AGI - Venerdì 3 dicembre è uscito “Volare”, il nuovo disco di Coez. Il rapper romano con questo nuovo lavoro è come se decidesse di incorniciare questa prima fondamentale parte della propria carriera, come se chiudesse un cerchio, proponendo brani dentro i quali ritroviamo l’essenza di un artista che si è rivelato fondamentale per la storia del pop contemporaneo.
Coez, il rapper cui successo è stato decretato da un pubblico che con il rap, perlomeno quello duro e puro, c’entra poco o niente, quello della rivoluzione indie, in cerca di un modo nuovo, più efficace, più sincero, di declinare l’amore in musica. Si, perché l’amore è un tema fondamentale della sua produzione. È riuscito a sdoganare l’argomento in quello che, dall’esterno, sembrava un club di uomini quasi spaventati dal romanticismo, perduti (molti lo sono ancora) in un labirinto di machismo che alla lunga ci appare anche vagamente plastificato.
Al contrario Coez ha trovato nel proprio sentimentalismo non solo la chiave per il successo, ma proprio quella per far girare al meglio la propria vena creativa, per raccontare se stesso e la propria visione del mondo e delle relazioni umane. E poi, forse punto fondamentale, un modo di fare musica, “poppizzando” il rap o “rappizzando” il pop, è uguale, che ha fatto letteralmente scuola; il mercato odierno infatti, certamente tutte le chart specializzate, è invaso da brani dalle strofe rap e ritornello cantato, non una vera e propria invenzione di Coez ma certamente è lui l’artista che nella discografia moderna di questo semplice e funzionale modo di costruire i pezzi ne ha fatto la propria chiave di svolta, infettando un po' tutti i colleghi, che si occupassero di musica rap o di musica pop.
In “Volare” troviamo il Coez che ha orecchio, quello che percepisce perfettamente la necessità del pubblico di accedere armoniosamente ai pezzi, anche quando spinge sull’acceleratore come in “Wu-Tang”, che è il singolo con il quale Silvano Albanese guarda al suo passato più hardcore; poi se lo coccola con “Come nelle canzoni” che, come ci confermerà nell’intervista, chiude una trilogia amorosa cominciata con “La musica non c’è” e proseguita con “è sempre bello”, fino a “Occhi rossi”, che rappresenta l’intenzione di raffinarsi sempre di più, strizzando l’occhio perfino all’R&B. La musica di Coez è probabilmente la più funzionale chiave di volta per declinare al pubblico ogni singolo particolare della discografia contemporanea.
Questo disco sembra un po' il manifesto di quello che ti sei inventato…
Esatto, si. Infatti un pezzo come “Come nelle canzoni” puoi infilarlo in una trilogia con “La musica non c’è” ed “è sempre bello”, mi sembra che sia quel Coez che adesso conoscono tutti e credo che questo sia ancora uno step in avanti.
Ci sono pezzi che tendono all’R&B…
Tutto il disco tende un po' all’americano, il rap è stato talmente contaminato che un pezzo come “Occhi rossi”, come sound, potrebbe stare in un disco Hip Hop. Io non mi reputo proprio un cantante da “bel canto”, più che altro dico le cose con uno stile mio e una credibilità che poi te le fa arrivare in un certo modo, non sono il cantante classico.
È un concept album sull’amore?
Be, quello tutti i miei dischi…
In questo però sembra che ci siano delle cose delle quali avevi bisogno di liberarti…
Una volta il mio primo manager mi disse: “Tu hai sostituito il nemico immaginario con la figura della donna”, più avanti negli anni invece ho pensato che fosse il contrario: è il rap che ha sostituito la donna, perché nella poesia la musa c’è sempre stata. L’anomalìa è stata più nel rap che ha creato un genere un po' più aggressivo ma con lo stesso meccanismo. Io non so perché il 99% delle canzoni che scrivo parlano di amore, ma lì riesco sempre a scrivere delle cose convincenti. Sul rap è difficile che mi venga voglia di sputare rabbia e veleno, sembra normale alla mia età..
Forse utilizzi il concetto di amore come unità di misura per valutare tutto il resto. Perché dentro il disco ci sono tutti gli aspetti della vita, anche l’amicizia si percepisce forte, nei featuring infatti sembra che tu chieda uno sguardo esterno a quello che comunque sta accadendo a te. Non è quello che vuoi raccontare, è semplicemente quello attraverso il quale racconti tutto il resto…
Si, quando scrivo “Ciò che ci illumina non viene solo dall’alto” è una frase inserita in un contesto in cui parlo di una storia finita con una persona alla quale vuoi bene ugualmente e guai a chi te la tocca, ma non parla solo di amore. L’amore è una scusa per parlare di tanto altro ed è una cosa che nei miei dischi ho sempre visto. Io penso che le canzoni non vadano nemmeno troppo spiegate perché ognuno dentro ci deve trovare il suo, io dico sempre che ci sono delle canzoni che sono un cassetto vuoto per le persone, non gli devo spiegare io cosa c’è dentro, sei tu che devi metterci del tuo.
