AGI - Il nuovo disco del rapper torinese rappresenta un’analisi spietata, sarcastica, cruda, ispirata, da parte di uno degli artisti migliori che abbiamo in Italia. Una ricerca approfondita, affannosa, a tratti anche amara sull’essenza dell’essere artista, sulla propria posizione dentro il mercato dopo l’esplosione grazie al pubblico dell’indie, l’appartenenza sempre un po' laterale alla scena rap e la partecipazione a Sanremo. E poi quella lettera aperta, autentica, commovente, all’amico Libero De Rienzo.
Solita analisi spietata, sarcastica, cruda, ispirata, di uno degli artisti migliori che abbiamo in Italia. Attenzione: non rapper, non cantautori, non indie o qualsiasi altra definizione abbiate provato a disegnare attorno a Willie Peyote, ma artista, inteso nella sua espressione massima, totale. Un’analisi che prima di tutto tocca se stesso, un rapporto complesso con il proprio essere artista, davanti allo specchio così come dinanzi a questo mondo storto, che nelle sue parole risulta quasi insopportabile.
Da far schifo, così come rappa nel brano in featuring con la comica Michela Giraud, che ormai è diventata una disciplina olimpica, verso il quale ormai si rivolge con rassegnazione, alle volte anche con rabbia, ma sempre con la poetica che lo contraddistingue; poetica che orbita a mezza altezza tra la strada e il bancone di un bar, che resta quindi sempre bassa, a portata di mano, tangibile, pronta a celebrare l’epica delle piccole cose della nostra vita, che è un po' la specialità di casa Peyote.
Piccola nota a parte merita il brano che chiude il disco, “Sempre lo stesso film”, che il rapper dedica all’amico Libero De Rienzo, scomparso da poco; una lettera intima, commovente, perfetta, da brividi, in cui Willie Peyote si libera parlandoci con estrema e disinvolta autenticità, riflettendosi sul pensiero di un artista, De Rienzo, che, come ci siamo accorti quando è venuto a mancare, ha lasciato un segno indelebile sulle persone che gli erano accanto, soprattutto artisti, e che in questo bel disegno di Peyote, ritroviamo praticamente unico ed irripetibile.
Nel disco affronti abbastanza di petto il tuo rapporto con l’essere artista…
Si, tutto il disco affronta questo tema e il mio rapporto con il lavoro e il mondo che circonda il mio lavoro. Un rapporto che è cambiato in questi anni, non solo per Sanremo ma Sanremo è stato evidentemente una manifestazione che ha cambiato anche la mia percezione, perché mi sono confrontato con un mondo più grande di me ed era la prima volta, quindi Sanremo c’entra.
Ma c’entrano tante altre cose, non posso negare che c’entrino questi due anni per come li abbiamo vissuti, per la mancanza di contatto con il lavoro, com’ero abituato a fare. C’è una grossa riflessione nel disco sul mio rapporto con il lavoro e su come devo ritrovare il mio posizionamento, non a livello di classifica ma proprio dove stare e come comportarmi all’interno di un mercato che comunque è in costante cambiamento e dentro il quale la mia posizione ancora devo ritrovarla.
Hai sempre avuto questo problema di posizionamento, fai il rap ma al successo ti ha portato la rivoluzione indie…questa cosa la “soffri”?
È un disco pieno di dubbi, sono in un momento di transizione, però arrivo a questo momento di transizione ad un’età e con una consapevolezza adulta, sia di ciò che faccio sia di me come essere umano. Ma non la vivo più con l’ansia che avevo qualche anno fa, oggi semplicemente mi pongo il problema di qual è il ruolo dell’artista e qual è il mio ruolo nel mercato discografico italiano, però la vivo con molta più libertà di quella che mi concedevo in precedenza.
Penso sia un disco nel quale si coglie che non ho lesinato nel lasciarmi andare né nel racconto personale e autobiografico del mio sentire, non solo ciò che mi succede ma anche come mi sento. Ho fatto semplicemente quello che mi andava di fare.
Come hai vissuto la visibilità ottenuta con il Festival di Sanremo?
La cosa che mi ha colpito di più, alla quale mi sono dovuto abituare, è stato che in un meccanismo come quello di Sanremo arrivi ad un pubblico gigantesco, di colpo, ti esibisci di fronte a persone che fino ad un momento prima non sapevano della tua esistenza e il momento dopo invece sono curiosi di sapere tutto di te; è un modo strano di rapportarsi vicendevolmente con il pubblico. Ed è altrettanto vero che l’anno dopo c’è il nuovo Sanremo e succede ad altre persone e tu fai già parte del passato. Però mi ha dato l’occasione di guardare le cose da un ulteriore punto di vista che prima non avevo mai provato.
