Ermal Meta e Giuliano Sangiorgi propongono “Una cosa più grande”, un duetto da mestieranti, che non esalta ma diciamo che va bene. Achille Lauro distribuisce “Stripper”, brano con cui andrà all’Eurovision Song Contest e che è frutto di lavoro di undici persone. Stupefacente. Soprattutto il fatto che in undici, praticamente una squadra di calcio, nessuno abbia alzato la mano per chiedere “Davvero stiamo facendo uscire questa cagata?” Parliamo ora di un esordio, quello di Tommaso Paradiso con “Space Cowboy”, un titolo che ha fatto venire un infarto a tutti i fan dei Jamiroquai. Disco noiosissimo ma niente di più di quello che ci aspettavamo Fuori anche il disco di Dargen D’Amico dopo l’esordio sanremese, disco multicolore, ironico, molto molto interessante Meraviglioso l’ep di Rancore, che formula tre lettere al futuro, propone un rap fantascientifico, interstellare, intellettuale. Antipasto per un disco che suona come un’epopea e lui il migliore tra i rapper consciuos della scena italiana. Nettamente. Toppano Mr. Rain e Alfa, due che non ci ricordiamo proprio come, quando, dove e perché sono diventati famosi. Molto bello poi il disco del rapper Bresh, una delle più esaltanti dimostrazioni del valore dell’ibrido rap/pop.
Ermal Meta feat. Giuliano Sangiorgi – “Una cosa più grande”
Un incastro perfetto quello architettato da Ermal Meta e Giuliano Sangiorgi che, con l’innegabile professionalità che contraddistingue il loro fare musica, si lanciano senza timore in un duetto che in realtà non ha troppe pretese, se non quelle di celebrare un’unione artistica e umana, fermare un momento, come con una fotografia. Il brano è naturalmente strutturato, solido, magari non entusiasma, non resterà nella storia della musica leggera italiana, ma sono tre minuti e mezzo di musica ben spesi.
Achille Lauro – “Stripper”
È con questo brano che Achille Lauro si proporrà al mercato internazionale utilizzando la scorciatoia San Marino. L’Eurovision Song Contest probabilmente si rivelerà essere l’ennesima mossa azzardata, troppo azzardata, del performer romano, uscito nettamente sconfitto dalla quarta partecipazione consecutiva al Festival di Sanremo, una sovraesposizione che ne ha decisamente infiacchito l’immagine, qualora qualcuno ci fosse mai cascato, è ovvio.
Achille Lauro comunque è un artista di forte impatto, siamo sicuri che si farà valere dinanzi ad un pubblico che non ha idea di chi sia, troverà il modo per prendere un brano da netta insufficienza, come questo “Stripper” (ma come anche praticamente tutto il resto della sua discografia) e, con qualche diversivo dei suoi, farlo passare per significativo. Certo, non è che qualche stream in più fa di te un artista migliore, ci mancherebbe, ma se il ragazzo ci tiene particolarmente a farsi conoscere e applaudire pure dal pubblico armeno chi siamo noi per giudicarlo?
Piccola nota: il brano è firmato da undici autori. Undici. Una squadra di calcio. Come in altri casi, più che incuriosirci su come si suddivide il lavoro su un brano in ben undici persone, ci stupiamo di questo schiaffo alla legge dei grandi numeri: su undici persone nemmeno uno che abbia alzato la manina e abbia detto: “Raga, ma davvero stiamo pubblicando sta roba?”. Stupefacente.
Tommaso Paradiso – “Space Cowboy”
Eccoci qui, tre anni e millemila singoli dopo lo scioglimento dei Thegiornalisti, a parlare di “Space Cowboy” come di un esordio per Tommaso Paradiso. Naturalmente è talmente un non esordio che sappiamo esattamente cosa ci aspetta; una parte di noi, la più ottimista e sprovveduta, sperava di ritrovare il Paradiso dei primi Thegiornalisti, quello di “Promiscuità” per intenderci, quello che prendeva il sound di quei dannati anni ’80, che proprio ci teneva a tutti i costi a ripropinarci, e lo rimaneggiava rievocandolo con gusto e senso della contemporaneità. Oggi invece ci suona tutto, ma proprio tutto tutto tutto, di già sentito, quella raffinata evocazione si è trasformata in una svogliata e superficiale citazione perenne e buttata giù a sproposito.
I testi sono deboli, le intenzioni sconclusionate, non c’è un guizzo che sia uno, niente che rimanga in testa, perché è chiaro che se proponi un disco di undici tracce tutte uguali, in testa non ti resta che un confuso e indefinito retrogusto che la tua mente e il tuo cuore non hanno nemmeno troppa voglia di indagare.
