AGI - Il rapper napoletano torna sul mercato con “Black Pulcinella”, un album in cui mescola abilmente la sua comedy rap alla narrazione puramente street, ospitando alcune dei più interessanti ragazzi della fortissima scena urban partenopea. “Per me è inammissibile che il miglior cantante sia quello che funziona meglio su TikTok – dice all’AGI - che è una cavolata; il miglior cantante è quello che per venti concerti non perde mai la voce. Che te ne fai di TikTok o delle pistole? Io c’ho paura se vedo una pistola, però se faccio il rap ti uccido”.
“Black Pulcinella” è forse il miglior disco di Clementino, certamente il più maturo, il più autentico, in cui la sua comedy rap si mescola alla narrazione street, il tutto messo insieme grazie ad un senso della costruzione delle barre, una tecnica in pratica, che in pochi in Italia maneggiano con tale disinvoltura.
Clementino, che è di fatto un Pulcinella “black”, e quel “black” possiamo intenderlo come umorismo, ma anche come riferimento all’hip hop anni ’90, che “black” lo era di sicuro, si trascina con sé alcuni dei più interessanti ragazzi della scena urban partenopea e, senza prendersi mai troppo sul serio, vomita fuori anche la propria nostalgia, senza bisogno di utilizzare le proprie canzoni per dire al mondo che ce l’ha fatta, perché è Clementino e tutti sappiamo che ce l’ha fatta.
Hai dichiarato che in questo nuovo album ti sei sentito particolarmente libero, in cosa?
Io sono sempre stato un B-boy, mi è sempre piaciuto far parte della cultura hip hop, sono arrivato a 40 anni e questa cosa mi mancava in modo in credibile. Io ero quello che partiva con l’aereo per andare a Praga all’Hip hop Camp, ho sempre collezionato vinili di tutti i rapper americani, sono un’enciclopedia. Quando ho pensato di fare un nuovo album ho detto “A quel paese tutte le regole, voglio farlo come mi piace, come Dio comanda” e ci ho messo tutta roba hip hop pesante. Perché al giorno d’oggi, se c’è una cosa difficile da trovare, è un disco veramente rap; ho ascoltato un sacco di roba che è molto bella, ma si allontana molto dal rap come lo intendo io.
Ascoltando il disco ci si rende conto che ha dei tratti molto cupi, sorprendente data l’immagine così vitale e simpatica che abbiamo di te e della tua “comedy rap”…
Io penso che un disco deve essere fatto col cuore, ti deve dare qualcosa, se non ti stimola dei sentimenti non serve a niente. Ho deciso di mettere in mezzo proprio il tragicomico, Joker, in questo caso Pulcinella, perché il tragicomico è l’arte della commedia napoletana e la stessa cosa ho voluto fare io, la tragedia dei pezzi seri, che parlano di droga, alcool, disagio, e il comico della commedia come in “ATM”, “Sound Of Napoli” o “MKCNF8”; mi è piaciuto mettere insieme queste due cose.
Io ho molto apprezzato il fatto che nel disco affronti le tematiche del rap attuale, quindi la rivalsa, l’avercela fatta etc…etc…, ma senza rinunciare all’apparato tecnico nella costruzione delle barre, anche questo lo possiamo considerare un omaggio al rap anni ’90?
Guarda, io sono proprio MC, l’MC in carne ed ossa. MC vuol dire maestro di cerimonia, io mi chiamo Maccaro Clemente, ho l’MC proprio nelle iniziali. Per me la canzone rap come Dio comanda deve essere fatta con il contenuto, con il messaggio e con il flow, perché comunque il flow è importante e non si impara da un giorno all’altro. Le frasi che colpiscono, soprattutto nell’ultimo periodo, le prendono su Instagram, vai su motivazione.it, leggi una frase, la copi e la metti in un testo; e magari passi pure per grande poeta. Per me il 50% di una canzone è il flow, perché è sempre come le dici le cose a fare la differenza, il flow ti rende originale e l’originalità è importante, perché sono tutti quanti uguali ormai. Avere originalità è importante, il mio flow mi fa essere qualcosa di unico, ma io tento di evolvermi, non voglio diventare la copia della copia. Però poi devi essere bravo ad usarlo questo flow, i giochi di parole, scambiare le metriche, cambiare il registro, cambiare voce, per me è importante, ci sono arrivato dopo 12 album alla perfezione e ancora forse non ci sono, perché nessuno è perfetto, come diceva Pino Daniele.
