Con Scialò nel labirinto sonoro della canzone napoletana [VIDEO]
AGI - Al contrario di Borges, che amava più leggere che scrivere, gli intellettuali (e non) napoletani forse comprano meno volumi di quanti ne portino in libreria. Un genere tra i più prolifici è quello della saggistica sulla canzone, di cui un testo su tre è piacevole, uno su cinque può tornare utile, uno su dieci è necessario. E poi, su uno scaffale a parte, c’è la ‘Storia della canzone napoletana’ di Pasquale Scialò, musicologo e compositore con un curriculum tra l’accademia e la pratica, quella in cui – per dirla con Giuseppe Marotta – le mani “si sporcano di musica”.
I due volumi di Scialò, pubblicati da Neri Pozza rispettivamente nel 2017 e nel 2021, diventarono in breve pressappoco introvabili sicché l’editore li ha riproposti in un cofanetto che è dal primo dicembre in libreria, arricchito da una playlist di brani scelti dall’autore – con Qr code ne offre duecento – quale consiglio antologico a chi volesse conoscere o approfondire una storia che parte per convenzione dal 1824 e si allunga fino al 2003.
Minuziosa carrellata lunga quasi due secoli, dai “passatempi” dei Cottrau al rap e alla trap, da ‘Te voglio bene assaje’ a Geolier, in un’opera che sfugge alla banalità del colorismo ma non trascura l’aneddotica, che traccia la storia secondo un fil rouge ma approfondisce le singole tematiche, che risponde al rigore filologico ma soprattutto, essendo frutto di chi conosce la musica, a differenza di altri lavori sul genere non si consegna all’affabulazione dei soli parolieri e ne illustra la consistenza armonica e melodica, con necessari riferimenti di tipo tecnico senza escludere però, dalla lettura, chi ha punto o poca dimestichezza col pentagramma.
La ‘Storia della canzone napoletana’, mentre elabora l’evoluzione di un imponente genere musicale, lo aggancia ai riferimenti della storia generale della città asseverando un paradigma incontestabile: che perlomeno negli ultimi due secoli non esiste cambiamento sociale, economico, psicologico che non abbia trovato una corrispondenza nei suoni. Come se davvero la mitica matrice della Sirena Partenope, che associa al canto i destini, fosse il trademark di Napoli.
Compianta di tempo in tempo come morta, tra un decennio e l’altro, la canzone napoletana è sempre rimasta viva e vivace grazie alla capacità di assorbimento, quella porosità tufacea connaturata alla cultura cittadina per cui si è rinnovata rielaborando l’apporto di tutti i generi. Dalla Francia all’America, dalle cadenze di Cimarosa a quelle del rock, i musicisti napoletani hanno provveduto di lingua e capacità armoniche, di ritmi e melodie i tempi che hanno vissuto ma nessuno, neppure i rapper, è riuscito (neanche volendo) a cancellare i semi della Sirena con un risolutivo “scurdammoce ’o passato”.
“Da quanto emerge dalla nostra indagine si rinforza la convinzione che la musica recente andrebbe ascoltata provando a scoprire legami, a volte impensabili a priori, con antiche matrici”, scrive Scialò a conclusione dell’opera invitando a “superare le contrapposizioni, tanto più in un repertorio che vede una letteratura storica, in gran parte codificata, mischiarsi a una nuova materia in continua evoluzione”.
Perciò come si fa a non considerare ‘Era de maggio’, giusto per dire un titolo e uno solo, un capolavoro ancora vivo grazie alla qualità: l’ispirato frutto del paritetico lavoro di un poeta, Salvatore Di Giacomo, e di un musicista colto, Mario Pasquale Costa. Come si fa però a evitarne la “museificazione”, avverte Scialò, “che tende a monumentalizzare i prodotti imprigionandoli nel tempo secondo consunte convenzioni”. Si può fare, lavorando sugli spartiti e comparando temi e testi secondo una coscienza storica.
Che poi la storia della canzone sia anche una vicenda personale e sentimentale, che sia condizionata per esempio dalle preferenze per una specifica interpretazione è questione acquisita: quando gli appassionati si dividevano in bruniani e muroliani sapevano entrambi di avere tutti ragione, perché la verità non si rifugia mai dentro una voce sola. Il gusto individuale, quello sì, ma se s’affina si proietta nel tempo a scendere e a salire. Perciò chi apprezza i Nu Genea ha assimilato già Pino Daniele e forse, a ritroso, pure Carosone.
‘Era de maggio’ insomma può diventare anche un rap e da ‘Te voglio bene assaje’ germina ‘Dicitencello vuje’ e da questa s’arriva a ‘Caruso’ di Dalla (agli “stranieri cantautori” Scialò dedica un gustoso capitolo tra Modugno, De André, Paolo Conte col suo dialetto immaginato). Ci sono pure, come in una minestra maritata a regola, la pregiata esperienza della Nccp ma anche i neomelodici; c’è il neapolitan power ma anche gli Squallor e Tony Tammaro (chissà se sarebbero esistiti senza le macchiette di Maldacea o senza Armando Gill). Ci sono i guappi (da Libero Bovio fino al “latitar cantando” di più recenti “fetienti”). C’è la questione femminile (guai a snobbare Maria Nazionale), l’epopea della guerra e quella della migrazione.
Per collegare tutto si deve cominciare dall’inizio ma si può fare persino al contrario: cominciando da dove si finisce. L’essenziale è aderire al consiglio conclusivo di Scialò: “Ascoltare, ascoltare, ascoltare… con ‘orecchio pulito’, senza pregiudizio, la canzone che verrà!”. Suggerimento già valido nel 1806, quando una famiglia di emigranti parigini, i Cottrau, si stabilisce a Napoli dove aprirà le finestre, e la tastiera del pianoforte, per catturare le melodie popolari che aleggiavano là fuori e le colte soluzioni che già c’erano. Frammiste senza mistero. Se non quello che i veri musicisti, come fa il “cardillo”, volano liberi dovunque di ascoltare. Tra ‘vasci’ e teatrini di corte, tra salotti perbene e postegge stonate, creano e ricreano inseguendo i suoni per l’aria.