Il segreto dei Maneskin, dalle strade di Roma alle luci di Las Vegas
AGI - L’annuncio è giunto martedì sera dalla viva voce di Jimmy Fallon, protagonista indiscusso dei Late Show americani post Letterman, padrone di casa del “Tonight Show”, tra gli intrattenitori più geniali e seguiti del mondo: i Maneskin il 6 novembre apriranno la data di Las Vegas dei Rolling Stones.
Nel presentarli Fallon, mentre mostra il vinile di “Teatro d’Ira – vol.1”, il disco uscito all’indomani della vittoria al Festival di Sanremo, che sembrava il lieto fine della loro favola invece altro non era che l’inizio, snocciola i numeri raccolti dalla band romana negli ultimi mesi.
Cifre a nove zeri, come quelle dei veri big da classifica Global di Spotify, per intenderci, quella che loro hanno dominato per mesi mettendosi sotto, ben più sotto in termini di stream, gente, tra gli altri, come Olivia Rodrigo, Ed Sheeran e Lil Nas X.
Inutile far finta che il pensiero non corra veloce al passo di gambero fino al 9 febbraio del 1964, quando un’altra band europea, inglese per la precisione, di Liverpool per chi non avesse già capito il riferimento, si esibiva all’Ed Sullivan Show, certificando il proprio successo mondiale.
Non che i Maneskin possano essere paragonati ai Beatles, poco carino poi giusto pochi giorni prima che aprano il concerto dei Rolling Stones, ma sta di fatto che al momento i Beatles su Spotify, che possiamo tranquillamente considerare la piattaforma chiave del mercato discografico mondiale, riscuotono 25 milioni di ascolti mensili, cinque in più dei suddetti Rolling Stones, ma molti meno dei Maneskin, che viaggiano sui 38.
Sono in molti nelle ultime ore a cercare di dare una spiegazione al successo della band romana, come se fosse un indovinello che merita una forte frizione delle meningi: perché negli Stati Uniti vanno così forte? Proprio loro che il rock lo esportano a grandi manciate verso le nostre parti, alimentando senza sosta quell’intramontabile sogno a stelle e strisce.
Intanto ci sarebbe da partire dall’assunto che il sound classic rock, al quale evidentemente, con passione ed energia, i Menskin si ispirano, non è più un prodotto così vendibile come nel passato, non è più il suono scelto dai ragazzi per rompere in qualche modo le liturgie del pop commerciale, non è più il linguaggio dei giovani in ribellione; sostituito, già da moltissimi anni, dal rap e tutte le sue derivazioni.
Allora, partendo da questo presupposto, non è del tutto errato pensare che i Maneskin in realtà propongono davvero qualcosa di nuovo, qualcosa che la fetta più grossa e, soprattutto, attiva del mercato discografico, composta soprattutto da giovanissimi cui connotati dei propri gusti si sono foggiati su ritmi smaccatamente urban, ha sentito parlare solo nei documentari, tra quello sulla seconda guerra mondiale e quello sui Chicago Bulls di Michael Jordan, due accadimenti nella loro visione del mondo forse equamente distanti nella memoria della storia.
Ma è ingeneroso pensare che i Maneskin siano il semplice risultato della loro proposta, come se chiunque, sulla scia della partecipazione ad un talent (nemmeno vinto), automaticamente possa farsi valere all’Eurovision Song Contest e, letteralmente, sfondare il mercato mondiale, come se il rock d’ispirazione vintage lo facessero soltanto loro, come se non esistessero centinaia di migliaia di band che ogni sera affollano i palinsesti dei club di tutto il mondo proponendo lo stesso prodotto e che non riuscirebbero nemmeno ad immaginarselo il sogno che stanno vivendo oggi i Maneskin.
Come se lo stesso show che li ha lanciati, la versione italiana di X-Factor, non avesse provato a riproporre la ricetta, vagamente modificata, piazzando davanti alle telecamere progetti come Red Bricks Foundation, Little Pieces Of Marmelade e, quest’anno, i Mutonia; non si sa mai dovesse ripetersi il miracolo.
yaaaaas @FallonTonight @jimmyfallon pic.twitter.com/f39eIhXjy7
— MåneskinOfficial (@thisismaneskin) October 27, 2021
I Maneskin, oltre ad essere performer eccezionali, avvolti da quell’aura magnetica in dote solo ai predestinati, sono stati capaci (o sono capitati al posto giusto al momento giusto, poco cambia) di individuare quel buco nella storia contemporanea del rock che nemmeno le superstar alle quali si ispirano (quelle rimaste ancora in vita ovviamente), riescono, fisiologicamente, per raggiunti limiti di età, a colmare.
