AGI - Certo, è chiaro, l’uscita di un nuovo album di Cesare Cremonini, a ben cinque anni dal precedente, ormai una tempistica quasi biblica, è un evento. Forse però stavolta è un evento un po' più evento, non solo perché “La ragazza del futuro” è un bellissimo album. Quattordici canzoni che parlano di chi le ha scritte e le interpreta, ma anche di noi, dei nostri amici, dei nostri vicini di casa. Con un’universalità di intenti davvero sbalorditiva.
Stavolta è un evento un po' più evento anche perché l’ex frontman di quello che, più che un progetto musicale è stata una favola che tutti ci ha fatti appassionare sul finire dei ’90, e ci riferiamo naturalmente ai Lunapop, lancia un guanto di sfida leggiadro ma deciso a quella discografia ormai ridotta ad uno spezzatino di brani mordi e fuggi. A questo meccanismo industriale e ben poco poetico Cremonini risponde con un vero e proprio concept album, in barba ai fanatici delle chart, degli stream, dei like, delle views.
Un lavoro ponderato, intenso, a tratti anche complesso e spettacolare (pensiamo a “Stand Up Comedy”, il brano che abbiamo preferito tra i tanti, tutti a dire il vero, belli del disco), con il proposito di risultare sociale, quasi politico. Così alla fine l’artista - a ben ragione tra i più amati dell’intera scena cantautorale italiana - si ritrova per le mani qualcosa che va oltre i meri numeri del mercato, oltre gli ingranaggi discografici, oltre la volontà, fisiologica per un artista, di spaccare in due le radio; oltre se stesso in realtà, forse anche oltre quello che era umanamente possibile immaginarsi, un album che forse dice a lui più di quanto lui volesse dire a noi attraverso l’album stesso. Che forse è il momento, arrivato a 41 anni, nonostante non abbia mai sbagliato un colpo, e sfidiamo chiunque a scorrere la sua discografia rintracciando una débâcle, di dare un senso vero al proprio ruolo, immaginiamo nel mondo più che nello specifico nella musica. Di rendersi conto che una canzone debba emozionare, certo, e questo è un disco molto emozionante, che debba segnare dei passi in avanti nel proprio percorso artistico, e certamente in questo disco si nota la grandiosità dell’idea di musica di Cremonini, portata avanti con l’autenticità di chi insegue esclusivamente la propria urgenza artistica.
Ma anche che sia semplicemente qualcosa di utile, che possa invitare, ma anche, perché no, costringere l’ascoltatore ad una riflessione su cosa siamo e cosa vogliamo diventare, manco a farlo apposta, proprio a cavallo tra una pandemia e una guerra potenzialmente mondiale. E i brani de’ “La ragazza del futuro” questo fanno, a questo ci inchiodano, in questo luogo oscuro eppure così intimo ci spingono ad avventurarci; uno specchio per tutte le nostre speranze, per i nostri pudori, per le nostre incertezze, per le nostre alle volte indecifrabili piccolezze e commozioni.
Qual è stata la primissima urgenza che ti ha spinto a scrivere questo disco?
"La ridefinizione del ruolo dell’artista, ma potrei dire della persona, che ha un progetto tra le mani e può farne ciò che vuole, per superare un pudore, che mi sembra anche legittimo, o almeno uno come me ce l’ha di sicuro: a cosa serve fare un disco oggi? Cosa deve dare alla mia carriera? Cosa mi deve portare? E, soprattutto, cosa deve portare al pubblico? In un momento di sensibilità accentuata, un momento in cui sei chiuso, ci vuole molta presunzione nel fare un album, a meno che non trovi un senso vero nel farlo, e in questa indagine l’ho trovato".
E qual è?
“La ragazza del futuro” è un disco che non mette al centro l’autoreferenzialità del mercato discografico, non l’autoreferenzialità di un progetto discografico di lungo corso come il mio, per cercare di uscire dall’idea che le canzoni siano autoreferenziali, ma che possano ritrovare un senso civico, una responsabilità. “La ragazza del futuro” è una canzone con una responsabilità, “Colibrì” è una canzone con una responsabilità, l’album stesso, concepito in questa maniera, con tutte le canzoni unite l’una all’altra da un filo che le tiene insieme perché cerca di recuperare dei sentimenti smarriti che portino un messaggio comune, di collettività, fuori dal disco per chi ascolta, è anche questo un atto di responsabilità o presa di coscienza di un ruolo, che è quello di chi scrive canzoni che ha tantissimo esempi, dai grandi Dalla, De Gregori, Vasco stesso, ad altri grandi autori della musica leggera e pop italiana. Per quale motivo non si dovrebbe più proporre questo modello di musica, questo senso e questo significato alle canzoni? Perché il mercato non ce lo chiede? Non mi sembra una buona tesi".