Nel disco c’è anche un sarcasmo più forte, anche una puntina di rabbia in più nello scrivere questi pezzi…
Senza dubbio sono stati due anni difficili, non nascondo che sono stato lungamente amareggiato e sono in difficoltà anche oggi, ma perché nel disco rifletto sul fatto che mi spiace che mi passi la voglia di parlare in un contesto in cui faccio difficoltà a dire la mia perché è tutto estremamente polarizzato e si fa troppa facilità ad incasellare tutti in due macro categorie, tra l’altro in contrasto tra loro, su qualunque argomento possibile; ed io che ho bisogno di andare in profondità nei ragionamenti e nelle questioni, mi sento molto in difficoltà. L’amarezza nasce dalla difficoltà di trovare di nuovo la posizione in questo contrasto tra il contesto, che mi fa passare la voglia di dire delle robe, e la necessità di dirle.
L’utilità è un valore sempre troppo sottovalutato, quanto può incidere ancora la musica nel nostro pensiero?
Io credo che la musica, come la letteratura e l’arte in generale, possa essere utile quando non si pone l’obiettivo di cambiare il mondo nell’immediatezza, ma semplicemente si pone l’obiettivo di far venire un dubbio, una domanda in più, di mostrare un punto di vista alternativo o di proporre un momento di riflessione che va più a fondo rispetto alle discussioni alle quali siamo abituati sui social, che sono tutte botta e risposta e veloci. Credo che la musica possa offrire un punto di vista alternativo o proporre un pensiero critico, questa è l’utilità, sicuramente non può cambiare il mondo, perché se non ce l’ha fatta Bob Marley non ce la posso fare sicuramente io.
Quando scrivi pensi un po' all’effetto che vorresti la tua musica suscitasse in chi ascolta?
Io quando scrivo parto sempre dai miei di dubbi e i miei ragionamenti, siccome io vivo di dubbi penso che esporli possa essere utile, perché in qualche modo magari c’è chi non si rende conto di avere lo stesso dubbio, vede il proprio dubbio sotto una forma più plastica e più definita o magari se ne rende conto meglio; però non penso mai a scrivere questa cosa così qualcuno penserà quest’altra cosa, semplicemente mi limito ad esporre i dubbi con cui io vivo quotidianamente, sperando che in qualche modo possano rivelarsi non solo miei.
In “Diventare grandi” ti chiedi “Tu ti ascolteresti?”…domanda interessante…
Io in realtà ho sempre scritto e composto nell’ottica di “Voglio fare qualcosa che io per primo ascolterei”, quindi la domanda me la pongo in maniera retorica nel pezzo ma è generica. La mia risposta è: cerco di scrivere qualcosa che io come ascoltatore ascolterei, non so dirti, essendo così dentro quello che faccio, se avrei voglia di ascoltarmi davvero, nel senso che io i miei dischi non li riascolto, ma cerco sempre di fare qualcosa che mi piacerebbe ascoltare se fossi dall’altra parte della barricata.
Chiudi l’album con “Sempre lo stesso film”, brano dedicato a Libero De Rienzo…
Lui e Samuel sono state due figure fondamentali nella mia formazione, due punti di riferimento e due obiettivi da raggiungere, avrei voluto essere come loro. Ho avuto poi la fortuna di conoscerli, non solo di lavorarci insieme, ma di stringere una bella amicizia con entrambi e mi hanno insegnato tanto. Picchio, senza dirmi mai direttamente le cose, mi ha insegnato che conta più il coraggio del talento, lui ha sempre raccolto forse meno di quello che meritava come artista e come attore, per l’immensa bravura, per le scelte difficili che ha fatto e la coerenza che a suo modo a portato avanti nel suo percorso, senza mai porsi il problema; nel senso che era molto sicuro delle sue scelte, molto convinto di quello che faceva, secondo me non ha mai avuto il rimpianto di aver perso delle occasioni per la sua coerenza e per il suo coraggio. Mi ha insegnato questo: che se si ha un’idea bisogna poi avere il coraggio di difenderla, perché l’arte è tutto e niente, ognuno ne ha un’idea sua, se però hai iniziato a fare questo lavoro perché hai un’idea dell’arte, poi la devi difendere in ogni modo, sennò fai un torto a te stesso.
A mio parere è stato sottovalutato soprattutto come regista, “Sangue – La morte non esiste” è un film meraviglioso….
Ne parlavamo spesso, secondo me quel film è incredibile. Lui non ha avuto occasione di dimostrare quanto fosse bravo come regista, secondo me nella seconda fase della sua carriera la sua intenzione credo che fosse di fare più il regista che l’attore e avrebbe potuto dimostrare a tutti la sua bravura anche in quel campo. Purtroppo ne siamo stati tutti privati di questa opportunità, sarebbe stato bello per tutti poterne godere.
Se dovessi scegliere una canzone tra quelle di questo disco che ti rappresenti di più in questo momento, quale sceglieresti?
