AGI - Intrigante il “Mediterraneo” di Jovanotti, delude l’old school napoletana di Luchè, molto più convincente il nuovo singolo dei Sottotono. Mobrici e Fulminacci finalmente incidono la loro meravigliosa versione di “Stavo pensando a te” di Fabri Fibra. Il miglior disco della settimana sicuramente quello di Simona Molinari, mentre Fred De Palma ci propone il primo tormentone estivo. La chicca che vi proponiamo è “Papavero” dei LaPara.
Jovanotti – “Mediterraneo”: Non è un caso che Jovanotti, tra tutti gli spazi fatti d’acqua del mondo, abbia scelto proprio il Mediterraneo come protagonista del proprio disco. Perché il Mediterraneo, il più affascinante tra tutti i mari, rappresenta alla perfezione l’idea di musica di Jovanotti: un luogo di passaggio, abbondantemente navigato, in cui conosciuto, familiare e intimo si mescolano e sbattono addosso con sconosciuto, straniero, leggendario ed extraterrestre, convivendo in armonia tra le onde. Così nel disco si varia tra il tranquillo navigare di “Ricordati di vivere”, “Non dimenticar”, “Tirannosauro rex”, in cui ritroviamo il Jovanotti più freak, che insegue il sole e il sorriso a cavallo della propria bici, sbiascicando aforismi hippie; e le atmosfere più movimentate, burrascose, agitate di “Mediterraneo” e “Allelu”, quelle nelle quali è più facile incastrare le influenze culturali che rappresentano l’anima di quello specchio d’acqua, come in “Alla salute”, “Everest” e “Corpo a corpo”, meraviglioso tête-à-tête con l’amico Enzo Avitabile. è una festa, come sempre, il disco di Jovanotti, che suona in una stanza vuota che presto si riempirà del popolo del Jova Beach Club, e la percezione è che tutto sia pensato e indirizzato su quell’evento, che Cherubini non riesca più semplicemente a sospettare la gioia che regala con i propri brani, ma che senta il bisogno, fisiologico, romantico, splendido, di ubriacarsene vis-à-vis. Così questo disco esploderà, in chissà quali e quante versioni, in live; una di quelle robe che merita un’esclamazione da commedia americana anni ’80 del tipo: “E chi se lo perde!”.
Luchè – “Dove volano le aquile”: è chiaro che l’intento di Luché era quello di giocare un po' con il sound, un colpetto alla trap, uno al rap old school, un colpetto anche, perché no, al pop e al cantautorato, perché i brani sono intrisi di una indiscutibile voglia di incastrare la vita, perfino la propria visione “dal basso”, dentro la poetica delle metriche. Purtroppo il disco non esalta, non notiamo particolari guizzi, non c’è una rima che ti fa cascare la mascella, non c’è un pezzo che ti resta in testa in maniera particolare. C’è della musica, indubbiamente fatta con mestiere, il compitino è corretto, su questo nessuno può aprire bocca, ma è come se mancasse la componente magica, il wow effect. Le intenzioni di ogni brano, anche quelli particolarmente riusciti, e ce ne sono, sono sempre accennate; un po' meglio i pezzi in cui Luché si lascia andare in un’analisi più intima, come l’ottima “Tutto di me”, o il featuring con Geolier, che riunisce passato e presente della scena rap napoletana, quella che Luché con i Co’Sang si è praticamente inventato. Ma in generale il disco manca di colori, risulta piatto e, purtroppo, dimenticabile.
Sottotono – “Poco male”: I Sottotono chiudono il cerchio del loro rientro nella scena rap/pop aggiungendo al loro bellissimo “Originali” questa “Poco male”. Sfiorato il nomen omen, in questo brano di male non ce n’è proprio, anzi, funziona alla grande; mira al centro rosso, al punto focale, e lo spezza proprio in due: l’invito a trovare sempre il lato positivo delle nostre umane storie arriva forte e chiaro, accompagnato da un sound che parte, si, dal rap anni ’90, quello che i Sottotono hanno preso e sdoganato per primi e meglio di chiunque altro forse al largo pubblico del pop, ma che arriva dritto dritto alle nostre orecchie sazie di volgarità, ripulendole con il senso che due artisti come Tormento e Big Fish, che sono anche due artigiani del suono e della parola, sanno dare al proprio lavoro.
