AGI - Mina – “Ti amo come un pazzo” : La musica non esiste, è un’entità invisibile, non la tocchiamo, non la stringiamo, non fisicamente perlomeno, eppure incide nelle nostre vite con straordinaria efficacia; un fenomeno strano e inspiegabile, la scienza potrà parlarci di vibrazioni, onde, ma non è quella l’essenza della musica, lo sappiamo. L’essenza della musica è sfuggente, tocca apparati del nostro corpo che forse nemmeno sappiamo di contenere, si sviluppa quindi evidentemente una sorta di codice, di linguaggio, profondo, intimo, che compie velocissimamente il percorso che va dalla bocca di chi canta, anch’egli non totalmente cosciente di ciò che sta succedendo, alle orecchie di chi ascolta, che la musica, semplicemente, la subisce.
Ecco, l’effetto che fa ascoltare la voce di Mina non è tecnicamente spiegabile, non del tutto, è una voce femminile, come tante altre, eppure noi la percepiamo come qualcosa di divino, superiore, una di quelle carezze che ci fanno venire i brividi, che ci fanno sentire nudi. “Ti amo come un pazzo” è probabilmente uno dei migliori progetti musicali della Tigre di Cremona per quel che riguarda album di inediti e da solista, il modo in cui suona la sua voce, le scelte che compie in termini di brani e relative interpretazioni, non sono solo perfette, ancora oggi incise con evidente autentica passione per la materia, ma anche tremendamente attuali, vedi il duetto con BLANCO, confronto perfettamente confezionato tra due generazioni che nulla hanno a che fare tra di loro.
Questo perché l’epica che la sua voce trasmette è definitiva, come se oltre la voce di Mina non esistessero altre porzioni di universo, come se qualsiasi cosa canti Mina, meglio di come la canta Mina, sotto ogni punto di vista, anche sentimentale, non possa essere cantato. Questo è “Ti amo come un pazzo”, la percezione della musica portata agli estremi, la musica come deve risuonare tra le nuvole del paradiso, l’amore che si fa voce e parole, che vibra della sua umanità, che si fa strumento per la narrazione, fino alla commozione più totale.
Sarà che Mina la amiamo e che la sua condizione di autoemarginazione ci permette di ricevere da lei solo la sua voce, senza dare occasione a questo mondo ammuffito dai social, dall’opinione libera e sconsiderata, di scalfirla e, di conseguenza, di scalfirne il mito; ma la sensazione è che se questo paese avesse una voce sarebbe certamente la sua.
Vinicio Capossela – “Tredici canzoni urgenti” : Ciò che fa più male nella musica di oggi è la convenzione, ormai talmente accettata da non essere nemmeno più discussa, secondo la quale un artista debba necessariamente rivolgersi ad un mercato. Certo, chiaro, un artista senza mercato fa comunque arte, magari anche valida, ma se la godrà da solo, e questo è un estremo; dall’altro, ed è sicuramente la situazione più vicina alla realtà delle cose, perlomeno attualmente, è che esista un mercato ma vuoto di arte, occupato da persone dentro le quali quel fuoco, semplicemente, non brucia.
Per questo, con il cuore sotto le scarpe, alle volte tocca riflettere sul fatto che, probabilmente, tutti i grandi della storia del nostro cantautorato oggi non verrebbero nemmeno presi in considerazione. Perché i tempi cambiano, ok, si, certo, ma per quanto ci riguarda risulta insopportabile l’idea che il tempo che passa condizioni la natura dell’approccio alla musica, sempre più disinteressato e superficiale.
Vinicio Capossela allora oggi risulta artista fondamentale, isola in mezzo ad un oceano in burrasca, e la sua arte andrebbe protetta in un museo, perché in fondo di questo si tratta: un artista in un piccolo universo in via d’estinzione. “Tredici canzoni urgenti” lo dimostra, non solo perché sono canzoni, appunto, urgenti, evidentemente pregne di un’incisività forse mai stata così terrena, il richiamo alle armi della poesia, non più spolverata su una visione del mondo, ancora una volta, illuminata; ma tangibile, presente, qui, tra di noi, che si può masticare nervosi davanti alla tv, ad un telegiornale stracolmo di insopportabili brutture. Un disco politico quindi, si, anche, se siete di quelli che devono a tutti i costi incasellare le cose della vita, noi preferiremmo definirlo un disco attivo, che ci invita a non svendere la nostra profondità, il nostro romanticismo, la nostra speranza, un disco che dice tanto ma dice ancora di più solo il fatto che sia stato pubblicato in un mondo, quello della musica, che per quanto ne sappiamo ne avrebbe fatto perfino a meno, spaventato com’è dall’impegno, dal pensiero, che pensa solo a ridersela ed a ballarsela. Punto.