La prima e l’ultima, e non sono posizionate a caso nella scaletta. La prima è il riassunto, il compendio, di quello che andrai a sentire all’interno del disco, declinato in vari modi, ma gli argomenti sono tutti lì. L’ultima è una canzone nella quale torno, rispetto ai dischi precedenti, a raccontarmi un po' più a fondo, ad aprirmi un po' di più, quindi se qualcuno si chiedesse come mi sento, come sto e quali sono le domande che mi faccio, ascoltando “Sempre lo stesso film” lo scopre.
Ho dovuto immaginare una lettera ad un amico per potermi aprire fino in fondo, perché in realtà era quello il motivo per il quale nei dischi precedenti non avevo un interlocutore diretto con cui confrontarmi, invece queste cose che a Picchio non sono riuscito a dire di persona ho potuto scriverle e per questo sono riuscito ad andare fino in fondo. Quindi la prima e l’ultima canzone sono la cornice perfetta dell’album, perché contengono quello che poi nell’album viene sviscerato singolarmente.
Nel disco ci sono diversi featuring, da Michela Giraud ed Emanuela Fanelli, che sono due attrici, a Samuel e i FASK, che invece fanno, ognuno a modo proprio, del cantautorato, fino a Speranza e Jake La Furia, che invece sono al centro del rap game…Come li hai scelti?
I featuring nascono sempre per due motivazioni: la stima artistica, evidentemente, e la consapevolezza che quei nomi aumentino il valore artistico del disco. E poi c’è una componente importante di amicizia, molti di quelli che hanno partecipato, oltre ad essere artisti dei quali ho stima, sono persone con cui in questi due anni mi sono confrontato spesso sui temi che affronto nel disco. Penso a Samuel, penso ad Emanuela Fanelli, penso ad Aimone, sono tre persone con le quali ho avuto la fortuna di confrontarmi, di scendere a fondo in certi temi e quindi averli nel disco era quasi una forma di rassicurazione per me.
Come vivi questo tuo essere considerato sempre un po' fuori la scena rap?
Io sto bene, non ne faccio un cruccio. Però ti dico che mi dispiace non essere percepito come rapper, sono altrettanto convinto che i miei colleghi che quel lavoro lo fanno, la consapevolezza che io faccia parte di quella categoria ce l’hanno, ne ho ricevuto anche conferma privatamente. Poi dipende il pubblico cosa intende per rap, bisogna capire se per rap intende un certo genere con determinati suoni, determinati argomenti…allora ci sta. Ma penso che chi conosce il rap a fondo sappia discernere un rapper e un non rapper, anche se questo rapper fa una cosa diversa.
La cosa paradossale, perlomeno da fuori, è che chi affronta temi sociali, quelli base del rap, anche se in maniera più profonda, con una poetica più cantautorale, penso a te, Rancore, Murubutu, Caparezza, vengono messi a lato. Chi fa rap su tematiche che con le radici del rap c’entrano poco, invece viene considerato la vera scena italiana…è un po' particolare.
Può essere vero ma va considerata la questione anche da un altro punto di vista: il rap è un genere che va ad infilarsi dappertutto, ormai è entrato in tutti gli altri generi, ha addirittura influenzato il modo di scrivere degli altri generi. Io credo che il rap ha talmente tante possibili forme, ti lascia talmente tanta libertà di espressione, di tematiche, che in realtà poi ci sta che non tutti abbiano la stessa idea di che cos’è. Però a me piace pensare che il rap può essere tutto e tutti i generi ormai hanno un po' di rap dentro e non viceversa.
In questi due anni durante i quali la musica, più di tutti gli altri settori della nostra società, è stata colpita dalle restrizioni dovute alla pandemia, ti sei fatto qualche domanda sulla considerazione che le istituzioni hanno di te come lavoratore dello spettacolo?
Non sono solo le istituzioni, io credo che sia anche un problema di percezione del pubblico, di qual è la figura dell’artista. Io nei dischi sono sempre molto polemico, perché esprimo in quel modo i concetti e perchè credo che sia la forma più opportuna. Io ho fatto dei ragionamenti su come noi artisti, lavoratori dello spettacolo, dobbiamo essere i primi a ridare valore a quello che facciamo, è un percorso che inizia da noi, non ci si può solo lamentare di essere geni incompresi, bisogna anche capire che bisogna fare qualcosa di più per far passare il messaggio che non siamo solo quelli che vi fanno “tanto divertire”.
Ma se noi per primi ci occupiamo solo di intrattenimento allora non possiamo pretendere di essere vissuti come qualcosa di più. Di conseguenza io ripartirei dalla consapevolezza nostra di dover forse fare di più e di trattare un po' meglio il nostro lavoro, per dargli l’importanza che pensiamo debba avere e che debba essere riconosciuta dagli altri, ma dobbiamo essere soprattutto noi a dargliela.