Nella loro trasgressione si può leggere quella di un’intera generazione di coetanei, la loro musica ne è traduzione praticamente letterale, la loro comunicazione è efficace ed immediata, sono belli e accattivanti, si vivono il loro sogno con un’energia contagiosa, un sogno dalla trama appassionante, dalle strade del centro di Roma alle luci stroboscopiche dell’America dei grandi, il tetto del mondo, sempre con gli strumenti in mano, a duettare con Iggy Pop, tenuti sotto controllo da Steven Van Zandt, meglio conosciuto come Little Steven, il chitarrista di Bruce Springsteen, fermati nei camerini degli studi della NBC da un’imbarazzata ed emozionata Drew Barrymore.
“Non fanno niente di nuovo” si legge a stampatello nelle bacheche social, paradossalmente più italiane che americane, ma la domanda, appunto, è: per chi? Non di certo per chi, per esempio, è venuto al mondo a nuovo millennio già inaugurato, quindi totalmente all’ombra di un mercato impantanato in un percorso molto lungo, complesso e a tratti mortificante, che l’ha portato dal Compact Disc al digitale, una parentesi di tempo in cui la musica, specie in Italia, viveva e moriva in televisione, snaturata della propria essenza a favore di telecamera, diventata puro intrattenimento.
I Maneskin allora, in questo senso, rappresentano il ponte per transitare da una sponda all’altra del fiume, da quell’era musicale morbosamente vuota a quella di adesso, fluida, veloce e qualitativamente più esigente.
Lo stupore relativo al loro essere italiani è una questione squisitamente italiana, nessuno negli Stati Uniti si scompone all’idea della provenienza di Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi ed Ethan Torchio, è un dato, nulla di più, essendo terra da sempre abituata ad accogliere con entusiasmo progetti musicali provenienti da culture diverse, più in generale essendo terra da sempre abituata ad inglobare con una certa scioltezza, famelicamente, le culture diverse; a questo proposito basti pensare al successo con il quale ultimamente gli Stati Uniti stanno fagocitando il K-Pop sudcoreano.
Jimmy announces @thisismaneskin is opening for @RollingStones November 6th! #FallonTonight pic.twitter.com/yNZG0DrEEx
— The Tonight Show (@FallonTonight) October 27, 2021
I Maneskin sono giovani e preparati, appartengono ad una generazione che non conosce confini temporali, linguistici e, men che meno, geografici, pensarli come qualcosa di nostro, di rappresentativo del nostro modo di fare, come se fosse la nazionale di calcio, sarebbe inutile e fuorviante; quello che stanno facendo (e ancora certamente, gli auguriamo, faranno) i Maneskin non è un obiettivo raggiungibile da molti altri progetti musicali, in Italia, su due piedi ci vengono in mente giusto Salmo e Sfera Ebbasta, difatti gli altri due artisti che quando escono conquistano immediatamente visibilità mondiale nella Global di Spotify; perché in un mondo della musica senza più muri l’unica lingua è il sound e questi sono due progetti altrettanto competitivi. Inutile esaltarci per i successi oltreoceano de Il Volo, tre ragazzi che esportano quello che già molto prima di loro aveva esportato Andrea Bocelli, e che possiamo considerare specialità della casa.
Più calzante forse il successo internazionale di Eros Ramazzotti o Laura Pausini, anche loro capaci di giocare lo stesso campionato di chi da quel lato dell’Atlantico pratica lo stesso sport, quel pop commerciale e melodico tanto in voga nei primi quindici anni del nuovo secolo; ma, a voler essere puntigliosi, entrambi hanno dovuto transitare dal Sudamerica per guadagnarsi credibilità anche più a nord.
In una scena attuale invece talmente variopinta, in un campo di gioco così complesso e agguerrito come quello del rock, ciò che i Maneskin hanno fatto e rappresentano, risulta davvero unico per la nostra storia. Anche se, ripetiamo, inutile infilzarli con il nostro tricolore, la band romana vince perché in grado di rimanere fedele a se stessa, di conservare con divertimento una personalità contagiante, perché all’altezza della favola che sta vivendo.