AGI - I Post Nebbia sono certamente tra le più interessanti realtà del nuovo panorama indie italiano, un panorama ben più complesso di quello che ha rivoluzionato il nostro pop salvo poi implodere un quarto d’ora dopo, fagocitato dal mainstream e da una crescita forse troppo veloce. È questo l’universo dentro il quale si muovono i Post Nebbia, un universo musicale quasi in rovina, dove, perlomeno sulla carta, non c’è posto per chi affronta la musica con un approccio così serio e impegnato; ma loro ci sono, resistono e ci verrebbe quasi da mandare un mazzo di fiori.
Perché “Entropia Padrepio” è uno di quei dischi pregni di un’epica antica, un disco come non se ne fanno più, in cui la new wave si accosta ad elementi di elettronica contemporanea. Un discone dalle idee chiare, lucide, eseguito con un tocco, ma soprattutto un amore, artigianale, evidentemente non finalizzato alla classifica, agli stream, ai like, ma, perlomeno così suona, esclusivamente alla necessità di mettere in piedi un’idea di musica che non fa sconti né prigionieri, che ti inchioda a sonorità cupe e confortevoli, rimandandoci a quel retrogusto dei grandi album indie italiani degli anni ’90, a quel sottosuolo serioso che smarcandosi dalle dinamiche delle tv e delle radio commerciali, faceva quasi la guerra a quei prodotti semplici e videogenici che hanno occupato l’attenzione popolare di quegli anni.
Ora che la situazione, con dinamiche diverse, sembra ripetersi, i Post Nebbia tirano fuori un disco complesso, impegnato, intellettuale e meraviglioso, regalando una speranza a chiunque non voglia affogare in un mare di intrattenimento mordi e fuggi, ascolta e skippa; un gran bel disco in cui la band punta a riunire all’ombra degli stessi accordi l’etereo e il materiale, ciò che abbiamo sopra la nostra testa con quello che abbiamo sotto i nostri piedi. Noi insomma. Il disco infatti potrebbe, straordinariamente, portarvi a scoprire qualcosa di più sui meccanismi che regolano il nostro animismo, seppur spicciolo, così umano, così imperfetto eppure così fondamentale.
Con i Post Nebbia vi state rendendo protagonisti di una serie di atti discograficamente eroici, il primo è proporsi come band, che è una cosa purtroppo quasi anacronistica. Voi come la vivete questa dimensione di gruppo?
"Nel mercato estero la band come forma si sta abbastanza riprendendo, nella nostra realtà compositiva sono più o meno io che faccio tutto, ma il fatto di presentarsi come band ci identifica in un determinato tipo di attitudine e di urgenza espressiva".
Cosa dà in più al tuo lavoro la band?
"Mi dà sicuramente una mano a capire come suonare i pezzi, cosa che da solo non riuscirei e che sembra scontata ma non lo è; mi da un certo modo di vivere la realtà di un concerto, mi da degli amici sicuramente, e non dei turnisti che chiamo per svolgere un servizio. È un altro tipo di esperienza".
Il secondo atto eroico dei Post Nebbia è l’intento, scegliere sonorità e tematiche particolarmente impegnate… cosa che vi verrà naturale ma è comunque una scelta.
"L’impressione che ho è che in Italia, rispetto ad altri posti, si faccia molta più fatica a prendersi sul serio come artisti, non so per quale ragione, ma la sensazione che ho sempre avuto è sempre stata un po' questa. C’è sempre molta paura di essere tracotanti nel voler parlare di temi di quel tipo, è anche vero allo stesso tempo che è un periodo storico in cui parlare di dimensioni enormi, avere questo piglio etico, non è né facile da fare in un modo figo. Io la realizzazione di questo disco me la sono vissuta abbastanza male, una volta tornavo a casa e pensavo “ma che figata”, altre volte pensavo che stavo facendo una cosa tamarrissima; quindi mi ci sono volute le persone che avevo accanto in quel momento. In primis Fight Pausa che mi ha aiutato a produrre il disco, mettere un attimo da parte questi dubbi e rendere più serio possibile quello che stavo facendo. Se lo avessi prodotto da solo senza di lui la voce sarebbe stata più effettata, sarebbe stato tutto più robotico, più ironico, più distaccato…invece questo disco doveva esserci dentro fino al collo in determinati voli di “tamarrezza”, quindi sono molto contento di aver preso questa scelta".
