AGI - Settimana particolarmente impegnativa. Zucchero ci fa leccare i baffi con il primo brano del suo disco di cover; esce il disco di Ultimo e, come disco di Ultimo, non delude. Achille Lauro propone il suo ennesimo bluff, Alessandra Amoroso pubblica un disco dal titolo “Tutto accade”, ma poi non accade niente. Ritorna il genietto tha Supreme con un singolo drill da far tremare le pareti, così come la PFM, che produce un disco di una bellezza antica ed extraterrestre. Tante le donne che hanno prodotto musica eccellente: Joan Thiele, Hu, Giorgieness, Beba, Shari. Chicca della settimana certamente il duetto tra Emma Nolde e Generic Animal.
Zucchero – “Follow You Follow Me”
Questa cover dei Genesis anticipa l’uscita del nuovo progetto di Zucchero, un intero album in cui il cantautore più realisticamente internazionale del nostro panorama in termini di credibilità musicale rielabora pezzi altrui. Se apparentemente un disco di cover potrebbe apparire come il più semplice dei modi per far sentire la presenza al mercato discografico, in realtà si tratta di una vera e propria conquista; la storia, anche recente, è costellata di album di cover per i quali andrebbe inventato un reato ad hoc che sta a metà strada tra l’omicidio e gli atti osceni in luogo pubblico; questo di Zucchero, questa sua versione di “Follow You Follow Me” ce lo dimostra, sarà un’altra cosa, anzi è già un’altra cosa. E non è solo questione di fare “proprio” un brano, ma di rielaborarlo a tal punto da considerarla una “cosa” nuova. Ecco, la versione di Zucchero di “Follow You Follow Me” non è solo una “cosa” nuova ma forse addirittura anche una “cosa” più bella della “cosa” già bella che riprende.
Ultimo – “Solo”
Ultimo è un bravo cantautore, perché siamo convinti che un cantautore scarso prima o poi viene sbugiardato dal suo stesso pubblico; puoi fregarne tanti insomma, ma non puoi fregarli per sempre. Se i concerti di Ultimo, per esempio, sono un rito collettivo di giovinastri alle soglie dei 20, che in quelle parole sfogano lacrimevolmente il proprio sentimentalismo ballerino, com’è giusto e bello che sia per chi vive alla soglia dei 20 quando va ad un concerto, vuol dire che quelle parole hanno un determinato senso; e non saremo certo noi a fare la parte di chi si affaccia alla finestra nel cuore della notte per chiedere ai ragazzi del bar sotto di fare piano “che chiamo i Carabinieri, qui c’è gente che lavora!”.
E non solo perché nell’intimo crediamo, tutto sommato anche con un certo senso di vergogna, che noi staremo per tutta la vita a sbevicchiare brillocci sotto le finestre di chi dorme, ma perché non siamo mai stati convinti che la musica sia una cosa sola, è il risultato ad essere sempre lo stesso, quel senso di pienezza quando un cantautore suggerisce le parole che a noi proprio non verrebbero, o quando un accordo, chissà come, chissà perché, ti strappa un brivido che ti taglia la schiena; è sempre lo stesso il risultato, sia che tu ascolti i Pink Floyd che Tommaso Paradiso, prende solo strade differenti, si decodifica soltanto, per poter entrare, ma poi alla fine tutti là ci ritroviamo.
Ecco, Ultimo per qualcuno, volgarmente lo chiamano target, rappresenta qualcosa di estremamente profondo, e al suddetto target poco importa questa continua, ossessiva, a tratti tracotante, esternazione di “Io” che si respira in tutta la produzione del cantautore romano, perché in quell’”Io” poi finisce per riconoscersi. Ultimo stesso lo preannuncia come un disco personale, “Come postare sui social una foto completamente nudi” scrive; tanto personale da risultare quasi intimo, ma più intimo del tipo “ti leggo le conversazioni su Whatsapp”, “ti presento mia cugina”, “ti preparo le mie famose lasagne al pesto”, più che “ti faccio entrare nel mio profondo”, “ti regalo un pezzo della mia anima”, cioè quell’intimità che ad un quasi quarantenne potrebbe anche sembrare pleonastica, ma che invece rappresenta il mondo per chi ancora non ne sa granché del mondo. I brani di questo “Solo” sono tutti equilibrati e ben congeniati. Tutti. Nessuno escluso. Tant’è che questo equilibrio rende tutto abbastanza piatto, a tal punto che finito il disco fatichiamo a riconoscere e segnalare (e anche ricordare) un brano in particolare, ma per qualcuno oggi è praticamente capodanno e noi, pur non festeggiando, porgiamo i nostri più cordiali auguri.