Il tutto ovviamente è confezionato con le caratteristiche tipiche del fare musica di Capossela, brani che sono come cubi di Rubik, melodicamente quasi sconclusionati ma che poi, improvvisamente, vengono spaccati in due da un arcobaleno di poesia che ti atterrisce dalla bellezza, ti fa sentire piccolo piccolo dinanzi a quell’enormità, talmente sbrilluccicante che non riesci nemmeno a dargli un nome, un volto, una parola. I brani di Capossela, in passato come in questo disco, non sono per tutti e, d’altra parte, non tutti sono fatti per i brani di Capossela; serve impegno per districarsi in questo labirinto senza indicazioni, lo sforzo di chi deve spiegare l’inspiegabile. Impossibile. Forse. Ma cosa lo è, in effetti, per chi è interessato a provare, provare soltanto eh, ad avvicinarsi ad una sorta di verità? Probabilmente niente.
“Tredici canzoni urgenti” è una montagna difficile da scalare, non lo spot del panorama che si trova alla fine del percorso, come è diventata ormai la musica, ma la strada che ti porta a raggiungerlo, a goderne, per respirare quella visione. E la differenza, non c’è niente da fare, si sente; oppure si può ignorare, distraendosi con un reggaeton, nessun problema, “fate vobis”. “Tredici canzoni urgenti” è un’opera d’arte, come tutte quelle proposte da Vinicio Capossela nella sua carriera, per chi nella vita è ossessionato da bellezza e verità, da chi pretende qualcosa in più, per chi non si accontenta, per chi, a costo di arrivare lì dove sente che deve, è disposto a squarciarsi mani, scarpe e cuore. Non una cosa per tutti quindi, ma della quale tutti avremmo un disperato bisogno.
Gigi D’Alessio – “Se te sapesse dicere”: Il dialetto, non solo quello napoletano, spesso viene confuso con un’incapacità, ignorante e cafona, di espressione; ma, perlomeno in musica, è vero l’esatto contrario. Il dialetto, e questa canzone di Gigi D’Alessio ne è la prova, in realtà è il linguaggio dentro il quale ci si rifugia quando sopraffatti dall’entità di ciò che vogliamo dire, quando quello che c’è da dire è troppo per la lingua italiana.
Si inciampa spesso, ma fortunatamente sempre meno, nell’identificare Gigi D’Alessio come il male assoluto della musica italiana, il re del sentimentalismo a buon mercato, quello che piace a chi di musica non capisce nulla; ma la realtà è che la poetica di D’Alessio è talmente accessibile da risultare facilmente adottabile, dedicabile, ed è assurdo pensare a questa caratteristica come un difetto. “Se te sapesse dicere” è una lettera d’amore autentica, la dichiarazione di sconfitta dinanzi all’immensità di ciò che si prova e a noi è piaciuta assai. No, di più, assaje.
Piero Pelù feat. Alborosie – “Musica libera”: Un reggae contro le differenze, anche musicali; tutto corretto considerato che si tratta di un reggae e a cantarlo sono l’ei fu più importante rocker della storia del genere in Italia e il cervello in fuga Alborosie, che del reggae è ormai punto di riferimento in Italia, in Jamaica e in tutto il mondo. Non si tratta di un brano memorabile, bisogna dirlo, ma Piero Pelù con queste sonorità addosso…mica male.
Gazzelle – “Dentro” : In attesa del debutto live in stadio, Gazzelle snocciola metà del prossimo album, un EP composto da sei brani, due già editi e ampiamente apprezzati, altri due sono brani che confermano la maturazione del cantautore romano, la sua capacità di interpretazione, la completezza dell’offerta-canzone, tu ascolti e non ti manca nulla di ciò che cerchi da lui; quella nostalgia, quel sentimentalismo sfrenato e terreno, un’efficacia nella composizione che colpisce come un jab ben assestato, le parole che ti rintronano nella testa perché traduzione precisa di ciò che pensi tu quando ti capitano le cose che capitano a lui e che poi lui canta, costruendo i suoi testi come spirali dentro le quali è bello perdersi, dentro le quali ti senti capito.