Ketama126 – “Ragazzi fuori”: Solitamente i brani che rispolverano il passato di un artista, specie rap, sono di una noia mortale; d’altra parte, a meno che la vita di una persona, di base, non sia caratterizzata da un’enorme fortuna o un’enorme sfiga, i passati si assomigliano un po' tutti, quelli dei rapper poi sembrano sempre una versione sbiadita e ben poco eccitante di uno dei primi film di Spike Lee. Invece questa “Ragazzi fuori” è proprio sincera, schietta, non si gira intorno ai fatti, ai momenti, a quelle fotografie che Ketama scatta e racconta con estrema lucidità. Insomma, se racconti una storia la prima cosa che importa è che chi ti ascolta ti creda. Ecco, noi ci crediamo.
Mobrici feat. Fulminacci – “Stavo pensando a te”: Alle volte tra un brano, inteso proprio come semplice agglomerato di parole e note, e un artista, che anche quel brano non lo ha scritto, pensato, vissuto, respirato…be, alle volte scatta qualcosa di speciale. “Stavo pensando a te” è un capolavoro, Fabri Fibra traccia la devastante normalità post storia d’amore con immagini così strazianti e chirurgiche che alla fine racconta la storia di tutti quanti, tutti noi abbiamo una persona la cui assenza per un determinato periodo di tempo ha fatto da sottofondo costante ed insopportabile alla nostra vita. La storia di questa cover parte un paio di anni fa, quando la rivista online specializzata Rockit l’ha richiesta per i suoi “Notturni”; è da allora infatti che gira su YouTube, da allora che il pubblico se n’è perdutamente innamorato e la richiede a gran voce ai due artisti della Maciste Dischi. L’inserimento del brano nella colonna sonora della serie Netflix “Fedeltà” ha evidentemente dato l’incipit a realizzare (finalmente!) questo desiderio. Mobrici e Fulminacci spogliano il brano dagli orpelli urban originali, diventa una confessione cupa, intima, meravigliosa, dentro la quale i tratti della storia vengono fuori forti e ruvidi, coinvolgenti in quella malinconia cantata con carattere, con precisione, con rabbiosa calma. Esistono casi in cui le cover battono l’originale, potremmo sciorinarne una quantità infinita, sarebbe ingeneroso inserire questa versione di “Stavo pensando a te” in quella lista, perché quella di Mobrici e Fulminacci è una rilettura, musicale ed interpretativa, geniale almeno quanto il pezzo originale di Fabri Fibra; star qui a sezionare ogni minimo aspetto di un’opera d’arte per capire se è migliore o peggiore di un’altra è inutile, anzi, svilirebbe forse la bellezza di entrambi i brani e magari finirebbe anche per toglierci il gusto di ascoltarli a ripetizione, cosa accaduta negli ultimi due anni, perlomeno per quanto ci riguarda. Ci rifiutiamo di pensare che un brano così onesto come “Stavo pensando a te”, sia frutto di un ragionamento a tavolino, ci rifiutiamo di pensare che immagini così vivide siano state buttate giù pensando solo alla loro efficacia o meno dentro uno schema prestabilito; vogliamo dare per scontato che Fabri Fibra abbia vissuto e sporcato di sangue e lacrime ogni singola virgola di ciò che ha scritto. E allora vuol dire che Mobrici e Fulminacci si sono riusciti ad appropriare di immagini che non avevano pensato loro, e di restituircele poi, dando a quel romanticismo un nuovo significato, una nuova vita. Lavoro eccezionale.
Maurizio Carucci – “Respiro”: Lo splendido debutto solista del cantante degli Ex-Otago ci fa capire prima di tutto il motivo per cui il cantante degli Ex-Otago avesse bisogno di incidere questo disco, quale urgenza artistica lo ha spinto a ritagliarsi questo spazio di intimità praticamente assoluta. Carucci vomita fuori angosce e gioie con la stessa identità, viaggia attraverso sound diversi tenuti in sintonia dalla profondità della sua voce e quella voglia, incontrastabile, di raccontare; come nella meravigliosa “Genova anni 90”. È un disco che sa essere etereo e divertente, che orbita intorno alla testa e serve impegno per seguire in ogni sfaccettatura. Si sente in maniera evidente il passaggio dalle produzioni fatte in casa dello stesso Carucci a quelle dei bravissimi Mamakas, ma non disturba, anzi, offre spunti, gioca sulla varietà e alla fine dell’ascolto del disco ci si sente decisamente più pieni.