Achille Lauro – “Io e te”
Torni a casa stanco, trovi la casa illuminata da una serie di candele, un lounge-jazz di sottofondo, il camino acceso, lei vestita elegante, eccitante nella sua gonna stretta, ha un bicchiere di vino per mano, la bottiglia buona, ne riconosci la fragranza anche a distanza, uno è per lei, l’altro per te, ma tu sei già ubriaco dal suo sguardo, dall’atmosfera, dalla tavola apparecchiata per i grandi eventi, ma l’unico grande evento stasera è la passione che ti lega a quella donna, che sei ogni giorno felice di aver scelto, ma in quel momento, hai l’impressione, un po' di più. Allora ti siedi a tavola, affamato, ma quando la cloche, abilmente centrata sul tavolo, si alza, sotto ci trovi un pacco di bastoncini Findus.
Ecco, le ballad di Achille Lauro sono esattamente così: fumose, ascolti una prima volta e ti appaiono molto atmosferiche, ascolti una seconda perché qualcosa non ti quadra e scopri che chi canta non sta dicendo nulla, controlli meglio e scopri che per scrivere il testo di questi tre minuti di brano si sono messi insieme in undici. Undici. Dunque, abbiamo fatto il conto per curiosità, per gioco, si intende, la canzone dura 182 secondi, che divisi per 11 fanno 16 secondi e spicci a testa. Siamo sempre stati intimamente (e non) convinti che Achille Lauro fosse un bluff, questa “Io e te”, colonna sonora del prossimo film del bravissimo Fabio Mollo, non sarà certo la canzone che ci farà cambiare idea.
Alessandra Amoroso – “Tutto accade”
“Tutto accade” sarebbe anche un’ottima prospettiva se poi qualcosa accadesse veramente. Ma in questo disco, annunciato in pompa magna come quello della rinascita, della rivoluzione, del cambiamento, manco la Amoroso dovesse candidarsi a sindaco, in realtà non c’è una virgola fuori posto rispetto a quello che la Amoroso ha prodotto negli ultimi tredici anni, questa sorta di musica da spot, pop fotocopia di una fotocopia di una fotocopia della stessa hit dagli intenti romantici e noiosi che ha invaso impietosa le nostre vite nei primi dieci anni del nuovo millennio.
Non dubitiamo che lei ci creda fortissimamente in quello che fa, e perché non dovrebbe? Ha pubblico, seguito da parte delle radio, sui social e multiple attenzioni da parte di una certa stampa specializzata; fa benissimo. Ma poi alla fine conta quello che succede in un disco, nella narrazione che un artista decide di proporre, e in questo “Tutto accade” non viene raccontato niente che non ci sia già stato raccontato mille volte, in mille altre canzoni, dalla stessa Amoroso così come da una dinastia pop che, faticosamente, forse, il pubblico sta a ben ragione mandando in pensione.
Forse la domanda da porsi è: esiste un universo artistico dentro la Amoroso che vada oltre l’efficace miscela tra intonazione e partecipazione ad un talent molto popolare? A nostro parere no, a nostro parere, specie in tempi di democratizzazione violenta dell’industria, serve molto, ma molto, di più per ritagliarsi uno spazio che abbia un senso. Ci siamo posti questa domanda anche in occasione dell’uscita dell’ultimo singolo di Sangiovanni, finalista allo stesso talent che ha reso famosa Alessandra Amoroso: se non avesse partecipato ad “Amici di Maria De Filippi” noi oggi staremmo qui a parlare del suo disco? Ecco, il nostro parere è che non ci sarebbe nemmeno stato un disco. Ma la situazione è questa, ci siamo fatti imbambolare dalla musica in tv per una decina d’anni e ora ci tocca pagare il conto.