Così capita che tu ascolti e pensi: “Cavolo, si, non potevo dirlo meglio”. Ma la parte che ci ha convinti di più sono le altre due canzoni, due featuring d’eccellenza con Thasup e Fulminacci, gioiellini della scena rap/pop/cantautorale italiana, due artisti dall’ispirazione diversa con i quali Gazzelle si interfaccia senza problemi, incastrandoli nella stessa malinconia, utilizzando il lamento generazionale e ipercool di Thasup e l’altissima capacità strutturale, quasi letteraria, di Fulminacci. Due brani davvero entusiasmanti che contribuiscono al percorso di uno dei cantautori di nuova generazione più centrati che abbiamo in Italia e che, perlomeno questa è l’impressione lato nostro, ancora ne ha da dire.
Alex Britti – “Tutti come te” / “Nuda” : Forse il primo vero, autentico, ritorno di Alex Britti a quelle sonorità che lo hanno reso il cantautore che tutti noi conosciamo; quello che unisce in scioltezza l’intellettualismo, la complicatezza, il nerdismo della chitarra blues, alla freschezza e l’elementarità del pop radiofonico. Poi, chiaro, dobbiamo capire se questa formula agrodolce sia di nostro gradimento o meno; si, capirlo, perché l’ultimo disco in cui riconosciamo il Britti pop che ci faceva tanto divertire è “Tre”, quindi l’album di “7000 caffè” e “Lo zingaro felice”, e ridendo e scherzando sono passati vent’anni, dieci da “Baciami (e portami a ballare)”, l’ultimo brano davvero azzeccato. Insomma, tutta roba ascoltata con il moccio al naso, quando, bontà nostra, non eravamo ancora così pretenziosi nei confronti della musica, così anche composizioni con testi piuttosto sempliciotti, servite con la giusta dinamica, ci conquistavano il cuore.
Oggi chiediamo di più e mentiremmo se vi dicessimo che siamo rimasti folgorati da questi due nuovi brani, ma mentiremmo anche se dicessimo che si tratta di brani mal congeniati; in realtà sono divertenti e ne consigliamo sicuramente l’ascolto. Chiaramente parliamo del Britti cantautore, quello musicista è uscito solo l’anno scorso con “Mojo”, che è un disco da spolparsi e godersi come ribs spennellate di salsa barbecue.
MV Killa feat. Geolier – “Me vogl bene” : Autodichiarazione d’amore talmente convincente che, se già non li amassimo tanto entrambi, certamente ci convincerebbero ad amarli; ma proprio che gli lanceremmo addosso intimo, carte di credito, chiavi di casa e primogeniti.
Lovegang126 – “Cristi e diavoli” : La Lovegang126 è un progetto del tutto unico in questo frastagliato e confuso mercato discografico italiano; si guarda la playlist e si leggono così tanti nomi che più che altro sembra un producer album. Tutto sbagliato, si tratta in realtà di concept album, un album che quindi racconta qualcosa, anche quando le voci si fanno numerose. Se il rap è (e lo è davvero) il genere nettamente più ascoltato e con i più alti e solidi margini di innovazione, la Lovegang126 rappresenta un qualcosa di simile ad Antonello Venditti: un amore talmente viscerale per la propria città, Roma naturalmente, da diventare, con quei vicoli di Trastevere ingolfati di romanticismo, protagonista assoluta dell’opera.
La gang, composta da Franco126, Ketama126, Pretty Solero, Asp126, Ugo Borghetti, Drone126 e Nino Brown, propone diciotto tracce (molte già edite) impreziosite da ospiti del calibro di Danno, Gemitaiz, Gianni Bismark, Lil Kvneki, Side Baby e Tiromancino, come se il disco fosse un varco per permettere ad ognuno di dire la propria su una città che vive della propria anima, dei milioni di cuori che pulsano tra strade, carbonare, turisti, cinghiali, battute fulminee e opere di una bellezza extraterrestre. “Cristi e diavoli” è un disco profondamente umano come carica di umanità è Roma.
Tropico – “Chiamami quando la magia finisce” : Davide Petrella, che poi è Tropico, che poi è il vero supervincitore dell’ultima edizione del Festival di Sanremo (suoi i testi di “Due vite” di Mengoni e “Cenere” di Lazza), è un bravissimo autore, ok, ma come cantautore è addirittura straordinario. Dentro i suoi brani ci percepisci la quintessenza della sua napoletanità, un suono antico, quasi lontano, certamente epico, riportato ai giorni nostri con una lucidità devastante; un romanticismo classico, intriso di malinconia, che però allo stesso tempo, nelle sonorità, in questo suo stare dentro e fuori ciò che racconta, risulta quasi confortante, come se il brano fosse causa e soluzione insieme di un male: la magia che finisce, come succede quasi sempre, e i ricordi che ti invadono. C’è da perdersi come dentro un bel film in questo pezzo. Wow.