Simona Molinari – “Petali”: La leggerezza, la raffinatezza, un disco di Simona Molinari è uno scrigno di sensazioni leggere e rinfrescanti. “Petali” è un album buono da ascoltare in macchina, mentre fuori brilla il sole e tu stai andando al mare; è un album buono da ascoltare mentre fuori diluvia, sei rimasto a casa con lei e provate una ricetta azzardata, sorseggiando un bel rosso, ancheggiando un po' mentre quei ritmi pop jazzati vi accarezzano. Ma dietro questo disco, che in qualche modo devia la carriera della bravissima Simona Molinari verso terre più accessibili, c’è anche l’enorme forza di una donna che, pur con la delicatezza che la contraddistingue, combatte; l’intimità profonda e rarefatta di un’artista eccezionale. “Petali” è un album meraviglioso, proprio nella sua interezza, una boccata d’aria fresca in mezzo alla puzza di caccia alla visibilità di un mondo, quello della musica, sempre più malato.
Nicolò Carnesi feat. Fast Animals And Slow Kids – “Kinder Cereali all’amianto”: Questa collaborazione non celebra solo il brano di un meraviglioso disco di Carnesi, “Gli eroi non escono il sabato sera”, ma anche un tempo che fu, un certo modo di fare ed intendere la musica. Fatto di una scena ben definita, che ha avuto un ben definito inizio e una ben definita fine, pochi anni all’incirca intorno alla metà degli anni ’10, portata avanti con poesia, con onestà, con epica, con spregiudicatezza. Poi, “Kinder Cereali all’amianto” è chiaramente una perla, un concentrato di struttura cantautorale intensa e ironia, e la scelta di rimasticarla insieme ai favolosi FASK è vincente; ma dietro questo lavoro c’è evidentemente la voglia di riacchiappare un tempo che è ormai passato, ok, ma per fortuna ci restano le canzoni.
Management – “Ansia capitale”: Traduzione musicale precisa al millimetro di una sensazione, l’ansia appunto, sempre più presente nelle nostre vite e sempre più ignorata, come se fosse uno stato d’animo perennemente passeggero, un mal di testa da spegnere con un po' di silenzio attorno. E invece no, l’ansia è un giro di basso in sottofondo perenne, ti guardi attorno e tutto è calmo, mentre a te qualcosa ti brucia dentro, come se il cuore scalciasse per lasciare il corpo mentre caschi da un grattacielo altissimo. I Management in pratica leggono la realtà di un mondo sull’orlo dell’ultimo respiro, della follia della guerra, della pandemia, una delle più drammatiche metafore per spiegarci, allo specchio, che siamo senza rispetto per niente e nessuno e presto tutto ci si ritorcerà contro. E chiaro che poi ti viene l’ansia, in un circolo vizioso che ci accerchia, sempre di più, fino a farci soffocare. Noi, artefici della nostra ansia, segno che comunque ci siamo e siamo ancora in grado di preoccuparci per qualcosa, anche se non muoviamo un mignolo. E i Management a cantarla. Bravi.
Fred De Palma feat. Justin Quilles – “Romance”: Leggere il nome di Fred De Palma già ad aprile tra le nuove uscite ci fa pensare che la stagione della caccia ai tormentoni estivi sia già cominciata. Se è un pesce d’aprile non fa ridere per niente.
CARA feat. Chadia Rodriguez – “Preferisco te”: Pop da “Cioè” salvato da una produzione super curata dal maestro Big Fish; talmente super che alla fine il brano, veramente povero in termini di contenuti, risulta addirittura divertente.
Melancholia – “Sleep Mode”: I Melancholia sono la tipica band che nella vita capita, non te la vai a cercare. Stai in vacanza, entri in un club, becchi un loro concerto, te ne innamori, acquisti il disco e lo tieni nella libreria in attesa che qualcuno ti chieda “Ehi, ma chi sono questi Melancholia?”, e tu di gran carriera dai vita al giradischi e sulle prime note racconti di quella serata chissà dove in cui ti sei imbattuto in questa bomba atomica di band. Certo, è un romanzo che può avverarsi solo nella tua testa, perché i Melancholia hanno partecipato a X-Factor e questo gli ha dato un po' di notorietà, anche se fisiologicamente un po' appassita; in più la suddetta partecipazione a X-Factor non li ha minimamente intaccati di pop da classifica, anzi, “Sleep Mode” è un disco da club, un disco d’essai, una piccola perla di rock cupo ed etereo, e loro, dai, ammettiamolo, sono ben oltre questa italietta di canzonette morbide e zuccherose come un marshmallow. Per cui non perdetevelo, perché non è musica che sfortunatamente siamo soliti ascoltare.
