AGI - È dal 31 ottobre del 2019 che Marracash semina, ieri forse ha cominciato a raccogliere. Forse, si, perché la raccolta vale un premio, quindi arriva alla fine, e chi può dirlo se e quanto ci stiamo avvicinando alla vetta, se magari ci siamo già e una settimana di sold out al Forum D’Assago, inaugurata proprio ieri, sia il massimo che un artista del calibro di Marracash potrà raggiungere.
Forse, si, ma se volete la nostra personale opinione: no, anzi, siamo solo all’inizio. Tre anni, due dischi, “Persona” e “Noi, loro, gli altri”, uno più bello dell’altro, scegliete voi quale, non c’è una risposta sbagliata; un percorso che concettualmente abbandona i binari del rap puro, quello paradossalmente esploso in maniera definitiva proprio in questo periodo, per accostarsi ad una linea quasi cantautorale, intesa come la pretesa, da se stesso, di dare un valore letterario alla sua produzione.
Un auto riconoscimento, doveroso, certamente reso più sbrilluccicante dalla vittoria di un Premio Tenco come miglior album storico, che apre definitivamente (e finalmente) a prospettive più contemporanee, all’ammissione che ogni epoca stimola una certa poetica, un meccanismo inevitabile, e questa è l’epoca del rap, e il rap non è solo un giochino sguaiato da ragazzini teppistelli che si raccontano sempre più duri di quello che sono; si tratta di celebrazione della parola, della lingua, di una modalità totalmente nuova di narrazione.
Un riconoscimento alla propria storia, al proprio percorso, al disperato e chirurgicamente azzeccato inseguimento della propria essenza di artista adulto, pronto e voglioso di entrare nel dibattito, di raccontare un pezzettino di inferno, di provare ad intrufolarsi con le proprie barre tra le rughe della vita vera, approfittando di un genere, il suo, il rap, del quale è considerato a ben ragione il “King”, che permette di entrare in tackle, di non indorare la pillola, di restare concentrato sulla crudità dei contenuti. Quando i contenuti ci sono, è chiaro, ma questo non è un problema.
Dieci dischi di platino (che valgono quello che valgono, cioè quasi niente in epoca di supporti digitali, ma ci sono), 6 per “Persona” e 4 per “Noi, loro, gli altri”, una storica Targa Tenco, un tour estivo andato benissimo giusto per sgranchirsi un po' e ieri il debutto nei palazzetti, 67mila biglietti venduti solo per le date al Forum, oltre 150mila in totale, questi solo alcuni dei numeri del Marracash attuale, ieri fisiologicamente carichissimo per un tour rimandato ben cinque volte a causa delle restrizioni Covid; un incubo per chi guadagna la cresta dell’onda nel più sfortunato dei momenti storici.
Forse proprio così si spiega la messa in scena, minimal a dispetto dello splendido progetto di set design ideato da Lorenzo De Pascalis: lui da solo sul palco, la band praticamente nascosta, illuminato da 200 corpi e 200 mq di Led, utilizzati con un disegno artistico decisamente concettuale. Insomma, niente è buttato a caso, in caciara luminosa, ma tutto ha un senso logico preciso ed incontestabile.
È Marra contro tutti, la pandemia, la propria storia, il proprio dolore, perfino il gossip, la scena rap, questa esplosione assordante di un genere che quando lui ha cominciato rappresentava più che altro un rifugio per ultimi, la forma d’arte ma soprattutto d’espressione che ci si poteva permettere.
Così “Loro”, terzo brano della scaletta, dopo un classico inizio scintillante, è un brano che solca una differenza sostanziale tra prospettive rispetto alla vita decisamente contrastanti; arrivando perfino a farci supporre, guardando un pubblico visibilmente in delirio, che ancora siamo ad un punto per cui chi sta dall’altra parte della barricata non capisce cosa sta accadendo sotto i loro nasi, perché ancora i media generalisti non hanno capito in che modo raccontare una rivoluzione culturale precisa e avvolgente.