Studio Murena feat. Ghemon – “Sull’amore e altre oscure questioni” : Il progetto Studio Murena è esaltante; non solo per l’idea di appoggiare le barre del rap sui colori del jazz, che a pensarci bene comunque è una follia, come voler costruire una casa su delle insidiose sabbie mobili ed essere anche felici, ma perché l’idea in sé poi viene tradotta musicalmente al millimetro offrendo un’esperienza realmente unica.
Le parole e la musica non vengono proposte come entità unica, un prodottino ben confezionato, ma il brano sembra voler documentare il momento in cui si abbracciano, si innamorano, rendendo poi noi testimoni sonori di un matrimonio felice tra due entità molto diverse. Una cosa intellettuale, si, ok, vagamente, infatti poi se chiami qualcuno a collaborare ti toccano degli artisti veri come Ghemon, ma del tutto comprensibile, del tutto godibile, del tutto accattivante. Il mondo è un posto più bello con gli Studio Murena.
Lucio Corsi – “La gente che sogna” : Che perla di album, Lucio Corsi ci prende per mano portandoci all’interno di un’apocalisse, fisica o sentimentale poco importa, utilizzando la sua musica come raggio di sole al quale attaccarsi per uscire da questo torpore invasivo, questa drammatica mancanza di poesia che pervade le nostre vite, felici solo a favore di Instagram. Nove brani che si tengono a braccetto, tutti perfetti, la dimostrazione che non è vero che gli album non servono più a niente, che tutta la narrazione che un’artista sente l’urgenza di buttare in musica si può risolvere in un paio di minuti scarsi di brano, e mai di più altrimenti su Spotify skippano e in radio non ti passano. Eh no. Lucio Corsi ci accompagna in una passeggiata in un mondo devastato dove l’unica cosa che sopravvive è l’immaginifico romanticismo, dolce e profondo, di una musica fatta per metterti nei guai, spingendoti forzatamente all’introspezione, costringendoti ad inseguire ogni ramificazione di pensiero, anche quelle che ti conducono a posti oscuri, ma fatta anche per salvarti, per tirarti fuori, in modo tale da rendere ogni tua forma di pensiero e azione consapevole, armonica rispetto a ciò che ti sta intorno. Lucio Corsi è il supereroe che chissà se ci meritiamo.
Sick Tamburo – “Non credere a nessuno” : Quello che i Sick Tamburo offrono è un disco commovente, che ti strappa un pezzo di cuore, malinconico, bisogna dirlo, certe sonorità ti abbattono, certi versi ti devastano, specie quando passano attraverso la voce di Accusani, così fredda e lucida nel manifestare sentimenti così forti che potrebbero rappresentare deviazioni decisive per lui che ha scritto i pezzi come per noi che li ascoltiamo. Tutto giusto, tutto corretto, non è da masochisti tuffarsi nella parte alta della piscina, dove non si tocca, dove non si è al sicuro.
Ecco, “Non credere a nessuno” non è un posto sicuro, tutt’altro, è un disco che ti mette all’angolo e ti bersaglia di pugni, è un disco che ti mette alla prova, anche quando ti fa saltellare (e accade), anche quando ti stritola l’anima (e accade), e, alla fine, ti arricchisce, ti fa sentire più uomo, più forte, come deve sentirsi qualcuno che affronta un mare in tempesta con una piccola barchetta e ne viene fuori sano e salvo. Categoria: imperdibile.
Mecna – “Ciò che splende” : Forse il miglior brano di Mecna di sempre, le sonorità rap vengono addolcite da un suono orchestrale che vola in un ritornello trascinante, coinvolgente. Il pezzo parla della nostra umanità, della luce emanata dalla nostra imperfezione, una dichiarazione d’amore al proprio intento, di mettercela tutta, come uomo che ama e come uomo che, semplicemente, vive. E magari poi alla fine nemmeno ce la fai, ma magari poi alla fine nemmeno importa. Gran bella botta.