Voi siete una delle pochissime realtà in ascesa in un mercato in cui si fa sempre più complesso emergere… qual è il segreto?
"Abbiamo sicuramente delle persone che lavorano dietro di noi in un’ottica organica, di crescita, senza forzare la mano, credo che il punto sia quello. Sento di aver capito che ultimamente si punta a prendere un progetto e spremere i soldi da quel progetto fin da subito e questa cosa taglia le gambe a molti. Allo stesso tempo molti progetti oggi non hanno una pretesa culturale, in un senso anche molto ampio del termine, tanti progetti escono per accodarsi a determinate tendenze, magari anche in modo molto figo e stiloso, però senza che ci sia una necessità, un’urgenza espressiva. Tu metti insieme queste due cose e vedi che la scena sulla carta oggi sta andando da paura, Spotify fa un casino di ascolti, gli artisti vanno primi in Spotify Global, però poi si fatica a trovare qualcuno che sia davvero in grado di appassionare le persone, che è la cosa alla quale bisognerebbe puntare, o perlomeno quella alla quale puntiamo noi. Noi stiamo facendo le nostre cose, ci vorrà ancora tanto tempo, ma le cose belle si cucinano a fuoco lento, noi crediamo molto in questa cosa e stiamo cercando di non forzare la mano, di non strafare mai e facciamo le cose perché ci crediamo e quella è la cosa principale. Poi c’è stato il Covid, abbiamo avuto fortuna a fare i primi live prima che scoppiasse la pandemia, in modo tale da formarci un minimo di esperienza, in modo tale da continuare a crescere quando si è tornati ai live. Se ci pensi, oggi un progetto nuovo e giovane non ha dei posti in cui suonare, il circuito dei club è stato quasi raso al suolo, ora bisogna ricostruire le macerie, quindi chi non ha fatto in tempo a suonare all’Ohibò, chi non ha fatto in tempo a fare certe cose, adesso quelle cose non ci saranno ancora per un po', quindi è complicato".
La vostra tempistica ad oggi è esatta, effettivamente rispetto alla questione covid siete stati fortunati, vi è dispiaciuto invece esservi persi quegli anni d’oro (pochi) dell’esplosione dell’indie?
"Non lo so, è molto strano. Io sento che in realtà, paradossalmente, con tutte le catastrofi che sono accadute nel mondo della musica negli ultimi due anni, in un modo o nell’altro ci è andata molto bene. L’anno scorso non sono usciti i dischi dei big, non ci sono stati i tour dei big, gli spazi che abbiamo avuto quindi erano di molto sproporzionati rispetto alla nostra effettiva rilevanza, e questo sicuramente ci ha dato una mano. Allo stesso tempo è un tempo molto strano e incomprensibile in cui nessuno ci capisce niente di cosa succede, di come si fanno le cose, di come si vendono i biglietti…quindi è tutto molto disorientante e quello che facciamo noi oggi è una sfida per la conformazione del mercato. Se andavi a vedere un festival nel 2012-2014 ti beccavi i Verdena, i Teatri degli Orrori, ti beccavi della roba che ti spettinava, che ti lasciava un minimo di qualcosa al quale pensare quando tornavi a casa, oggi proporre quella cosa è vagamente fuori luogo, i festival sono molto più generalisti ed è morta un po' un’identità sotto tantissimi punti di vista. Basta guardare al pubblico del Primo Maggio, una volta era di un certo tipo, oggi è un pubblico generalista, con questo non voglio dire che non ci sta, che prima era meglio e oggi è peggio, ma adesso è particolare, credo che l’assenza di una dimensione concreta abbia fatto sì che il generalismo, questa cultura del tutti dentro, abbia un po' preso il sopravvento e allo stesso modo sento che le persone hanno voglia di qualcosa che il mercato da solo, così come è fatto, non gli sta dando e speriamo di riuscire ad intercettare questa voglia, cercando di fare cose che hanno un valore che vada oltre il mercato, gli ascoltatori mensili e quelle robe là. Però si, io in realtà mi sento abbastanza a casa in questo periodo storico, non riuscirei ad immaginare il nostro progetto in nessun altro momento, il vantaggio che abbiamo oggi è che siamo liberi, siamo un po' meno vincolati ai dogmi della composizione, possiamo fare i nostri minestroni…mi sto sentendo abbastanza ok, poi vediamo come va".
