I l problema delle poche donne nella musica pop italiana (ma sarebbe meglio ampliare il concetto a un più generico “sistema musicale”) esiste, lo dicono i numeri e - se possibile - va peggiorando. Se è vero, come ha detto Michele Monina, che non esiste una volontà precisa di escludere le donne dal mercato, d’altra parte è altrettanto innegabile che basta scorrere le classifiche e le playlist di Spotify per accorgersi che la percentuale di donne è minima, quasi inesistente. Mentre scriviamo, nella top ten italiana di Spotify c’è solo una donna ed è straniera (Billie Eilish), per trovare la prima italiana, Elisa, dobbiamo scrollare fino alla posizione 24, ma canta in duetto con Rkomi; ne troviamo un’altra alla posizione 41, Federica Carta, ma anche lei canta insieme ad un uomo, Shade; una posizione più giù troviamo Elodie, che accompagna addirittura un’intera boy band: i The Kolors; in posizione 50 di nuovo Elisa, stavolta accompagnata da Carl Brave. Zero soliste. Dato piuttosto significativo.
E se questi sono dati giustificabili (fino ad un certo punto) con i gusti di un pubblico libero di ascoltare qualsiasi cosa voglia, lo sono meno quelli relativi alle playlist proposte proprio dalla piattaforma: su Indie Italia (265.552 follower), per fare un esempio, una delle playlist più seguite dagli utenti per scoprire la nuova discografia italiana, sono presenti solo tre brani, su 44, cantati (anche) da donne: “I tuoi bellissimi difetti” de La Municipal, “Mancarsi” dei Coma_Cose e “Cit.” singolo d’esordio di tale Nuvola, l’unica solista della lista.
Ne deduciamo che quando un utente chiede a Spotify una dritta sul nuovo cantautore italiano la risposta sarà declinata quasi esclusivamente al maschile. Allora sorge spontanea una domanda: che problemi abbiamo con le donne che cantano?
Lo abbiamo chiesto ad una rappresentante (che ci ha chiesto di restare anonima) di Shesaid.so, una rete globale di donne che lavorano nell’industria musicale, nata a Londra nel 2014 e da circa un anno anche in Italia. “Il punto è che non esiste un solo problema, come non esiste un solo colpevole. I colpevoli non sono le case discografiche o il pubblico o chi compila le line-up dei festival; la stessa mancanza di donne nella musica la ritrovi in politica, nelle scienze, nella tecnologia, nei cda delle grandi aziende, in qualsiasi posizione di prestigio sociale o professionale. Per cui è evidente che è un problema culturale, che riguarda la musica, si, ma fino a un certo punto. Viviamo in un paese fortemente cattolico, tradizionalista, conservatore, patriarcale, per cui abbiamo tutti, anche inconsciamente, un’idea molto precisa di che cosa può o non può fare una donna. Nel campo della musica questo si traduce con il fatto che una ragazzina che ama la musica si trova davanti due opzioni: da un lato fare la cantante, cioè chi interpreta le canzoni di altri (e per fare la cantante i media, le tv, ci dicono che devi essere bella o avere comunque un aspetto gradevole) oppure puoi essere una fan, non hai moltissime alternative. Viceversa un ragazzino che inizia ad interessarsi alla musica sa che può fare il cantante, il cantautore, il batterista, il bassista, può fare il rock…e nessuno nella cerchia dei suoi amici o dei suoi parenti dirà mai “questa cosa non la puoi fare”.
Quindi una donna non può liberamente decidere di suonare la batteria o il basso?
“Certo che può, senza dubbio, ma ci sono delle famiglie che ostacolano questa scelta perché preferiscono che le loro figlie facciano qualcosa di più femminile. Ovviamente questa cosa sta andando sempre meglio, oggi con la globalizzazione dovuta ai social le ragazze riescono a capire in un’età molto più tenera che le possibilità sono infinite e che è stupido autoescludere certe strade”.
In effetti se l’albero cresce storto sarebbe il caso di dare un’occhiata alle radici. I dati forniti dalla Siae ci dicono che, per quanto riguarda la sezione musica, solo il 15% degli iscritti è di sesso femminile. Insomma, pare che siano proprio le donne a mettersi in minoranza, a non scegliere la musica come professione, tutti i dati che ne conseguono non possono che riflettere questo primario.
“Succede che chi ama la musica e vuole intraprendere quella carriera si rende conto che ci sono talmente tanti paletti, talmente tante difficoltà, che, se lo fa, lo fa in maniera dilettantistica, quindi nemmeno deposita i pezzi alla Siae; tante altre invece, che lo fanno, sono psicologicamente restie ad esporsi”.