In “Revenge”, in featuring con Enzo Dong, ti concentri un po' sull’epica della strada, ma tu quanto credi sia essenziale la street credibility nel fare rap oggi?
È importantissima. Diventare leggenda negli anni è importante per tutti. Io ho visto gente diventare famosa da un mese all’altro, ma poi nei circuiti rap non se li calcolava nessuno; io invece, non vendo milioni di dischi come possono vendere alcuni, ma una volta sono andato a Roma, a San Lorenzo, al “360°”, che era un localino dove io facevo le gare di freestyle da ragazzino, sono entrato, c’erano cinquanta persone e mi hanno fatto l’applauso. Ricordo che erano tutti con lo zaino e il cappellino al contrario, io ho rivisto me da piccolo e quando mi hanno fatto l’applauso ho percepito il rispetto, questa è la street credibility, per me è importante, perché capita a tanti di vendere per un anno, diventare grossi per poi morire l’anno dopo, invece è difficile rimanere per vent’anni.
In “Emirates” invece affronti con Rocco Hunt il dramma di dover lasciare il sud per farcela…tra di voi c’è un rapporto particolare, no?
Con Rocchino è nato tutto naturalmente, noi facciamo cose insieme da una vita. L’ultima volta sono entrato in studio e gli ho detto: “Dobbiamo fare una cosa tipo Capocannonieri, tipo O' mar 'e o' sole, quella roba che facevamo prima”. Perché l’ultima collaborazione che abbiamo fatto io e Rocco risale al suo album “Libertà”, la canzone si intitolava “Maledetto sud” e aveva base acustica, sicuramente poco rap. A ‘sto giro abbiamo deciso di ritornare su un suono più rap, per rispettare il sound del mio disco, e devo dire che lui ha scritto questo ritornello fantastico. Ma la parte bella arriva nella terza strofa, perché facciamo un botta e risposta che non vedo l’ora di fare sul palco, in pratica ci siamo divisi le barre. Io e Rocco siamo una coppia rap come Marra e Gue, Gemitaiz e MadMan, Salmo e Nitro…ci hanno sempre affiancati ed è una cosa molto bella. Ricordo quando Rocco fece questa gara di freestyle ed io ero in giuria e lo feci vincere perché era fortissimo; e quando la gente ci vide insieme impazzì, perché vide uno ragazzino con gli occhiali, di Salerno, basso, e uno spilungone, col cappello al contrario, di Napoli; insieme questa coppia ha sempre funzionato, abbiamo fatto tanto che è andato alla grande.
In che modo in una lunga carriera cambia il rapporto con il rap?
Il rap è nel sangue, ce l’ho dentro, penso di essere l’unico rapper che mentre è in tv e sta facendo The Voice con Orietta Berti e Loredana Bertè, prende il microfono e inizia a fare freestyle in dialetto; follia pura e la gente impazzisce e questo è l’hip hop. Il rap è certamente buona parte della mia vita, se io adesso sono in tv, se adesso sono al cinema, è grazie al rap, fatto con le rime in dialetto. Io sono devoto alla nobile arte del rap.
Il dialetto napoletano tra l’altro è un linguaggio particolarmente adatto al rap, molto più dell’italiano…
In napoletano le rime sono tutte con parole tronche, non finisce nulla in vocale, per questo fa si che il nostro slang sia come quello di Brooklyn. New York e Napoli sono sul 41esimo parallelo, anche se io appartengo più al lato California, il mio modo di fare rap è più West Coast, è più Snoop Dogg, più Kendrick, Dr. Dre…anche per quanto riguarda le basi, quelle della West Coast sono in levare ed io in quella roba lì ci sguazzo. Il rap a mare piace a me, in fondo Napoli è la West Coast italiana.
Come trovi questa nuova generazione di rapper, molti dei quali hai coinvolto nel disco?