CRLN – “Memo”: Le dinamiche di coppia finalmente snaturate in musica di quella alle volte eccessiva drammaticità. Non succede niente in questa coppia e CRLN ne celebra, ne canta, meravigliosamente bene, come al solito, proprio la normalità; che poi sfocia in un mood danzereccio coinvolgente e confortevole.
Dutch Nazari – “Anime stanche”: Dichiarazione rap d’amore e nostalgia alla sua Padova, Dutch Nazari ci fa percorrere le strade, ci inquadra i visi, ci fa bere e mangiare con lui, punta con il dito i suoi luoghi e ne decanta i ricordi che conserva con evidente romanticismo. Chi vive lontano dalla propria terra, qualunque essa sia la propria terra, andrebbe sempre compreso e abbracciato; spesso non si comprende quanto sia complesso abituare il proprio corpo ad una nuova aria, i propri occhi ad un nuovo paesaggio, le proprie orecchie ad una nuova lingua, con il cuore che barcolla spaesato in cerca di appigli. Dutch Nazari, rapper dal talento cristallino, con “Anime stanche”, titolo perfettamente centrato, ci autorizza a passeggiare con lui nella sua storia e il pezzo è talmente bello che accompagnarlo risulta proprio un privilegio.
Il Solito Dandy – “Turismo sentimentale”: La rivoluzione indie, anche se fondamentale nell’intera storia della nostra musica, ha lasciato ad un’intera generazione di ragazzi la malsana idea che scrivere e cantare una canzone sia una cosa da niente, la verità è tutt’altra: scrivere una canzone che sia solida, strutturata, che dica qualcosa e mostri stile e intuizioni, è difficilissimo. Perché se fosse facile tutti scriverebbero buone canzoni e non si spiegherebbe così la marea di immondizia tradotta in note che siamo costretti a sorbirci ogni settimana. Proprio per questo il disco de Il Solito Dandy risulta eccezionale, perché si tratta di otto brani straordinariamente ponderati, che mostrano un’idea di musica ben precisa ma, soprattutto, la necessità di esprimersi, come se questi brani fossero naturale prolungamento dei pensieri di un cantautore che certamente vive la musica con passione e mestiere. I brani ci sono piaciuti tutti, tant’è che forse, in un periodo storico che ci sembra quasi medievale, ma in realtà stiamo parlando di una decina scarsa di anni fa, un disco del genere, così autentico, avrebbe seriamente potuto rappresentare una svolta nella carriera di questo bravissimo artista. È chiaro che noi speriamo che ciò valga ancora oggi e che Il Solito Dandy possa diventare davvero “solito” negli ascolti del pubblico; poi, capirai, con tutta questa gente che di mestiere pubblica canzoni che non sa scrivere, ci speriamo ancora più forte.
Karakaz – “Carne”: Immaginate Achille Lauro esorcizzato dai grandi marchi, un po' più rock e un po' più credibile. Non è un disco perfetto, certe imprecisioni non si possono coprire con una schitarrata, ma è certamente un disco pieno di cazzimma, tosto, che si propone spudorato e arrogante, molto di più del Karakaz in versione macchietta che abbiamo visto a X-Factor. E a noi è piaciuto un sacco.
VV – “Duecento”: Un inno all’alleanza per combattere tutti insieme le storture della vita, perché no, anche a colpi di cornetti caldi di notte. La cosa interessante è che la bravissima VV lo compone come un gioco divertente, danzereccio, in cui la sua voce modulata suona come un navigatore verso un mondo migliore. Brava.
Medy feat. ANNA – “Ma Jolie”: Il talento di Medy e ANNA affossato da quel tremendo beat in stile reggeaton. Sopporti un po', poi non ce la fai proprio e cominci a odiare il pezzo senza nemmeno capire di cosa si sta parlando, troppo distratto dal furore che sgorga dalle narici. Allora ricominci, perché il lavoro va fatto bene, e capita ancora…un loop di fastidio contro il quale non c’è rimedio. Provando a filtrare l’ascolto vengono fuori le barre potenti di due nuovi fenomeni della scena, ma i brani vanno confezionati meglio.
