AGI - L’uscita di “Rush!”, ultimo disco dei Maneskin, è stata festeggiata dalla band con un matrimonio a quattro organizzato da Spotify a Roma, una vera e propria celebrazione per una giovane band passata in poco tempo dalla strada alla vetta del mondo della musica; in Italia potremmo serenamente parlare di miracolo perché, letteralmente, una cosa del genere non è mai successa.
Bypassando i primi passaggi, quelli ormai noti al pubblico italiano, il clamoroso secondo posto a X Factor, che rende tutto sommato la storia ancora più avvincente (a tratti divertente, pensando al dimenticato Lorenzo Licitra), la vittoria al Festival di Sanremo, anche quella ai tempi affatto scontata, e poi l’Eurovision Song Contest, il trampolino di lancio verso un universo musicale molto più grande, che loro in qualche modo, con questo rock con venature pop (o magari il contrario, difficile e inutile stabilirlo), con quella sfacciata e spregiudicata giovinezza, portata agli estremi sul palco come forma irresistibile di intrattenimento, sono riusciti a conquistare.
E da lì un delirio di successi, premi, sold out, la loro versione di “Beggin'” dei Four Seasons in vetta per settimane alla Global Chart di Spotify, al momento la più importante delle classifiche di settore, anche se il brano era stato pubblicato tre anni prima, subito dopo l’uscita dal talent di Sky, per l’EP “Chosen”; l’apertura ai Rolling Stones, la vittoria agli MTV Video Music Awards, la fresca nomination ai Grammy, la cima del mondo della musica raggiungibile insomma, una scalata epocale con il nostro tricolore sulle spalle.
Un successo del genere è chiaro che sia, anche ragionevolmente, accompagnato anche da una tempestosa nuvola di critiche, come qualsiasi cosa stia al centro della scena e sia talmente definita, perlomeno nei risultati, da risultare divisiva, per cui comfort food per i social, dove nel nome dei pro o contro i Maneskin si scatenano quasi giornalmente delle infinite battaglie.
In questo senso l’uscita di “Rush!” è stata sì anticipata dai singoli “Mammamia”, “Supermodel”, “The Loneliest”, “La fine” e “Gossip” (questa confezionata con il supporto di Tom Morello, chitarrista dei Rage Against the Machine, star assoluta dello showbiz rock 'n' roll a stelle e strisce), tutti strastreammati su tutte le piattaforme, ma anche da una serie di polemiche che forse sarebbe il caso di analizzare con più accuratezza, giusto per ridimensionarne la fenomenologia non solo musicale ma anche social(e).
Nelle ultime ore due sono state le stoccate a Damiano David e soci, la prima dalla prestigiosa rivista statunitense The Atlantic, per la quale Spencer Kornhaber firma un focoso editoriale dal titolo “Questa è la rock band che dovrebbe salvare il Rock and Roll?”, definendo la loro musica mediocre e rimpinguando quella teoria secondo la quale i Maneskin non varrebbero musicalmente in quanto imitazioni di band del passato e arrivando anche a puntare il dito contro quelle performance sul palco che stanno incantando il pubblico di tutto il mondo, definite “flosce” e un “timido tentativo di scioccare e provocare fastidio”.
Posto che la musica crea un rapporto diretto tra chi sta sul palco e chi sotto, tra chi la produce e chi la ascolta, per cui è impossibile incanalare in maniera così quadrata un qualsiasi fenomeno musicale, che abbia questo successo stellare o meno, in quanto la materia trattata, di base, è una sensazione; poi però sarebbe il caso di andare un po' più a fondo nella narrazione, qualora si decida di avventurarsi in una narrazione, cosa che non rappresenta un obbligo per un utente Twitter, ma decisamente si per un professionista della parola.
Per esempio, chi avrebbe dato mandato ai Maneskin, lato pubblico o lato discografia, di salvare il rock 'n' roll? Esattamente quando i nostri David, Ethan, Victoria e Thomas avrebbero dichiarato l’intenzione di intervenire in questo senso? Qualora, naturalmente, si sentisse l’esigenza di salvare un genere musicale, che non è un’entità che appare quando nasce e svanisce quando muore, ma semplicemente una delle innumerevoli varianti artistiche che vivono dell’attenzione del pubblico e il pubblico della musica in questo momento guarda altrove, ad altri beat, ad altri sound, al rap, che mentre i nostalgici appendevano la propria vita al gancio di “London Calling” e “Nevermind”, si è fatto giovane, vigoroso e capace di raccontare la contemporaneità, che sono le caratteristiche ricercate, da sempre, non da quando i Maneskin hanno vinto l’Eurovision Song Contest, dal più largo target del pubblico musicale, ovvero gli adolescenti.
Ecco, appunto, è anche una questione di età, perché l’altra accusa rivolta alla band romana riguarda il presunto scimmiottamento ai grandi della storia del rock. Il Maneskin più adulto è Damiano, 25 anni appena compiuti, gli altri tre non superano i 22, quindi possiamo serenamente definirli ragazzini e sono ragazzini che hanno una evidentemente autentica passione per il rock, quello suonato, quello eccessivo, quello che rompe gli schemi.