Quindi pensi che sia quasi un dovere per un artista?
"No, io dico che oggi la mia personale esperienza mi ha portato a dire “Ok, che cos’è un album oggi? A cosa serve? Qual è il mio ruolo oggi?”. Perché se devo fare il tira buoi di un progetto discografico non ne avrei voglia, mi sono chiesto di cosa ho fame, che cos’è che mi farà tirare fuori il massimo della voglia, del desiderio di fare musica, e in questa sfida ho trovato la risposta. E poi non mi è bastato, perché ho pensato che un titolo e un’immagine come quella che mi era venuta, di parlare della familiarità, della gioventù, della leggerezza e anche della sofferenza di una generazione, come si intuisce dal titolo “La ragazza del futuro”, fosse un tema troppo largo, troppo complesso per dire “Ok, ecco il mio disco”".
Ed è in quel momento che hai pensato a “Io vorrei”, il progetto di street art che stai portando avanti in parallelo in alcune periferie italiane?
"Sì, ho cercato di capire come tradurre il senso di un disco in maniera ancora più larga, andando oltre perfino il mercato. E allora sono entrato nell’immaginario della street art, ho incontrato e parlato con un artista siciliano molto bravo, Giulio Rosk, di questo mio progetto e ci siamo subito trovati in una fortissima sinergia legata al fatto che entrambi pensiamo che un multilinguaggio aiuti il nostro intento a raggiungere ancora di più il suo risultato, cioè arrivare fra le braccia della gente, allungare la mano fino a toccarle le persone. Quindi una scintilla, che è una canzone, in un momento in cui il mercato tenta di scorporare gli album, di avvilire gli album, di togliergli il loro significato per farli diventare playlist del buongiorno o della buonanotte, e non conta più nemmeno come ti chiami come artista, sei una playlist e quindi tutte le canzoni di quel tipo serviranno ad un buongiorno; ecco, in questo stato del mercato noi abbiamo cercato di portare la musica oltre questo, unendo più linguaggi. Così è nato il progetto “Io vorrei”, siamo arrivati nelle periferie, dove esistono delle tele libere da dipingere, che sono i muri di questi palazzi, queste barriere coralline di cemento".
È un disco in cui si percepisce la voglia di ragionare sul tuo mestiere, ne “La ragazza del futuro”, nel ritornello, proponi alla protagonista di ballare e cantare, come fosse una soluzione, in mezzo possiamo infilarci anche la street art a questo punto, ma tu credi che l’arte possa in qualche modo salvare? E tu ti senti salvato dalla tua arte?
"Magari l’arte veramente ci salvasse. Però ci può indicare un’alternativa, questo è molto importante. Poi è la mente, è la vita, di una persona, che ha libero arbitrio, che decide; siamo nelle mani di quello che vogliamo, ed è per questo che un album comunque per me diventa sempre un coraggio per certi versi, perché comunque rappresenta precisamente una scelta di vita, altrimenti non lo farei questo mestiere, non lo farei solo per portare avanti un contratto discografico che mi permette di vivere bene, non sarei in grado, non ne sarei capace. Sicuramente l’idea di creare un rapporto di fiducia con il mio pubblico attraverso questa coerenza oggi per me è un valore, un valore reale".
Sei diventato quello che si aspettava di diventare il cantante dei Lunapop?
"Io mi sento più libero di qualunque Cesare avessi mai immaginato, e in questo senso no, non mi sarei mai immaginato di arrivare qui, di avere l’onore di fare dischi come questo e collaborare con artisti con i quali collaboro, con i musicisti con i quali collaboro, non ci sarei mai riuscito a farlo, perché ero troppo giovane per capire quanto larga è la realtà, quanta è profonda la musica e quante possibilità ti può dare. E poi siamo solo all’inizio, perché io ho 41 anni e quindi se questo è l’inizio di un nuovo corso della mia vita professionale penso che ci sarà da ridere e da divertirsi".