Nuvolari – “Farabutto”: Un brano cui buon sapore profuma di quel cantautorato tradizionale che noi affannosamente ancora ricerchiamo tra un pezzo trap e uno reggeaton. Per fortuna poi vengono fuori i Nuvolari, che raccontano, come in questa bella “Farabutto”, dei lati più oscuri dell’amore, il tema è proprio la fine di una storia, ma con una delicatezza quasi confortante. Che un amore non deve necessariamente finire tra urla, piatti rotti e avvocati, può anche finire perché l’essenza di uno o dell’altro è quella del farabutto, appunto; così la presa di coscienza prende il posto dell’amore e a noi, anche concettualmente, ci piace.
Serendipity – “Bene a metà”: Band con l’orecchio per il pop radiofonico, e in questo senso “Bene a metà” è pressocché perfetta. Chiaro che il pubblico di riferimento non sia troppo adulto e che i contenuti siano decisamente teen. Ma il brano è ben costruito e godibilissimo.
ETT – “Invisibile”: Poesia extraterrestre, “Invisibile” è un lampo che ti avvolge, è una visione attraverso un pentagramma, frammentata e stupenda. Un brano che suona meravigliosamente bene, composto in maniera illuminante.
LaPara – “Papavero”: Brano divertente, stralunato, di carattere, dalle sonorità semplici e distorte. Come distorta e intrigante è la tesi portata avanti in questa “Papavero” secondo la quale, tutto sommato, le stelle possono rimanere in cielo e noi possiamo rimanere sotto a guardarle esprimendo desideri che non si realizzeranno mai.
Alaveda – “La bellezza degli abissi”: Nonostante la stesura del testo sia vagamente telefonata, “La bellezza degli abissi” è un brano che sprofonda nell’intimo, che tocca un nervo scoperto e in qualche modo imbambola.
L'ultima fila – “Mal di mare”: Il mare fa paura perché è troppo grande, perché non ne riesci a sospettare la fine né riesci nemmeno ad immaginartela, e quanto può essere grande una cosa che nemmeno ti immagini come possa andare a finire? E ciò che siamo, ciò che ci portiamo dentro, quella stanza dentro la quale rimbalza solitaria la nostra voce, è come il mare: sai che c’è, lo senti, ma non sai quanto è grande, perciò fa paura, perciò chi lo affronta è già considerato un eroe. “Mal di mare” è una metafora, i “L’ultima fila” ci trascinano dentro quell’ondeggiare che rischia di diventare furioso, che è il mare ma che è anche la vita stessa; sempre colti in flagrante da sensazioni che chissà come vengono e chissà come passano. Solitamente le band pensano a pestare duro, loro invece provano a suonare una determinata sensazione, difficile darle un nome, e sapete che c’è? Ci riescono.
Giovani Telegrafisti – “La mossa Kansas City”: Abbiamo seguito passo passo il percorso di questi Giovani Telegrafisti siciliani, oggi finalmente il loro primo album. Nonostante la nuova discografia stia provando in tutti i modi a convincerci del contrario, pretendendo che quella che dovrebbe essere una narrazione omogenea venga spalmata in un arco temporale mai definito, un album è davvero la prova decisiva per capire se un progetto ha senso o meno. Naturalmente questo non va controllato con la calcolatrice ma provando a definire i contorni visibili, le caratteristiche fondamentali e ogni possibile sfumatura di pensiero. “La mossa Kansas City” è un buon disco, brani come “Ritorno a casa”, “Odore”, “Segatura”, “Velluto” sono già ponderati alla perfezione, suggeriscono una strada, un’identità; “Artista indipendente” o la geniale “Valzer del nido vuoto” (una dolcissima ninna nanna nella quale viene messa in musica una feroce spietatezza), sono lampi che ci inducono a pensare che in realtà i colori sulla tavolozza siano molti. Chiaro, il disco è anche pieno di ingenuità, di spigoli da smussare, certi brani non esplodono, ma la band di base ricerca una sonorità, un’atmosfera ben precisa, quasi sospesa, rotta solo dal cantato pulito, forse anche troppo, della voce; e la trova, regolarmente, e ci accompagna dalla prima all’ultima nota. Benvenuti.