Ci ridestano da una noia profonda, quasi mortale, gli ascolti di “Amico vero” (unico feat del disco con Franco126), “Vita” e “Sulle nuvole”, ma in realtà potrebbe essere anche un’illusione, come quando fissi negli occhi un ritratto appeso al muro e credi che ti segua con lo sguardo per la stanza, o come quando il treno a fianco al tuo parte e pensi che sia il tuo a muoversi, invece resti fermo lì. Ecco, Tommaso Paradiso resta fermo lì.
Dargen D’Amico – “Nei sogni nessuno è monogamo”
Dargen D’Amico non nasce a Sanremo, chi segue la nostra rubrica lo sa (chi non la segue è una brutta persona), è un artista già fortemente strutturato che si gioca il suo “cantautorap” con uno stile che è del tutto unico. Troviamo straordinaria la sua capacità di mettere insieme ironia e nostalgia; tutto, in questa folle e coinvolgente esplorazione dei confini del rap, musicale e concettuale, viene preso con sarcastico distacco, il rapporto con la madre, con il mondo, con la sfera sentimentale, tutto è dissacrante ed ogni contenuto regolarmente dissacrato.
Si tratta di un disco multicolore, ricco di sfumature, Dargen D’Amico, con delle pennellate surreali e stravaganti, disegna i connotati di un pensare musica in cui si da ampio spazio a contenuti ed interpretazione, quest’ultima, fisiologicamente, non proprio una caratteristica del genere; D’Amico invece la mette proprio in evidenza e il risultato è che questi pezzi li può interpretare lui e lui soltanto.
Sono brani intimi, battuta su battuta l’ascoltatore è invitato ad entrare dentro storie e pensieri del rapper, in particolare in bellissimi pezzi come “Sei cannibale ma non sei cattiva”, la geniale “Gaza”, “Sangue amaro”, “La benzina sapeva di tappo” e la struggente “Nei sogni nessuno è monogamo”. Si, struggente, perché l’ironia è solo un valido e complicato espediente per raccontarsi, anche per questo i brani di questo disco ci suonano confortanti, l’ascoltatore percepisce la propria umana piccolezza nei racconti di D’Amico e la accetta, non si sente solo nella propria lercia e comunissima intimità. Gran lavoro.
Rancore – “Xenoverso”
Un EP, tre lettere che Rancore si prende in carico di consegnare in giro per il futuro, nel 2036, nel 2048 e nel 2100. Un viaggio surreale, interstellare, fantascientifico, certamente incredibile, unico, coinvolgente; Rancore si conferma uno dei più dotati artisti (non solo rapper) italiani, la sua ricerca continua, spinta da un intellettualismo dinamico, elastico, vivace, ma soprattutto autentico, ci permette di utilizzare la sua musica come un caleidoscopio attraverso il quale guardare al mondo.
Perché questo succede ascoltando con attenzione le barre di Rancore: ci si guarda allo specchio senza trucco, senza inganni, senza filtri Instagram, senza tutti i sotterfugi che ci siamo architettati per salvarci l’anima. In questo strepitoso vortice di parole che ti piovono addosso, pesanti in quanto cariche di un significato chirurgicamente studiato, ci si perde e ci si ritrova allo stesso tempo.
Siamo noi quell’umanità andata allo scatafascio, siamo noi che rendiamo ogni giorno più scuro il percorso, più dolorosa la resistenza, più traballante la terra sotto i piedi; siamo noi, nient’altro che noi, Rancore non la dipinge più nera di quella che è, ma solo estremamente più poetica, dando, chissà, magari, ci piacerebbe, un senso cosmico a tutto, restituendo alla musica, al rap in particolare, la possibilità di aprirci porte della percezione e, sarebbe bellissimo, migliorarci, anche.
Mr. Rain – “Crisalidi”
Si percepisce la volontà di risultare intimo, di svuotarsi tramite la musica, di regalarsi in qualche modo; ma se si prende una strada del genere è necessaria una sostanziosa dose di spietatezza e, soprattutto, di profondità. Perché se ti serve un brano per confessarti, poi bisogna rendere giustizia allo slancio di coraggio, restare così in superficie fa sembrare tutto sentimentale, a tratti anche ben scritto, si, ma poco incisivo, troppo teen. Siamo certi che a qualcuno, magari chi si approccia in maniera scanzonata alla musica, piacerà; a noi no, ma noi non scanzoniamo con la musica da una trentina buona di anni, quindi non facciamo testo.
Alfa – “Parigi”
Questo nuovo brano di Alfa, che fa parte di quella generazione di ragazzi di successo che non ci ricordiamo perché e come e quando hanno fatto successo, fa parte di un progetto molto interessante: ovvero visitare diverse capitali del mondo, scrivere in loco il pezzo e poi tornare in Italia per registrarlo.
