sicuramente quello che mi fa sentire a mio agio è il fatto che io lo faccio come dico io, poi bello o brutto lì non ho il controllo.
Cosa si devono aspettare i tuoi fan da questo disco?
Si dovrebbero aspettare un dialogo a due, sempre, perché io quando scrivo una canzone poche volte mi fermo a rivedere quello che scrivo, una di queste è quando casco nella trappola del messaggio plurale. Invece tu la canzone la devi sempre scrivere come se la stessi cantando alla persona alla quale la vuoi raccontare, che non vuol dire la persona alla quale dedichi la canzone o della quale stai cantando, a volte anche si, però è come se tu stessi guardando quella persona in faccia; e se io dovessi insegnare scrittura di musica di canzoni, cosa che non farò mai perché non mi sento assolutamente in grado, ma dovessi per sbaglio inciampare in una lezione una delle due o tre cose che direi è questa: tu scrivi sempre una canzone come se la stessi semplicemente cantando ad una persona e sarà solo quella ad ascoltarla e poi non l’ascolterà più nessuno, dev’essere un dialogo univoco. Perché appena caschi nel volo pindarico del voler catechizzare le masse è la fine.
La cosa che mi ha fatto impressione è il fatto che il disco decidi di aprirlo con “Il paradiso dei bugiardi”; non mi fa impressione che ci sia questa canzone nel disco, mi fa impressione che la scegli come apertura del disco, sembra quasi una dichiarazione di intenti…
Lo hai detto: secondo me è una dichiarazione di intenti, ci sta. Anche perché la canzone è molto chiara, inizia e dice “Io non sono nessuno”, quindi fin dal principio siamo chiari, non insegno niente a nessuno, però, per piacere, che nessuno insegni a me. C’è una bolgia di persone che da quando sono nato decidono cosa sono, come sono, chi sono, se va bene, se non va bene, che hanno creato traumi che non se ne andranno mai, anche se il mondo sta cambiando; ed io, per educazione o per carattere, ho sempre scelto la strada della mancata polemica, ho sempre deciso di essere elegante, però queste persone comunque mi hanno scalfito, ferito, offeso, ancora succede, perché poi alla fine gli haters non esistono se non li facciamo entrare, alla fine se una persona ti offende su un tema che non ti vede fragile…mah, boh, finisce nella chiacchiera. Nel testo dico che sono io l’hater, perché queste persone le ho lasciate entrare io, e quindi è una maniera per ricordarmelo, un monito a me stesso, però c’è anche una maniera diversa di affrontare queste persone, ricordandomi del fatto che in fondo ogni tanto l’autostima arriva anche da un po' di sana presunzione. Per cui ci sono dei momenti in cui dico “Si, ok, va bene, avete vinto voi, perché tanto alla fine voi siete capaci a far diventare l’offesa una forma d’arte, starei qui a parlarne per ore, ma ci sono delle persone che mi aspettano per tre sere a San Siro…vaaiiii”. Perché la verità è che ogni tanto ci si perde in quest’aria fritta e poi ci sono delle cose molto più pratiche; alcuni mi hanno chiesto se la frase nella canzone è rabbia o egotrip, mah, l’egotrip è un’altra cosa, di base è un viaggio mentale basato su un’elevazione del proprio ego, così, sulla base di un nulla, tipo “Io sono il re del pop”, ma io sto dicendo che ho tre sere a San Siro, sto citando un fatto, poi che qualcuno lo possa prendere come una dichiarazione idolatra ci sta e mi sta anche bene, però non lo ritengo un egotrip, lo ritengo il bisogno di una persona, ogni tanto, di guardarsi allo specchio e non avere sempre questa dismorfia che mi porta solo e semplicemente a vedere i miei difetti. Egotrip sarebbe se io dicessi “Siccome ho tre sere a San Siro sono il numero uno”, no, io lo dico, non sono nessuno, anzi, secondo me quelle tre sere a San Siro ci vanno solo sfigati come me, siccome siamo in tanti noi sfigati, le sere sono tre, voi vincenti andate da un’altra parte…ecco! È proprio quella la cosa, è esattamente l’opposto ora che ci penso!
