“Era un’anima pura, è un grande peccato che il mondo della musica classica, caratterizzato da gelosie e lotte intestine lo abbia sempre costretto a lottare per strappare una data”. Angelo Bozzolini coideatore e direttore artistico delle due rivoluzionarie serate evento di “Che storia è la musica” dove su Raitre, nel giugno e nel dicembre scorso Ezio Bosso ha coraggiosamente dimostrato come la musica classica, tradizionalmente percepita (e preservata) come un genere “alto”, potesse essere narrata e avvicinata al pubblico televisivo, ricorda con Agi il direttore d’orchestra scomparso a 48 anni nella notte del 14 maggio. Dopo anni di convivenza con una dolorosa malattia neurologica degenerativa, alleviata però dal potere terapeutico della musica .
Bosso aveva definito quelle due serate “la follia più grande” della sua vita…
“Stavamo anche pensando a una terza edizione di “Che storia è la musica”, ne avevamo parlato al telefono durante questi giorni di lockdown, stavolta Ezio voleva dedicarsi a Dvorak. Quel programma adesso però diventa irripetibile, perché non c’è nessun altro nel mondo della musica classica che abbia la sua personalità e la sua voglia di essere pop. E non ritengo un caso che se ne sia andato in uno dei momenti più deprimenti della nostra esistenza”.
Perché?
“Ezio era un uomo che viveva sulle montagne russe, toccava il cielo con le dita attraverso il potere energizzante che gli dava la musica e ne scendeva quando il dolore, nonostante i tanti farmaci, lo sopraffaceva. Da più di due mesi era senza musica, senza cibo per la sua anima, tant’è che sul citofono della sua casa bolognese, c’era scritto “Arte cura” la sua filosofia di vita, che era anche il nome della sua società. Nel novembre scorso, quando abbiamo girato a Viterbo l’edizione natalizia di “Che storia è la musica” , quella dedicata a Cajkovskij, stava malissimo, aveva 39 e mezzo di febbre, doveva osservare una dieta che gli concedeva giusto un brodo vegetale a cena. Ma quando il giorno dopo ha preso la bacchetta in mano sembrava Schwarzenegger, la musica gli dava vita”.
Ma com’è nata quell’impresa televisiva rivoluzionaria, idea sua o di Bosso?
Sua. Ci siamo visti per la prima volta il 7 luglio del 2017 in un’osteria romana vicino a piazza del Popolo, poi diventato il nostro quartier generale. Bosso puntava all’impresa impossibile di portare e raccontare la musica classica non nei soliti canali tematici ma in una rete generalista, e per farlo cercava uno sguardo esterno al suo mondo. Aveva visto il mio film “Il carattere italiano” dedicato all’Orchestra di Santa Cecilia, gli era piaciuto e chiese alla sua addetta stampa Alessia Capelletti di metterci in contatto. Lui aveva ben chiaro il progetto musicale, io che stavo già lavorando a Raitre l’ho avvicinato alla tv. I vertici Rai e un direttore illuminato come Stefano Coletta hanno capito subito la portata di quel programma da vero servizio pubblico tutto suo, dopo l’esibizione al Festival di Sanremo e l’intervista con Iannacone a ‘I dieci comandamenti’. Quando iniziammo a lavorare al progetto ci siamo sentiti complici di un’impresa picaresca e piratesca”
L’esibizione del 2016 al Festival Sanremo l’aveva già reso molto popolare…
“Sì, peccato però che l'abbia portato ad essere identificato come pianista, anche oggi nel giorno della sua scomparsa. Ed è un grande errore, la cosa più sbagliata che si possa dire di lui, non ne sarebbe contento, equivale a definire fotografo un regista. Bosso nasce contrabbassista, convocato a 19 anni da Claudio Abbado nella sua orchestra, la sua malattia gli ha poi reso difficile continuare a suonare il contrabbasso portandolo verso il pianoforte. Ma è stato soprattutto un direttore d’orchestra, uno di quelli più completi con cui ho lavorato, l’orchestra era il suo strumento, deve essere ricordato con la bacchetta in mano mentre dirige Beethoven. Nella musica metteva la sua vita, aveva sempre voglia di stare tra i suoi musicisti e tra la gente. Girare in strada con lui, poi, era un’esperienza unica”.
Perché, che succedeva?
“Mi sembrava di camminare accanto a Gesù, le persone si avvicinavano, lo toccavano, la segregazione imposta dal coronavirus gli ha dato sicuramente una grande sofferenza. Tanta era la voglia di rendere partecipe il pubblico di un viaggio umano e di abbracciare tutti gli spettatori che in ‘Che storia è la musica’ e non semplicemente come soluzione televisiva, l’orchestra è stata messa al centro della platea, come in un’agorà, con il pubblico intorno, per le tre ore e mezza di programma dedicate con la sua Europa Filarmonica a Beethoven e alle chiacchiere con i vari Enrico Mentana, Gino Strada e Nicoletta Mantovani, un’idea questa, di Coletta”.
Che insegnamento lascia l’Ezio Bosso televisivo?
“Ha dimostrato quanto sia una grande bugia pensare che la cultura in tv non funzioni. Si preferisce dedicarsi a programmi disimpegnati perché è più semplice crearli, noi quel 9 giugno facemmo il 5,5 di share in una serata tv complicata, con la concorrenza di Cristiano Ronaldo che giocava in nazionale con il suo Portogallo contro l’Olanda. Su Twitter eravamo “trend topic” con la gente che scriveva “stasera il servizio pubblico ha vinto la sua partita”. Tutti, da Bosso a me, a Coletta e alla centinaia di tecnici che oggi hanno riempito il mio telefono di messaggi, abbiamo lavorato a quel programma con la consapevolezza di star facendo qualcosa di straordinario. L’eccezionalità era insita non solo nel rendere la musica classica accessibile al pubblico, spiegandola passo passo e senza tagliare neanche un ritornello con un approccio filologico al testo musicale ma, soprattutto nell’unicità di Bosso”.
Cosa lo rendeva così unico?
“È stato l’artista più completo con cui ho lavorato, ma non puntava ad essere un uomo di spettacolo, come ad esempio un altro artista di grande spessore come Roberto Bolle che invece ha capito cosa serve per una prima serata di successo. A lui non interessava, voleva essere solo un musicista e parlare di musica, con i fratelli della sua orchestra, e senza stare sul podio. Era un artista puro”.