AGI - A Urbino, la sua città natale, Raphael Gualazzi era solito suonare il pianoforte in un vecchio bar, decorato da soli di porcellana regalati negli anni da turisti e studenti del posto. Le prime settimane il suo pubblico era composto da un amico, la fidanzata di questo e i soliti frequentatori del bar. Nello spazio di un anno, centinaia di persone affollavano la via del Bar del Sole per ascoltarlo suonare e quello fu l’inizio di una lunga e bellissima, carriera, e così oggi Gualazzi, jazzista di fama mondiale, ma anche ormai uno dei più sbrilluccicanti nomi del pop italiano, ha deciso di ritornare, perlomeno concettualmente, al passato con un disco in cui rielabora dieci capolavori del repertorio cantautorale italiano, un disco intitolato proprio “Bar del sole”.
Perché un disco di cover?
Preferisco chiamarle rivisitazioni, oppure commistioni. La parola “cover” mi ricorda mio cugino che diceva negli anni ’90: “Se vuoi venire a suonare Roma devi fare e cover”. Devo dire che questa musica ci è stata di ispirazione ed è stato proprio nutrimento dell’anima fare questo progetto. Nel percorso musicale da interprete, da musicista e da cantante è veramente importante essere ispirati e stimolati da esperienze musicali, proprio come mi è successo quando ho fatto il direttore alla Notte della Taranta o ho suonato alla scala di Milano. In questo periodo sto lavorando ad un album di inediti e anche ad un sacco di collaborazioni, ma questo album e l’incursione dentro un repertorio del genere mi ha permesso veramente di acquisire un sacco di stimoli e di sensazioni nuove rispetto la musica. Soprattutto per il fatto che mi ha rimesso in contatto con le mie origini e con la mia infanzia, era un repertorio che ascoltavo da bambino prima di cominciare ad ascoltare la musica africana, americana…prima di ascoltare quella roba lì. Da bambino ascoltavo cantautori italiani, eravamo negli degli anni ’80 e con i miei genitori ascoltavo Pierangelo Bertoli, Antonello Venditti , Cocciante e così via e quindi ascoltavo questa musica ed era molto bello.
Come hai scelto le canzoni per questo disco? Hanno influito i ricordi, volevi omaggiare determinati autori…?
In realtà questa scelta è stata fatta insieme con un team, ovviamente con il produttore artistico Vittorio Cosma e insieme al team editoriale e di produzione di Sugar; si sentiva l’esigenza di creare un progetto che descrivesse un pochino una via di uscita da questo periodo di Covid, dall’emergenza sanitaria e dalle emergenze politiche e ambientali. Insomma, in un momento di grande confusione e caos, la musica accompagna, come avrebbe detto Freud: “una sublimazione degli stati emotivi sociali”, quindi ho cercato proprio la sublimazione, la leggerezza, nel concetto del Bar del Sole, che è un luogo dell’anima ancor prima di essere il luogo reale ed essere il bar del cuore di chiunque nasce in un paese e ascolta buona musica. Quindi questo repertorio è stato scelto soprattutto in base ai testi e come i testi sono importanti rispetto a questo concetto. Poi sicuramente ci sono anche degli aspetti emotivi, anche personali, legati alla mia infanzia, oltre che la grande stima.
Come nel caso di “Pigro” di Ivan Graziani, no?
Ivan Graziani era amico di mio padre, che negli anni ‘60 ha collaborato con lui come batterista. Sono rimasto amico con lui, ho la stessa età di Filippo Graziani, che è il secondo figlio, ed avevo questa canzone che era la mia preferita quando ero piccolo che era “Pigro”.
Ci sono anche dei brani che sono rimasti fuori da questa selezione?
Si, è stata una selezione importante, molto curata, con dei ripensamenti, e poi le cose nascono anche quando le stai facendo. Ti rendi conto che una cosa che avevi preso in considerazione prende una forma inaspettata e non sta venendo bene. Non è mai completamente prevedibile quello che succede nella musica, per fortuna. Però devo dire che sono molto contento, ci vorrebbero più capitoli.