Tanto i vincenti, bontà loro, sono sempre di meno…
Vai, vai, andate a fare un aperitivo mentre siamo lì, non c’è problema, se vi da fastidio la musica alle 23 dobbiamo smettere a San Siro, quindi siete apposto, sarete già ubriachi e pieni delle vostre droghe per cui non avrete neanche tempo di stare ad ascoltare.
Nelle note che hai allegato al brano per noi della stampa spieghi di aver fatto pace col passato, mi chiedevo tra tutte le cose del passato con le quali evidentemente tu hai dovuto far pace qual è stata la più difficile?
Pace….io non ci credo alla pace assoluta onestamente, forse per me Miss Italia finisce qui! (E ride). Credo ad una versione futuribile della pace che è quella del conoscere i propri limiti, del vivere in quella finestra, in quello spettro tra buio completo ed esaltazione, che non conosco se devo essere sincero. Conosco diverse persone che curano apertamente il bipolarismo, mi sono informato, mi sono chiesto se fossi bipolare, la definizione era tipo “Atteggiamenti di grandiosità, di entusiasmo…”, io non li conosco proprio, io conosco basso e medio, alto proprio no. Per cui la verità è che non c’è la pace, però c’è la lanterna, prendi luce e inizi a far luce, e quindi in quel momento tu inizi perlomeno a dare un nome alle cose, perché il problema che ho avuto io nella mia storia, che non dico che sia la storia di tutti, è che tante cose che mi hanno fatto male io non le chiamavo con il loro nome, perchè mi sembravano semplicemente dei corto circuiti, pensavo di essere difettato, perché se questo è quello che la vita mi offre, se questo è come mi sento, evidentemente il problema è semplicemente mio, e non è che io ho fatto pace, alcune volte si, però c’è più che altro un rapporto molto più chiaro con le cose per quello che sono. Alcune volte non puoi fare pace, ci sono cose che ti hanno ferito e ti hanno creato come persona; si parla tanto del politically Correct, è brutto quando lo si usa formalmente senza capire la storia, però io la storia la so e se io penso determinate etichette che hanno creato dei sigilli a dei ghetti che ci hanno rinchiusi per anni, nei quali io mi sono sentito in dovere di rimanere chiuso, poi ti rendi conto che quelle parole invece andrebbero cancellate, riposizionate e additate, perché sono stracolme di un contenuto emotivo fortissimo, che mi rendo conto non tutti possono comprendere, ma che invece è così. Quindi, io non credo al senso assoluto di pace, ma sicuramente ci vedo meglio, vedo meglio cos’è cosa.
Ne “La prima festa del papà” racconti di questa emozione meravigliosa del realizzare di essere padre, cosa hai pensato nel momento in cui ha vinto le elezioni una parte politica che su questo argomento ha delle idee così nette?