Bnkr44 – “Mezzanotte” : Il pop contaminato dal rap è certamente il genere più “furbo” del momento, comunica immediatamente quel senso di coolnes, acchiappa un target più ampio, commercialmente si vende come acqua nel deserto. Certo, la discografia ha decisamente accorciato i tempi, per cui un suono, anche quando nuovo, ci viene propinato con tale abbondante costanza che poi alla fine stufa subito, perlomeno noi.
A meno che non si trovi un modo per illuminarlo, per approfittare delle possibilità stilistiche che offre, che è esattamente quello che sono capaci di fare i Bnkr44, che non si adagiano sul successo scontato di un genere che al momento vede in loro tra i maggiori protagonisti, specie per quanto riguarda la fascia teen, né sulla capacità ti strutturare i brani, che tra l’altro è dote assai sottovalutata, ma sulla volontà di dire qualcosa; per questo ciò che propongono assume un valore per chi ascolta, come in questa “Mezzanotte”, che è un brano ricco di guizzi interessantissimi, che potrebbero anche non esserci, ma se ci sono è perché c’è la voglia di andare oltre. E questo è apprezzabilissimo.
MamboLosco feat. Rondodasosa – “Karma” : Sarà che dinanzi alla potenza del karma ci facciamo tutti docili, spaventati da questa potenza invisibile che, ne siamo convinti, altrimenti ce ne convinciamo, potrebbe spazzare via ogni briciolo di gioia dalle nostre già martoriate esistenze; ma questo è il miglior prodotto offerto fino ad oggi da MamboLosco e Rondodasosa. Di sicuro il pezzo più autentico, in cui i clichè del genere fanno spazio ad una narrazione personale, come se il brano fosse stato scritto rinunciando alla maschera; se poi il tutto viene proposto con il tocco di Nardi e Finesse, chiaro che si decolla. Era ora.
Peppe Soks – “Ammore Malamente” : Non si tratta di un disco perfetto, questo è certo, alcuni passaggi potevano serenamente essere sacrificati, in modo tale da dare più risalto invece alle scelte azzeccate, quelle più legate al concetto di “Ammore Malamente”, questo sentimentalismo alle volte malato, alle volte proprio tossico, che spesso prende il sopravvento impadronendosi della nostra vita. Peppe Soks è un ottimo artista, forse gli potremmo imputare l’essere ancora vagamente sfocato, non centrato, non riconoscibile; però poi quando becca i brani, in questo disco “Mon Frère”, “Tagg’ purtat’ a vere ‘e stelle” o “N.W.A.”, il livello si fa alto. Bene, ma non benissimo, ma bene.
Night Skinny feat. Nerissima Serpe, Artie 5ive, Tony Boy, Papa V, Low Red, Digital Astro e Kid Yugi – “Players Club’23” : Night Skinny, che è un producer di tutto rispetto, per comporre questo minifestival della mediocrità, ha chiamato ben sette rapper diversi, ognuno la sua strofa, non uno capace di mettere insieme due barre di senso compiuto. Alla fine sembra di assistere ad una gara a chi la fa più lontano tra pischelletti diciamo non baciati dall’abbondanza. Unica nota positiva è che di brani così insignificanti ormai ne girano sempre meno, ma anche uno è già troppo.
Samurai Jay – “Fammi capire” : Le pennellate, anche ardite, anche interessanti, che offre il brano, non riescono a mascherarne una pochezza di fondo. “Fammi capire” si fa ascoltare e poi si fa subito dimenticare. Buon lavoro, niente di più, ma serve sicuramente di più.
Carmine Tundo – “La valle dell’Asso” : Non è solo la delicatezza, questa musica proposta con l’autenticità del mestierante consumato, non è nemmeno il coraggio di deviare il proprio cammino contro tutto ciò che va nel mercato di oggi, di preferire la campagna pugliese, piccole grandi meravigliose storie, alle evocazioni delle grandi città, delle quali in passato, comunque, con il magnifico progetto La Municipal, ha già dimostrato di sapersi confrontare. È proprio che le canzoni di Carmine Tundo sono meravigliose, sono ricche di immagini come i quadri antichi, riempiono i silenzi assordanti di questo nulla che ci circonda con una poetica che ti gonfia il petto.
Parliamo, assolutamente, senza alcun dubbio, di uno dei più talentuosi cantautori italiani e il fatto che noi non ci riconosciamo, cittadini metropolitani sconsiderati quali siamo, in una narrazione che vive di sentimenti non ancora contaminati da questo tempo orrendo, dice qualcosa della musica italiana, certo, ma dice qualcosa anche di noi, di quanto non ce ne freghi più, di quanta poca curiosità ci è rimasta per andarci a cercare le cose belle, di quanto alle luci del sole e della luna preferiamo quelle stroboscopiche e asfissianti della tv di flusso e del mainstream più spudorato. Che gran disco Carmine Tundo, andrebbe prescritto dai medici per rendere ogni nostra giornata un po' più poetica.