Serve un tuffo, la riformulazione di concetti relativi a specifici generi, non esiste più il rock, non esiste più il punk, non esiste più il jazz, il rap, il pop, non possiamo più attribuire etichette che non richiamino sempre e solo ad un aspetto tecnico della questione; cosa della quale facciamo volentieri a meno considerando che l’operazione è noiosa e piuttosto inutile.
Ne capiamo la comodità, specialmente rispetto ai pregiudizi che semplificano il ragionamento, i punk sono punk, i rapper sono rapper, sappiamo come si vestono e quello che dicono, abbastanza per evitarci lo sforzo di sbirciare dentro ad un Forum D’Assago invaso e conquistato, senza avvalersi dell’aiuto di hit.
Marracash non fa hit, nemmeno quelle che poi lo sono diventate lo sono davvero, ed è stupefacente pensare che una così gran quantità di ragazzi si siano riuniti lì solo per sentire le sue parole, non per ballarsela brillocci, ma per una specie di rito collettivo, per la precisa volontà di specchiarsi nelle parole di un profeta che canta di lui e canta anche di loro, anche se “Crazy Love”, brano eseguito nella prima parte dello show, parla della sua storia con Elodie, ai comuni mortali una cosa del genere è concesso giusto sognarla.
Tant’è che il livello di coinvolgimento man mano che i brani si susseguono (iconica "Gli altri (giorni stupidi)" cantata in vetta ad una montagna virtuale) sale vertiginosamente, non si può fare a meno di stare seduti, fermi, le ritmiche del rap ti prendono, lui sul palco è assuefatto da musica e pubblico, le parole escono dalla bocca come se non riuscisse a trattenerle dentro.
Una serata ricca di ospiti, dal tenore di origine ucraina (chissà, magari non a caso) Vassily Solodkyy, che lo affianca su “Pagliaccio” a Massimo Pericolo che entra su "Noi / T'appartengo".
“Sai, per caso nulla accade” recita il brano dopo, “Nulla accade”, ed è uno dei versi che meglio rappresentano il momento che sta vivendo Marracash; no, ha ragione, a certi livelli per caso non accade nulla, serve sacrificio, lavoro, esercizio, un’apertura mentale tale da spingere lo sguardo ben oltre il proprio naso, abbracciare la propria fumante umanità, spingersi oltre, il più possibile, avere insomma la volontà di crescere come artista, la necessità di significare qualcosa per qualcuno, che le sua parole, la sua visione, prenda vita davanti ai nostri occhi.
Tutto questo accade sul palco, il rapper parla addirittura inserisce nello show anche un dialogo con il proprio terapeuta, quasi volesse avvisare che quello è un luogo preciso di libertà, di spiattellamento, un momento spiazzante, come lo sono quei momenti nei quali una persona, specie estranea, si confessa, con te, congelandoti con la propria onestà.
Su “Neon” entra Elisa, altra guest star della serata, di bianco vestita, come a volersi sventolare dinanzi al miracolo del rap. Anche BLANCO e Madame partecipano alla festa, ma solo in versione “ologrammata”, dal vivo arriva invece Guè per il gran finale dello show.
Sono amici, sono partiti insieme, ma è da qualche anno che le loro strade artistiche si sono separate: Marra ha preteso di declinare il proprio talento per maturare, ha intrapreso un percorso preciso, conscious, significativo, anche prendendosi il rischio di perdere questo treno, questo trono; Guè, nonostante non sia più Pequeno e non lo sia già da tempo, continua a giggioneggiare con il rap da duri di plastica, cosa che lo rende molto più vicino alle classifiche, molto meno a traguardi musicali come il Tenco.
Quando fanno toccare le loro rime chiaro che si vedono le scintille, è chiara l’intesa, è chiaro l’affetto, è chiara l’emozione dinanzi ad un evento che loro sono abbastanza in là con l’età per ricordare nitidamente quando non potevano permettersi nemmeno di sognarlo. Eppure è accaduto ed è stata una bellissima festa.