Io mi sento di dire, con fare tutt’altro che provocatorio: ma perché, prima come andavano le cose? Cioè, ahimè, a me piacerebbe scagliarmi contro un colore, il problema è che i diritti non hanno colore, però nel nostro paese anche la mancanza di diritto non ha avuto colore. Perché non mi sembra che fino ad oggi, anche quando altre fazioni sono state al governo, siano successe cose incredibili; abbiamo fatto questo gioco delle unioni civili, che è stata poco meno di una presa in giro e lo sappiamo tutti. Per cui mi viene da dire: non credo che chi sarà al governo adesso abbia tempo di distruggere, c’è poco da distruggere innanzitutto, perché i diritti sono talmente pochi che non so come si potrà andare indietro, ma soprattutto penso che l’Italia abbia bisogno di attenzione su talmente tanti temi che dedicare tempo alla distruzione non credo che sia un privilegio che nessuno oggi al governo possa concedersi. Per il resto non c’era bisogno che vincesse le elezioni nessuno per vedere che ci sono coppie che attendono anni per adottare bambini, e parlo di coppie non omosessuali, ci sono persone single economicamente indipendenti, intelligenti, piene d’amore e capacità, che non possono adottare perché non coniugate, che ci sono coppie giovani che devono mettere da parte soldi per anni, andare in Spagna per darsi la possibilità di allargare la propria famiglia…questo c’era già, comprendo la domanda, perché è chiaro che poi il dibattito politico porta a determinati slogan, ad estremismi di un certo tipo, però, mi dispiace dirlo, non c’è da preoccuparsi di più, qui c’è sempre stato da preoccuparsi, quindi onestamente sarebbe il momento di parlare di diritti, punto. Perché non s’è mai fatto, mai veramente, e rimango ottimista, perché penso che ci sia bisogno di costruire, non c’è tempo per distruggere e credo succederà.
Nel disco c’è una collaborazione con thasup, uno dei protagonisti del nuovo pop italiano, ma ci sono altri artisti giovani che ti hanno colpito particolarmente?
Si si, tantissimi, ce ne sono mille. Io sono convinto che dopo (voglio esagerare ed essere un po' estremista) un decennio d’ombra sui nuovi talenti, adesso finalmente è nata una scuola dalla quale ne sono usciti diversi che secondo me stanno facendo la differenza e stanno tirando la linea che crea il prima e il dopo. Sicuramente thasup è il numero uno, io adoro Blanco e credo sia un genio; adoro Ultimo perché in un momento di reggaeton e trap, si è messo al piano, un ragazzo giovane che canta d’amore, di persone, e riempie gli stadi, a me quello consola, mi fa pensare che allora il mondo non è veramente del tutto finito in consegna a trap e reggaeton, che non odio ma vorrei che non fossero l’unica cosa. Mi piacciono moltissimo i Pinguini perché mi fanno pensare agli 883 della mia generazione, intanto sono una band e non usciva una band da un millennio, e poi la sincerità, la spontaneità, c’è un’urgenza dietro le loro canzoni, raccontano se stessi come vogliono loro e questa cosa è meravigliosa. Poi Madame, che non devo dire nulla, parla da sé; ma posso andare avanti, ne sono usciti tanti che mi fanno pensare e mi fanno sentire felice, perché vuol dire che non abbiamo fatto terra bruciata e c’è tempo per la consegna, quindi direi tutti questi, e ce ne sono anche molti altri.
Cosa ti piacerebbe che restasse di questo disco alla fine dell’ascolto?
Provocare la mente di qualcuno sarebbe una risposta un po' presuntuosa, ma se accadesse, anche in percentuale minima, sarebbe bello. Io non amo spiegare le canzoni, anche se poi inevitabilmente lo dobbiamo fare, per una cosa o per un’altra, a me piacerebbe, come succede spesso, che mi spiegassero loro le canzoni, perché tante volte incontro qualcuno che mi dice “In quella canzone hai detto quello per quella cosa lì…”, ed io penso “No, però mi sa che c’hai ragione tu”, perchè poi quel flusso di coscienza non ti permette neanche di star lì tanto a leggere, per cui mi sento felice se la testa di qualcuno potrà essere anche minimamente provocata.
Ma tu senti una responsabilità in qualche modo riguardo il fatto che il tuo lavoro significa così tanto per chi ascolta?
Più che responsabilità io la trovo una cosa meravigliosa, perché se c’è una cosa che uccide il mondo è la solitudine e l’incomprensione, quindi pensa quanto è bello un mondo in cui tutti sperano di essere ascoltati anche cinque minuti, avere la sensazione che ci sarà qualcuno che lo farà. A me questa cosa mi tiene in piedi proprio, quindi non la chiamerei responsabilità, ma senso di gratitudine e sicuramente un senso di privilegio estremo.