Bluem – “Piano song” : Brano schizofrenico, genialoide, contemporaneo. Bluem suona i nostri sogni più belli e più assurdi, li trasforma in opere dandogli ogni volta un significato, una posizione nella nostra vita, ogni singola nota suonata arriva come l’acqua sul tetto quando piove, improvvisa e rigenerante. Il pezzo sarebbe dedicato a chi ci fa stare bene, ma è la musica di Bluem una delle cose che ci fa stare meglio.
Stabber feat. Laila Al Habash – “Giove” : La visione musicale moderna di Stabber si unisce alla sfrontata contemporaneità di Laila Al Habash, astro nascente del pop italiano al femminile. A questo fortunato incrocio si viene a creare “Giove”, brano carico della rabbia dei puri, di chi non capisce in che modo le cose possano cambiare, in che modo la nostra condizione, come uomini e donne, possa risultare significativa. Nel bel mezzo di questa baraonda di dubbi, di significativo c’è questo pezzo; quindi, bravi.
Tancredi – “Se mi lasci domani” : Chissà se il periodo peggiore quando una storia d’amore finisce è quello in cui te la prendi con l’altro o quello in cui te la prendi con te stesso, Tancredi in questo brano inquadra più il secondo. Quella dell’ex “Amici di Maria De Filippi” sarà certamente una canzone nella quale molti si riconosceranno, che racconta con una visione onesta e personale una cosa accaduta a talmente tanta gente che suona strano accorgersi che ancora ci si scrivano su delle canzoni, come se “Perdere l’amore” non avesse già detto tutto il dicibile. Evidentemente no, perché Tancredi, rarissima eccezione di artista con contenuti vomitato sul mercato dal reality musicale di Mediaset, questo pezzo lo interpreta proprio bene.
Emidio Clementi e Corrado Nuccini – “Motel Chronicles” : Emidio Clementi dei Massimo Volume e Corrado Nuccini dei Giardini Di Mirò che architettano un tappeto musicale per far sbrilluccicare stralci di “Motel Chronicles”, romanzo di Sam Shepard. Che dire? Nulla. Solo silenzio e attenzione per chi ancora si sacrifica per concederci lampi di arte pura, che non sottostà alle logiche della discografia. Perla rara.
Wayne – “Dirty Love” : Esordio solista dell’ei fu Dark Polo Gang, il più sciagurato progetto che abbia mai fatto notizia nella storia della musica italiana. “Dirty Love” è il brano che non ci aspettavamo, non perché valido, ma proprio perché nessuno, perlomeno nessuno dotato di udito ed un infinitesimale gusto musicale, stava lì in ansia per l’attesa. “Il frutto non cade mai lontano dall’albero” dicevano gli antichi. Ecco, appunto. Un disastro del tutto superfluo. Vi preghiamo, veramente, basta.
GionnyScandal – “Male” : Didascalie elementari su musica che manca totalmente di ispirazione. Non sappiamo davvero a chi brani come “Male” possano risultare utili, nemmeno a chi possano piacere, sappiamo solo che con certa gente non avremmo niente da dirci.
Federica Carta – “Come Marilyn” : Il divertimento del sound uptempo viene purtroppo bilanciato dalla superficialità pop con il quale l’argomento solitudine e relativa intima riflessione viene affrontato. Ti bagna, ti rinfresca, ma non resta nulla.
Matteo Paolillo - Icaro – “Liberatemi” : Il brano dovrebbe raccontare del senso di oppressione del tempo e ci riesce perfettamente: 2 minuti e 22 secondi che sembrano non finire mai. Che noia mortale.
Asteria – “Profumo” : Contemporanea, ma senza strafalcioni tech, intensa, ma senza inutili ghirigori vocali. È questa la musica che ci interessa, quella di carattere, quella che dopo un paio di note dici: “Ehi…”. “Profumo” vibra di quella sensazione olfattiva che ti fa viaggiare in un attimo quando ti rendi conto che il passato non è mai passato, che in qualche modo continua a viverti dentro, nella memoria del tuo corpo, come se nessuna storia fosse davvero mai finita. Affascinante. Bravissima.