A questo proposito, la scorsa estate, fece molto rumore la denuncia di CRLN, giovane cantautrice chiamata ad aprire il concerto di Gemitaiz durante il prestigioso Indiegeno Fest di Patti (provincia di Messina), costretta a scendere dal palco in anticipo a causa di una serie di insulti di matrice sessista ricevuti durante l’esibizione dai giovanissimi fan del rapper.
“Ecco, una ragazza sa che se decide di intraprendere questa carriera, salendo sul palco si esporrà a questo genere di insulti molto pesanti, cosa della quale un ragazzo non si dovrà mai assolutamente preoccupare. Noi sappiamo benissimo, fin da bambine, che la prima cosa che guardano di te è l’aspetto fisico e che nella vita verrai giudicata innanzitutto per quello. Questo è uno dei tanti motivi per cui le ragazze sono più scoraggiate. Per avere un po' di visibilità devi essere giovane e carina. E questo comunque non ti mette al riparo da un certo tipo di giudizi o di insulti”.
Com’è allora la vita di una musicista?
“Pure se non ricevono commenti sull’aspetto fisico o insulti sessisti, comunque vengono trattate da stupide. Sono moltissime le musiciste che ogni volta che salgono sul palco vengono trattate dal tecnico del suono di turno come se fossero delle incapaci; che si sentono dire frasi del tipo 'non hai qualche ragazzo che ti può aiutare ad attaccare i tuoi cavi?', come se fossero delle imbecilli”.
Queste sono testimonianze che avete raccolto tra chi ha aderito a shesaid.so?
“Certo. Stessa cosa per tutte le ragazze che lavorano dall’altra parte della barricata: che tu sia una tour manager o una direttrice artistica, vieni regolarmente scambiata per una groupie, per l’aiutante, per la segretaria…è una cosa che succede spessissimo, anche ad alti livelli. Non lo fanno apposta, perché odiano le donne, ma sono dei condizionamenti culturali talmente radicati dentro di noi che anche chi lo fa non se ne rende conto. Quando dico che non è colpa del singolo professionista o della casa discografica o del festival, intendo che nessuno sostiene che ci sia necessariamente l’uomo cattivo che dice “io nel mio festival voglio solo gli uomini” oppure “Io nella mia azienda promuovo solo gli uomini”, nessuno sano di mente si potrebbe mai permettere di dire o pensare questa cosa, ma di fatto è quello che accade. Si è abituati a pensare che una persona competente sia un maschio, che una persona prestigiosa sia un maschio, come se il cervello ti mettesse un para occhi”.
Allora è arrivato shesaid.so…
“Dentro shesaid.so ci siamo rese conto che siamo tantissime, ora come ora un po' più di mille. Tutte professioniste dell’industria musicale che vengono lasciate da parte, alle quali non viene mai riconosciuto un tipo di professionalità attivo ma sempre passivo. Se in un festival inviti sempre e solo artisti uomini, se in un panel inviti sempre e solo uomini, cosa ne deduce il pubblico? Che le donne non ci sono, non esistono, e se esistono non sono abbastanza brave per essere chiamate, quando il punto non è mai palesemente questo”.
E dici che la cosa si riflette anche sugli ascolti del pubblico? Oppure dipende davvero da come vengono formulate le playlist? O magari è un fatto numerico o culturale…?
“Un po' tutto. La stragrande maggioranza degli ascoltatori sono “ascoltatori distratti”, quelli che ascoltano la radio o le playlist precompilate dagli editor di Spotify, quindi si, dipende anche da loro. Sarebbe ingenuo pensare che questi condizionamenti culturali dei quali abbiamo parlato non influenzino anche il pubblico”.
E questo è il risultato, no?
“Esatto, a livello pratico, è che numericamente ci sono meno artiste, quindi statisticamente, tra queste meno artiste, ce ne sono ancora meno di eccezionalmente brave e capaci di attrarre pubblico. Io però vedo che questa situazione già sta cominciando a cambiare con le nuove generazioni. Le ragazze che stanno uscendo ora, che hanno vent’anni, grazie al cielo sono cresciute con un’autoscoscienza di certe dinamiche molto più alta rispetto alla nostra generazione, sentono parlare da quando sono bambine di femminismo, crescono con una prospettiva culturale molto più equilibrata di noi che siamo nati con Mediaset e le veline. Se guardi al numero di artiste nuove che stanno uscendo sono veramente tante rispetto a cinque anni fa”
E le case discografiche?