Il che ci spinge a dedurre che in qualche modo questo brano porti con se qualcosa di quel luogo, di quel viaggio, di quella cultura; ma invece niente, “Parigi”, se non fosse che la città viene nominata in una barra, poteva pure essere stata scritta all’autogrill di Somaglia Ovest e non avrebbe fatto la minima differenza. È un brano vuoto e leggero, discretamente insignificante, farcito di clichè e facili soluzioni. Certo però, geniale l’idea di farsi un giretto del genere sostenendo si tratti di un viaggio di lavoro, proveremo anche noi con la direzione dell’AGI ma non ci aspettiamo niente di buono.
Ministri – “Scatolette”
Una ballad che racchiude una valanga di diverse nostalgie; tutto parte da un ragionamento dalla poetica disarmante sulla musica, sulle promesse non mantenute, su quella illusoria libertà che ti fa vedere posti dove non hai il permesso di andare, dove tutto è confuso, a tratti irritante, a tratti quasi inspiegabile e certamente superficiale e sconfortante.
Così alla fine forse ti viene in mente che il ruolo del musicista non è quello di farsi salvare dalla musica, ma quello di salvare la musica, di difenderla dai racimolatori di follower, dai venditori di stream, dagli spacciatori di views. Da questo tetro paesaggio privo di vibrazioni positive, da combattere a colpi di autentica poesia; così come fanno i Ministri in “Scatolette” tra le più amare e più convincenti canzoni della loro già ottima produzione.
Tredici Pietro – “Come fossi andato via”
Uno sfogo liberatorio, immaginiamo, ma musicalmente insufficiente. Fosse un processo alle intenzioni lo assolveremmo di certo, ma noi, semplicemente, ascoltiamo e scriviamo, e quello che abbiamo ascoltato non ci ha sfiorati. Se la tua intimità parla solo di te è chiaro che chi ascolta ne viene tagliato fuori, dunque o quello che racconti è meravigliosamente generico oppure più che altro, nonostante siano vividi i concetti espressi, ci sembra solo di ascoltare per sbaglio la conversazione di uno sconosciuto del quale, con tutto il rispetto, non ci frega questo granché.
Vale Lambo feat. Slings – “FUFU”
Esercizio di stile ipnotico che unisce con una linea (di)retta gli States e Napoli, una linea che forse solo grazie all’aiuto del rap era possibile tracciare, essendo un genere che arriva ovunque ma che si ferma, a proprio agio, solo in pochi luoghi, e se gli Stati Uniti sono il punto di partenza, Napoli è sicuramente la principale stazione italiana.
Vale Lambo si conferma un fenomeno nel raccontare la propria città, anche solo attraverso un’intenzione, come quella di coinvolgere i bresciani Slings, che regalano al pezzo un sound ancor più metropolitano, necessario per l’efficacia. Si tratta di un lavoro artigianale, ben ponderato e particolarmente intrigante.
MOX – “Vita facile”
Con questo EP si chiude il cerchio che ci permette di tornare ad ascoltare MOX, cantautore dallo straordinario talento, dalla straordinaria potenza narrativa, dalla straordinaria visione romantica della vita, dentro la quale è piacevole perdersi e farsi cullare.
Se “Vita facile” e “Ultimo mambo a Milano” puntavano su quella leggerezza stralunata dal sapore epico, i due nuovi singoli “Poesia d’acqua” e “Alla faccia tua” ci restituiscono quel MOX di “Figurati l’amore”, suo bellissimo album d’esordio, capace di far ballare le parole tra le labbra, giocandoci con estrema disinvoltura, e di strapparci la pelle dalla faccia con il suo minuzioso e intimo e nostalgico e poetico racconto dell’amore. Che quando si canta dell’ammmore, bisogna essere definitivi e specifici, bisogna riuscire a narrare la propria storia come se appartenesse anche a tutte quelle persone che non l’hanno vissuta; bene, MOX in questo è maestro.
Bresh – “Oro blu”
Il rapper genovese in questo disco rimodella quell’ibrido tra rap e pop che funziona così bene nella discografia odierna. In “Oro blu” la narrazione del rap viene abilmente mescolata alla funzionalità del pop, una funzionalità alla quale si arriva non solo giocando sull’accessibilità del prodotto, e tutti tutti i brani di questo disco arrivano diretti e fluidi che è una meraviglia, ma anche con l’interpretazione, utilizzando il testo come un copione, la voce come il proprio personaggio, la poesia come il proprio linguaggio.
“Oro blu” è una di quelle pallette impazzite che si trovavano nelle patatine decenni (sigh) fa, una di quelle che appena tiravi fuori dal pacchetto con quel misto di gioia e malignità, tua madre sapeva già di dover dire addio ad una decina di prescindibili suppellettili; di quelle che frantumavi verso una parete della stanza e che rimbalzavano, appunto, impazzite dappertutto.