Una passione talmente autentica che una delle prime cose che hanno fatto una volta raggiunto il successo con X Factor, non è stato riempirsi il calendario di live, prendere tutto ciò che si poteva e fare cassa di denaro e stream con un paio di hit ben assestate, ma sparire dagli schermi e trasferirsi a Londra per fare una bella scorpacciata di garage music, come hanno raccontato spesso, persi tra piccoli club affumicati ad ascoltare band grandi e piccole, ad imparare, a rubare anche, perché no, a nutrirsi soprattutto, non del rock inteso come linguaggio per sfondare, come più appetibile tra le opzioni per farcela nella giungla discografica, ma inteso come passione.
La stessa che lega molti giovani oggi al rap, ma anche al cinema o al calcio, solo che nessuno si sognerebbe mai di accusare un giovane calciatore di aver emulato in campo Maradona con un dribbling, perché ciò che importa al tifoso, a ben ragione, è l’efficacia del gesto. E come si può mai pensare che una band che raccoglie certi numeri stratosferici sulle piattaforme, che colora di sold out gli Stati Uniti d’America, non sia efficace? Come si può sbolognare la questione con un commento sferzante? Come ci si può fermare un passo prima dell’analisi?
Per dire, ha senso accusare di scarsa originalità dei ragazzi entrati nel mondo della discografia ancora minorenni? A guidare i Maneskin è semplicemente la loro passione verso un suono, un’ispirazione talmente autentica da risultare contagiosa, praticamente epidemica, e che, piano piano, si sta trasformando in stile e contenuti che sono evocativi, si, chiaro, ma del tutto originali, e in “Rush!” chi avrà voglia e tempo e attenzione se ne accorgerà serenamente.
Il caso Ughi
Sulla questione si è scomodato perfino il grande violinista Uto Ughi durante la presentazione del nuovo programma di concerti avvenuta nella Sala delle Lupe del comune di Siena: “I Maneskin sono un insulto alla cultura e all’arte” avrebbe tuonato il maestro, aggiungendo “Ogni genere ha diritto di esistere ma quando si fa musica, non quando si urla e basta”.
Vogliamo credere che Ughi abbia preso i Maneskin come rappresentazione plastica, nonché italiana, del relativo ma indiscutibile decadentismo che ha colpito la musica popolare negli ultimi decenni, perché appare chiaro che i Maneskin non urlino “e basta”, anzi, il periodo delle urla rock è passato da tempo, anzi, oggi i più nostalgici guardano commossi ad un passato in cui si urlava, e con senno, come atto politico; insomma, un urlo non è mai stato semplicemente un urlo nella musica e questo, ne siamo certi, il maestro Ughi lo sa perfettamente.
Come sa perfettamente, immaginiamo essendo entrato a piè pari sull’argomento, che i Maneskin fanno decisamente cultura e arte, basterebbe pensare alla certificata impennata di vendite di strumenti musicali diretta conseguenza del successo della band romana, che comunque si esibisce suonando (anche piuttosto bene, certamente sempre meglio) degli strumenti, in un mondo che ultimamente va avanti a basi, beat, dj che premono play e pochissime note intonate, un mondo cui protagonisti hanno studiato più le conseguenze della musica che la musica.
Forse sarebbe il caso di domandarsi com’è cambiato l’approccio alla cultura e all’arte nel nostro paese, il motivo per cui si tende regolarmente alla semplicità, all’intrattenimento, perché la cultura e l’arte si sono svuotate di contenuti, di impegno civile, perché quella voce, così importante in passato, si sia mutata, ma davvero una band di ragazzi che fa la propria musica e vive il proprio sogno è il problema?
Se l'insulto non sono i Maneskin
Sono loro che rappresentano un insulto alla formazione culturale del pubblico in un paese che dedica sempre meno spazio, meno fondi, meno interesse, alla cultura? I Maneskin potrebbero rappresentarne al limite la conseguenza, ma questo, è bene saperlo e il maestro Ughi lo sa certamente (anche per questo la sua uscita appare esageratamente scoordinata, specie rispetto il proprio status artistico), ce lo potrà dire soltanto la storia. Quale tribunale ha condannato i Maneskin all’originalità a tutti i costi? Appunto, a salvare il rock o a rappresentare un upgrade in termini culturali e artistici?
I Maneskin sono ancora ampiamente ventenni, non parlano alla critica veterana, non parlano al maestro Ughi, non parlano ai nerd malinconici; i Maneskin parlano ai ragazzi, a chi è figlio, forse anche nipote, di quelli che quando il rock era vivo e vegeto, naturalmente quello considerato vero, autentico, sgarbato e politico, non era ancora nemmeno nato, tutti giovani che stanno costruendo un mondo nuovo in cui il passato parrebbe rappresentare solo una zavorra, anche culturale, anche musicale, della quale liberarsi; allora la risposta più corretta è “si”, i Maneskin stanno salvando un genere musicale che rischia di estinguersi proprio perché incapace di raccontarsi, di declinarsi al contemporaneo, e in questo la band romana sta praticamente compiendo un miracolo, è un esempio unico e addirittura auspicabile, qualcosa che è bene che sia successa.
I Maneskin raccontano la propria storia e anche quella di chi spiritualmente li muove, quei grandi del rock, che esistono tutt’oggi, non soggetti alle umane regole della memoria, incapaci di scomparire, immortali, che possono essere facilmente rintracciabili e che quindi non chiedono di essere salvati perché da niente sono minacciati, al massimo di essere riscoperti da chi, anagraficamente, ne è distante anni luce. I grandi del rock, insomma, ai Maneskin devono certamente qualcosa.