Al pubblico piacerebbe sicuramente…
È decisamente un’idea allettante, dall'altra parte però ho anche tanta voglia di riproporre musica composta da me, senza nulla togliere a questo progetto che adoro. Devo tanto a questo progetto in termini di ispirazione.
Visto l’approccio evidente di rivisitazione che hai avuto rispetto a questi brani, ce n’è uno di questi che ti ha sorpreso, che non pensavi potesse venire così bene rifatto da te, che hai un’identità artistica molto forte ed è chiaro che ci metti la tua impronta?
Devo dire che è difficile sceglierne uno in particolare a cui sono più affezionato, proprio perché si è scelto di creare degli arrangiamenti molto coerenti ma diversi tra loro. Forse quello che spicca di più come originalità è “Amore caro amore bello”, proprio perché è stata questa scelta super trasversale, Vittorio ha inserito questo organo elettronico con i suoi arpeggiatori, con una sua ritmica anni ’80 che conferisce essenzialità e minimalismo al brano, a differenza dell’originale molto arrangiato, maestoso e molto emotivo. Ma mi ha sorpreso lui (Vittorio) in quella maniera perchè ha dimostrato che si possono toccare degli angoli dell’emotività attraverso la musica anche proprio nella riduzione, nel rendere essenziale, nel levare degli elementi, e sceglierne pochi ed evidenziando la qualità di quello che si propone, riportando la melodia al suo sentore autentico. È interessante l’arrangiamento che ha fatto, ti arriva subito questo brano qua; sempre ammirando la bellezza dell’originale che rimarrà sempre il migliore brano.
Quando ho letto la track list mi sono detto: ha scelto tutti brani definitivi, cioè brani che toccano un punto oltre il quale non si può andare, che è una caratteristica che sentiamo sempre meno nella musica italiana.
Io credo che i brani anzitutto sono stati al loro tempo dei grandi e immensi successi. Ma quando penso a “Centro di gravità permanente”, “Il mondo” hanno melodie infinite, le accosto a “Volare” o “Con te partirò”. Quelle melodie lì fanno parte della cultura italiana, sono la bellezza con cui abbiamo contaminato altri generi musicali del mondo. La parte melodica è importante nella storia musicale. Non si sarebbe potuto affrontare un disco del genere con un tipo di produzione sbrigativa o economica, perché certi capolavori vanno trattati con rispetto e anche gli editori, la gente che ne è in possesso da tanti punti di vista, sa bene di che si sta parlando. La musica va rispettata e celebrata.
Questo disco interviene in qualche modo nel tuo rapporto con la musica?
La musica è come un partner, tu pensi di averlo scelto, ma in realtà sei tu che sei stato scelto; la musica in assoluto ti sceglie e sceglie dove incontrarti e tu devi lasciarle lo spazio perché questo avvenga e per fare queste cose ci vuole disponibilità, tempo e impegno.
Non ci sono brani stranieri né brani particolarmente contemporanei nel disco…
In realtà ci siamo concentrati in un periodo storico preciso, gli anni ‘60/’70/’80, dove il cantautorato si è espresso al suo massimo. Io quello che ricercavo era un contatto con le mie origini, io da quando avevo 9 anni fino ad adesso ho sempre ascoltato e suonato prevalentemente in inglese, ma non perché non riconoscessi la bellezza della musica italiana, ma proprio perché sono stato ispirato da un mondo diverso. Avevo proprio la necessità di ricollegarmi con me stesso, con quello che fa parte di un’infanzia che si dimentica, che si rimuove da un certo punto di vista, e ho usato queto periodo cantautorale che mi ricollegava all’infanzia proprio per fare questo. Per questo non ho fatto scelte di rivisitazione rispetto a brani più recenti.