Ma come stai affrontando questo dilemma sul genere di Coez, che immaginiamo sarà un letimotiv per tutta la tua carriera….?
Nel rap sono visto come uno che fa indie, nell’indie come uno che fa rap. È logico che l’ambiente di appartenenza è più quello del rap, per me fare il pezzo con Neffa è un po' un “life goal”, sono cresciuto con quella musica là; poi il fatto che io voglia fare altro e creare una roba che faccio solo io è un altro discorso, sicuramente nell’ambiente del rap ho un sacco di amici.
Quanto è sottile in questo momento in Italia la linea tra rap e cantautorato? E quanto è “colpa” tua?
Eh io sono uno di quelli che in qualche modo le barriere le ha sfondate a calci. Tanti rapper dopo che io ho fatto il mio percorso di canzoni d’amore ho visto che si sono dati al pop. Io, che si dica o no, ho sdoganato tanto. Nel rap ora vengono concesse delle cose dal pubblico che non voglio dire che prima di me non erano concesse, però l’artista ci andava piano, io invece mi sono preso abbastanza me…a per tutti per cambiare le cose. Posso dirlo o non dirlo, dirlo con spocchia o meno, ma alla fine è andata così
È stato molto complicato, vero?
Ai tempi mi è pesato, ma il rap era una nicchia, adesso non c’è più bisogno che io faccia quelle lotte, anzi viene recepito il contrario, quando faccio un pezzo come “Wu Tang” la gente dice: ma che fai? È cambiato tutto, io non posso fare mai come mi pare ma continuo a farlo perché così sono fatto, se mi stufo di una cosa e percepisco che in quel momento non ho voglia di farla non la faccio. È vero che quando una cosa non viene capita un po' fa male, ma il mio percorso mi insegna che se una cosa non viene capita subito non è detto che non venga capita poi. Intanto le canzoni stanno là, forever, immortali, poi quello che succede succede.
Nel disco troviamo featuring con artisti tipo, appunto, Neffa, Salmo, Massimo Pericolo, Guè, Gemitaiz, Noyz Narcos e perfino i Brokenspeakers, che è il tuo primo collettivo. Non hai pensato a featuring con artisti pop?
Avevo pensato a Tiziano Ferro, gli ho mandato il pezzo ma non l’ha gasato, quindi non l’abbiamo fatto. Non è che nel pop non abbia gente che mi piaccia, però devo dire che nel rap ho proprio un contatto diretto, una sorta di appartenenza, parlo la stessa lingua con tutti quanti.
Da anni intervisto musicisti e sei il primo in assoluto che dice “Ho proposto un featuring ad un artista e non è piaciuto”…
Io l’ho ringraziato subito perché non mi ha fatto perdere tempo. Io gli ho mandato una mail, ha sentito e mi ha scritto “Molto figo, ma non è quello che mi aspettavo”. Io ho risposto “Guarda bro, sei un grandissimo, grazie per non avermi tenuto appeso”, perché poi è quella la cosa che a me prende male, quello è brutto. Alla fine non ci vedo niente di male
Assolutamente, anzi è assurdo dire che dietro ad un featuring ci sia sempre chissà quale intesa artistica, mentre si capisce benissimo che si tratta di accordi discografici…
I miei nascono tutti così, contatto persone che in qualche modo conosco. Nel mondo del rap ci trovo molta onestà in questo…
A te è capitato di dire no a qualcuno?
A me si, qualche volta è capitato. Quando uno fa una domanda ci si deve aspettare anche il no, come me lo aspetto io, perché sennò non esisterebbe la domanda.
Cos’è che tu vorresti che provasse l’ascoltatore una volta finito il disco?
“Che bomba!” (e ride). Io con i miei dischi non voglio salvare la vita alle persone, penso che ogni artista ha un disco meglio riuscito o peggio riuscito, ma poi è il pubblico che decreta , l’importante è dare tutto.
Hai deciso di presentare questo album con tour nei piccoli club…
C’era una gran voglia da parte mia di tornare a suonare nei posti piccoli, nei clubbini, io il mio tour nei palazzetti l’ho fatto, non ho bisogno di dire che sono un artista da palazzetto. Però ho pensato di fare 40 date invece di 12, per poter fare lavorare tutta la mia band, tutto il mio entourage, è un modo per rimettere nell’ambiente energia positiva e soldi, perché comunque è uscito devastato da questi due anni. Mi sembrava una cosa che accontentava tutti quanti, poi quando ci sarà da fare eventi giganti saremo pronti per farli, ma la cosa importante oggi era la voglia di far girare le economie e le energie. Con “è sempre bello” abbiamo fatto 14 date nei palazzetti, la roba del clubbino mi mancava, poi non sarà il tour vero e proprio, è solo un anticipo.
Ti sei mai chiesto come mai la tua musica piace così tanto?
Perché sono forte, il più forte di tutti (ridendo)