Io non sono più Clementino, sono zio Clemente, perché tutti i featuring dell’album sono tutti più giovani di me, sono il più grande di età tra tutte le collaborazioni e sono contento, perché c’è una scena nuova che spacca. Nessuno di loro, e ti parlo non solo dei napoletani, ha fatto una strofa tipo compitino, si sono tutti impegnati e hanno fatto tutti delle mega strofe, per questo il disco funziona, sono state belle le strofe degli ospiti, le strofe mie e le produzioni. È andato tutto bene. L’unica cosa che manca in questo album è un featuring americano, sarebbe stata la ciliegina, ma purtroppo non siamo arrivati dove volevamo quindi non c’è stata occasione, ma fa niente, vorrà dire che dovevano andare così le cose e sono contento.
Tu hai attraversato quasi tutte le fasi del rap italiano, da quando era un genere di nicchia ad oggi che è puro pop, come lo hai vissuto questo cambiamento? E secondo te cosa ha portato di buono ma anche di cattivo?
Di buono ha portato che comunque è una cultura che ora si espande, fino a poco tempo fa il rap il pubblico non sapeva nemmeno dove stava di casa, adesso invece ha spopolato e questa è una cosa buona. La seconda cosa buona è la tecnologia, che ha portato a Spotify, alle piattaforme dove tu puoi far volare la tua musica, una volta dovevamo fare la cassetta e mandarla a Milano sperando arrivasse. La cosa negativa è che ha permesso di far rap a tutti e questa non è una cosa molto buona, perché su dieci rapper, tre si salvano e vanno avanti, gli altri sette rimangono lì dove sono. Io negli anni ho visto passare la scena rap/pop, la scena rap normale, la scena rap/reggaeton, la scena/dubstep, la scena rap/trap, ora siamo nel periodo della scena rap/drill…alla fine chi è forte rimane, chi non è forte è inutile nascondersi dietro al macchinone e al braccialetto d’oro. Sai perché fanno vedere il macchinone e si vantano dei like? Perché non sanno rappare. Se io non so rappare, ti faccio vedere questa roba qua, provo a gettarti fumo negli occhi, se io so rappare non ho bisogno di far vedere niente. Secondo me la chiave dev’essere la musica, per me è inammissibile che il miglior cantante sia quello che funziona meglio su TikTok, che è una cavolata; il miglior cantante è quello che per venti concerti non perde mai la voce. Che te ne fai di Tik Tok o delle pistole? Io c’ho paura se vedo una pistola, però se faccio il rap ti uccido.
Hai notato che questo cambiamento ha portato anche ad una crisi delle tematiche?
Certo, per questo vanno di nuovo forte i pionieri, i veterani, perché sono usciti un sacco di album sempre con la stessa tematica, sempre con le stesse cose, sempre con gli stessi termini. Noys Narcos, Clementino, Salmo, Marracash, Fabri Fibra, Guè, per questo stanno tornando ad avere una mega esplosione, perché la gente lo vede e lo sente e chi è veterano non ripeterà mai la stessa rima.
In questi due anni durante i quali la musica, più di tutti gli altri settori della nostra società, è stata colpita dalle restrizioni dovute alla pandemia, ti sei fatto qualche domanda sulla considerazione che le istituzioni hanno di te come lavoratore dello spettacolo?
C’è stata una mancanza di rispetto sia per gli artisti che per le maestranze, io capisco che l’artista può stare un anno senza suonare, perché l’artista è quello che vende, conserva i soldi e può restare. Ma chi fa l’elettricista, il truccatore, il parrucchiere, il fonico, scenografia…le maestranze sono importanti, c’è gente che ha dovuto chiudere l’attività e questa è una cosa inammissibile. Per me dovevano intervenire i più grossi, in Italia inutile fare intervenire Clementino, in Italia deve intervenire Vasco Rossi, deve intervenire Jovanotti, deve intervenire Laura Pausini, Ramazzotti, Bocelli, Zucchero, i top, top, top player, che hanno proprio i numeri di telefono di questa gente del governo per chiamare e dire: “Oh, ma che stai facendo?”. Il concerto tutti seduti con la mascherina…ma che razza di concerto rap è? Poi negli stadi tutti quanti in piedi a gridare e tifare, non è giusto.