Hai parlato di un nuovo lavoro di inediti, io ricordo benissimo di “Ho un piano”, mi ricordo nitida la tua volontà di aprirti anche dal punto di vista produttivo. Hai in mente di fare ancora un passo oltre e magari confrontarti anche con sonorità più urban con dei featuring veri e propri?
Io non escludo nessun tipo di contaminazione perché, ammetto, proprio come sto facendo con diverse collaborazioni, con diversi produttori e autori, diventa sempre più interessante questo gioco musicale sulla lingua italiana e sulla musica. Per il momento rimango molto aperto alle contaminazioni, poi ci sarà una fase di selezione e di ragionamento rispetto alla direzione giusta che si vuole dare al progetto, al momento siamo in una fase diciamo “quantitativa” e di libertà, di creazione senza nessun tipo di concetto o senza posizionamento, deve esserci anche il momento di libero arbitrio; poi dopo, pian pianino, si capisce bene dove ti sta portando il flow della creazione. Non escludo niente, perché secondo me ci sono anche un sacco di persone del genere rap che sicuramente hanno delle cose da dire, delle verità da raccontare e siamo in un momento storico in cui non solo i giovani, che ormai sono il presente, ma in generale questo mondo non vuole più sentire cose patinate, le favole. Magari qualcuna si, ma vuole sentire anche la verità, che si affrontino dei problemi reali della vita, delle cose che fanno parte della nostra realtà. È giusto dare il nostro punto di vista, dare il nostro contributo nella riflessione su alcune tematiche sociali, o ambientali o di qualsiasi natura, il tutto attraverso l’arte. L’arte racconta la verità, poi qualcuno la fa in forma più autoironica, come posso essere io, qualcuno la fa in maniera più monumentale e seriosa. Io mi diverto molto a fare il mio mestiere e spero di portare sempre la musica davanti a tutto, perché è la cosa che mi interessa di più.
Il settore della musica negli ultimi due anni è stato certamente messo a dura prova, probabilmente è stato il settore più colpito dalle restrizioni dovute alla pandemia, ma ha anche permesso ai lavoratori dello spettacolo di capire qual è il rapporto che li lega alle istituzioni, tu in questo senso c’hai pensato?
Ho una mia filosofia rispetto a queste cose. Prima di tutto bisogna guardare la storia, perché è importante. Quando Mozart suonava in teatro non esisteva quella concezione wagneriana del momento: il golfo mistico, le luci spente a fine atto, no, le luci erano accese, la gente mangiava nel teatro, rideva, applaudiva quando voleva, era un momento ricreativo, la gente si godeva la musica. Poi arriva Beethoven, che diceva “Io vengo a suonare a casa di voi nobili, però se io non ho l’attenzione e il silenzio io non suono”, è stato il primo a chiedere il rispetto per talento e musica. Poi Wagner ha proprio idealizzato l’opera con luci spente, applausi a fine atto, il golfo mistico per farci star dentro l’orchestra… così che niente fosse inquinato alla vista dei musicisti che suonavano. Aldilà di questo, credo che il ruolo dei musicisti, ma soprattutto di tutti quelli che lavorano intorno alla musica e che la rendono possibile, da quello che guida in bilico nella neve di inverno per raggiungere dei paesini e portare tutta la produzione in un teatrino, fino a quello che parte e sta sotto il sole d’estate con 45 gradi in Salento a montare palchi, questi tipi di mestiere intorno alla musica, che rendono possibile tutta quella bellezza, vanno tutelati e protetti. Io, per quanto potevo, li ho sostenuti perchè credo che sia importante tutelare i lavoratori intorno allo spettacolo, perché se non ci sono loro non c’è lo spettacolo. C’è una verità rispetto al ruolo nell’intrattenimento, ma noi non siamo una scimmietta, siamo delle persone con una dignità, ed è un lavoro molto bello e ci sono tante soddisfazioni, ma anche tante fatiche come in tanti altri lavori.