Se dovessi presentare i Post Nebbia ad una persona che non li conosce con un solo brano, quale sceglieresti?
Probabilmente sceglierei “Televendite di quadri” principalmente perché è andato meglio (e ride), diciamo che mi affido all’evidenza della hit. In realtà sono molto contento di quel pezzo, quando riesci a condensare la complessità in una pillola che ti entra in testa, quello è soddisfacente e credo che sarebbe una buona introduzione ai nostri lavori e sono contento che sia quasi sempre il pezzo che la gente ascolta per primo.
Avete già collezionato molte collaborazioni…
"Si ho fatto un po' di produzioni in giro. Divertente. Sono andate bene, mi hanno aiutato a prendere le misure con tante cose, sono molto contento di quelle che abbiamo fatto…ho prodotto un pezzo di Frah Quintale, ho fatto un feat. con Nico LaOnda, ho fatto un pezzo con Luca Bais e quest’ultimo con MYSS KETA; sono cose tutte diverse tra di loro ma tutte divertenti. Soprattutto con la MYSS, io la stimo molto, credo che nel mainstream italiano sia una di quelle che fanno più ricerca; non è musica universalmente figa, però “Caplock” è un disco veramente stiloso, ci sono cose che non si vedono nel mainstream italiano e lei è una delle persone di quel giro lì che ha più cultura, più polso, più intelligenza, più gusto, è una che ha una visione e molti non ce l’hanno in quel giro lì".
Com’è stato l’approccio con la discografia?
"È stato molto graduale in realtà, abbiamo avuto questa grande fortuna di avere persone che hanno lavorato con noi in modo organico, l’approccio con la discografia ce l’abbiamo avuto parallelamente a loro, in maniera gentile. Dischi Sotterranei è una realtà piccola che ha fatto il suo mini ingresso nella musica italiana più cool e mainstream tramite noi, abbiamo avuto proposte da altri ma abbiamo deciso di restare lì, andare in realtà supergiganti, dove ci sono artisti più grossi che mandano avanti tutto è sempre un’operazione rischiosa, se nessuno ti avvisa è un errore che fanno in molti. Noi stiamo benissimo dove stiamo e alla fine siamo rimasti dov’eravamo anche con questo disco, ho la sensazione di vivere in un guscio protetto rispetto a tanta altra gente e spero che questa cosa duri".
Qual è il sogno?
"Il sogno sarebbe esportarci, riuscire ad andare fuori, riuscire a farcela in una realtà che riesce ad esistere e non dipende da tante dinamiche che portano i progetti a diventare un po' più mediocri. Sento che in Italia c’è un imbuto, un vortice, che ti trascina dentro una cosa, io vorrei fare con i Post Nebbia qualcosa che sia il più possibile immune e riuscire ad entrare in un altro giro, un po' più internazionale, mi piacerebbe andare in tour fuori. Però si, ci vuole molto tempo, è un casino, non è impossibile ma è molto complicato".