“Se diamo per buono che ci siano questi condizionamenti culturali inconsci, è normale poi che un’etichetta discografica tenda a puntare di più su un maschio, anche perché, com’è ovvio che sia, se da più risultati a livello commerciale, ha anche la scusa economica per farlo e, ti dirò, è anche giusto che lo faccia. È un po' meno giusto che lo faccia chi organizza un festival, perché in un festival è vero che devi far tornare i conti, ma è anche vero che se tu sei cosciente del problema tenti di equilibrare le cose, se non lo fai sei una persona che sai che c’è un problema ma te ne freghi”.
Quindi certe etichette ricevono il materiale di una donna, lo apprezzano, ma la rifiutano solo perché donna, con la scusa del mercato?
“Noi abbiamo la testimonianza di almeno due ragazze alle quali è stata detta questa cosa, sia da major che da etichette indipendenti. È stata ascoltata la canzone e gli è stato detto “bella, peccato che sei femmina”. Non è la regola, anzi, ci sono tantissime etichette che puntano sulle donne, ma è ovvio che una grande multinazionale deve fare i conti in tasca e se vede che in questo momento storico le classifiche sono dominate da uomini cerca di continuare su questa strada. Ma questa cosa non succede solo da noi, succede in tutto il resto d’Europa e anche negli Stati Uniti. Infatti stanno nascendo ovunque delle iniziative più o meno istituzionali per provare a correggere il tiro; Prs, la Siae inglese, ha invitato i festival a firmare una sorta di carta d’intenti per la quale si impegnano, da qui al 2020, ad alzare la percentuale di ragazze nelle lineup dei festival”.
E qui si tocca un altro argomento scottante, quello delle famigerate quote rosa. C’è chi pensa che possano risultare addirittura offensive proprio nei confronti di una donna, che non dovrebbe accettare scorciatoie solo perché donna…
“Questa è una cosa che dicono in tanti, uomini e donne, incluse ragazze che sono dentro shesaid.so, e che può avere un fondo di logica, ma è alle volte una scusa per applicare, al contrario, delle quote blu. Pensa se, al contrario, si costruissero lineup di festival solo con femmine, non ti sembrerebbe strano? Capisci che appena provi a ribaltare la situazione ti sembra senza senso. Il fatto che esistano line-up come quella del concerto del Primo Maggio di Roma, solo con artisti maschi, mi conferma, al contrario, che esistono quote blu, solo che per noi ormai è la norma. Ma dobbiamo farci noi la domanda: questa è veramente la normalità? Noi dobbiamo chiederci perché esistono le quote blu, non perché dovrebbero esistere le quote rosa. A maggior ragione in un festival come quello del Primo Maggio, organizzato dai sindacati, quindi politico, non credo che ci possano essere scuse da questo punto di vista. Io non dico di stare lì con la calcolatrice, non me ne frega niente, sono veramente poche le persone che invocano il 50/50, però nel 2019 non è possibile che in qualsiasi festival, in qualsiasi lineup, in qualsiasi giuria, in qualsiasi parterre di esperti, ci siano sempre esclusivamente uomini, perché non è la fotografia della realtà, molto banalmente. Dietro c’è un condizionamento culturale, un filtro…”
Come avete intenzione di combattere questa situazione?
“La risposta più ovvia è: con l’educazione, quindi far capire ai ragazzini delle scuole che ci può essere benissimo una direttrice di festival, una donna a capo di una major e una ragazza può suonare la batteria, può fare rock, può fare quello che le pare, anche se è brutta e cicciona, senza che gliene freghi niente a nessuno. Ma comunque dovrebbe essere un’educazione sui pregiudizi di genere; se vai a vedere i libri delle elementari viene raffigurato lo scienziato, il politico, il papà manager e la mamma che invece sta a casa a pulire i panni, e anche quella non è la fotografia della realtà, pensa quanto queste cose ci influenzano fin da bambini e poi si riversano in qualsiasi ambito della vita quotidiana, compresa la musica. Noi poi cerchiamo, anche all’interno della nostra comunità, di rendere tutte le professioniste coscienti di questi meccanismi. Cerchiamo di diffondere le nostre idee, da quando ci siamo riunite, nemmeno un anno fa, abbiamo già 2/3 festival che ci hanno chiamato per essere aiutati ad avere un po' più di bilanciamento. Internamente noi ci schediamo, abbiamo un database per sapere chi fa cosa, in quale città e da quanti anni, così se un festival ci chiede una figura a Bologna io lo consulto e posso aiutarli. Facciamo anche formazione, condividiamo le competenze di ognuna con quelle delle altre, organizzando una serie di workshop interni gratuiti. Al MiAmi abbiamo organizzato un progetto di tutoring creando 18 coppie, una senior e una junior, in modo tale da poter passare un po' di tempo al festival assieme e la junior possa chiedere informazioni, consigli e allargare la rete di contatti”.