Ecco, “Oro blu” rimbalza dappertutto, è graffiato da ogni singolo spigolo di vita, per esempio è divertente e vagamente pulp in “Alcool & Acqua” (in featuring con gli PSICOLOGI), commovente in “Svuotatasche”, avvolgente in “Come stai” (in cui è accompagnato dal compaesano Izi). L’impressione a fine disco è che non si sia lasciato alcuno spazio per le inutilità, della vita ma soprattutto legate all’immaginario urban, che l’intenzione fosse esattamente quella di raccontarsi con spietata onestà, anche musicale, e ne viene fuori un ritratto leggero e allo stesso tempo intenso, certamente limpido e onesto.
Nashley – “Osiride”
Una finestra sul futuro della musica, dove un rapper, in totale scioltezza, può ospitare nello stesso disco fenomeni dell’hip hop come IRBIS37 e Jake La Furia e fenomeni più che altro televisivi come Anna Tatangelo e Tancredi. Quando le cose sono fatte bene vale tutto e i feat non sono semplici moltiplicatori di stream ma voci, strumenti da utilizzare; e Nashley li utilizza proprio bene. “Osiride” è un disco molto ben fatto, per gusti personali forse un po' troppo accentuata la componente pop, ma non una riga è scritta a caso o fuori posto.
Marta Tenaglia – “Chi può”
Marta Tenaglia sguinzaglia la componente psichedelica del proprio cantautorato in una mina di pezzo che suona come una ritmata bussata ad una porta, un “permessoooo” dark ed erotico, entusiasmante, che fa fare “si” con la testa, che fa vibrare lo stomaco e chiudere gli occhi. Marta Tenaglia si conferma fenomeno vero. No, davvero. Wow.
Legno – “Macedonia d’ansia”
Con la solita dose di ironia, i Legno confezionano una sentita e autentica lettera d’amore in musica, cantando di quell’ansia, appunto, scambiata per felicità, o viceversa, e che comunque ti cattura l’attenzione e ti fa stare bene. Ecco, questa canzone fa stare decisamente bene.
Pablo America – “Fragole e rock’n’roll”
Ancora un atto di meravigliosa schizofrenia musicale da parte del più singolare dei cantautori del nuovo italico pop. Si torna alle atmosfere surreali, leggiadre e profonde, si torna a quella poesia così pastosa, che ti accerchia, ti culla, ti spezza il cuore e poi va via, in tre minutini e mezzo, lasciandoti lì dove sei, ancora imbambolato, con le cuffie nelle orecchie. Pablo America, l’eroe irraggiungibile che si meritano i critici musicali. Grazie.
Svegliaginevra – “Quello che volevi”
Una canzone proprio forte, molto girl power nelle intenzioni, una fuga da una relazione, una presa di posizione decisa, una valutazione categorica dentro un brano che spacca. Forse il migliore finora proposto dalla giovane e interessante Svegliaginevra.
SANTACHIARA – “Tutto apposto”
Un EP fatto di due canzoni, entrambi rappresentative di un passo in avanti da parte di Santachiara, più complesso in composizione e contenuti. Va molto bene.
Jacopo ET – “Vengo dalla pioggia”
Una riflessione profonda colta in flagrante nel momento in cui le cose non girano per il verso giusto, l’andamento lento delle armonie tech del brano fanno da specchio all’immobilismo nel momento in cui ci guardiamo intorno e tutto è dannatamente fermo. Ottimo lavoro.
BLUEM – “UMMA”
Sentito omaggio alla propria matrice così eterea, vaporosa, ma anche alla cultura del clubbing, ricordandoci così che non si tratta di luoghi privi di romanticismo; anzi, in “UMMA”, brano che non incede tra le sillabe di un testo ma piuttosto di una affascinante cantilena, una specie di mantra ipnotico, se ne trova una valanga, una roba quasi dirompente, che fa paura e che allo stesso tempo si abbraccia, bisognosi come siamo di attimi di vita vera. A quel paese le parole.
Il solito dandy – “Pozzanghere”
Quel cantautorato fatto di immagini, di flash, di brevi ed intense emozioni, declinate in canzoni con una naturalezza e una crudezza molto affascinanti.
Jaspers – “Rockstar”
La scrittura, certamente da smussare, viene bilanciata da un intento contemporary rock decisamente intrigante, come se ti prendessero per le orecchie per portarti nei meandri di un sogno, il lato B di una rockstar, la confusione, i fumi, il mondo che gira più veloce di quanto i tuoi occhi non sappiano fare. Una metafora in musica, una traduzione efficace di quell’impasto da hangover che non solo non sappiamo tradurre ma che ci distrugge anche solo parlarne. Renderlo addirittura gradevole non era affatto facile. Quindi bravi.