Tha Supreme – “m%n”
Siamo tutti cavie di tha Supreme, in qualche modo questo genietto ci ha legati a lui illuminando gli angoli più nascosti di un mondo che si fa fatica a comprendere a pieno, avendo un’annata che ormai, col tempo che scorre così veloce, risulta quasi preistorica. Eppure lui rende tutto semplice, anche l’amore che ci scoppia in petto per la drill ascoltando questa “m%n”, ultimo prodotto di un artista che forte della propria giovinezza mastica e risputa tutto ciò che gli pare e piace, scheggia impazzita della scena rap con la capacità di accentrare in maniera così coinvolgente tutto sulla propria visione. “m%n” è l’ennesimo lampo di raffinata genialità di un artista tanto giovane, giovanissimo diremmo, quanto totalmente centrato nella propria idea di musica e di arte. Bravo, no, di più, imprendibile.
Ron – “Sono un figlio”
È sempre una boccata d’aria, nel bel mezzo di questo incrocio asfissiante ad alta velocità che è diventata la musica, ascoltare una voce così intensa come quella di Ron. In questo brano si rimette nella posizione del figlio che guarda e racconta ammirato l’amore dei propri genitori, forse con un pizzico di troppo di nostalgia, che è un niente che diventa quasi presunzione, come se il romanticismo ai tempi dei social abbia meno valore rispetto a quello ai tempi della guerra; ognuno in fondo c’ha i tempi e il romanticismo che gli spettano. La canzone in effetti sfiora l’effetto passeggiata col nonno al paese, interessante e commovente per i primi dieci minuti, poi ti vien voglia di morire sotterrato da tutta la tecnologia ultramoderna possibile.
PFM – “Ho sognato pecore elettriche”
Non per fare i nostalgici, anche perché nel 1984, mentre venivamo al mondo, la Premiata Forneria Marconi pubblicava l’undicesimo disco, ma si tratta di un progetto come non ne esistono più; così non è che stupisca questo granchè il fatto che questo è un disco che suona come i dischi di oggi, in assenza di mestiere e artigianato musicale reale, non suonano più. Quanta delicatezza, quanta precisione, che gusto nel mettere insieme un accordo dopo l’altro; la PFM ci dimostra che il futuro altro non è che un concetto che niente ha a che fare con il tempo, e in questo universo felicemente distopico Franz Di Cioccio e compagnia sono bambini dinanzi ad una bellezza che comunque per mettere in musica serve una mano, una sensibilità, che sono fuori dal comune. Attenzione, non è sempre necessariamente così illuminato il rock progressive, sono loro a renderlo eterno davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie.
Michele Bravi – “Cronaca di un tempo incerto”
Michele Bravi arricchisce il suo “La geografia del buio” con un nuovo brano, questa “Cronaca di un tempo incerto” ci dimostra quanto sia maturato quel ragazzino di X-Factor che sembrava potesse scalare giusto le classifiche dell’universo della Melevisione. Nei brani di Bravi invece si sente vivido un vissuto, un pensiero, un’anima che indaga poeticamente ogni spigolo di mondo che si trova davanti e poi lo mette in musica. Ok, ancora ci sono delle ingenuità da limare, specie per soddisfare tutti quei cannibali di unpolitically correct là fuori, ma c’è sostanza, materiale umano, dietro a queste canzoni, che magari non sono per ogni tempo ma sono certamente per ogni persona.
Federico Rossi feat. Ana Mena – “Sol Y Mar”
Ok, non è corretto passare per ciò che non si è, per cui ammettiamo candidamente di aver pensato che questo duetto fosse stato concepito esclusivamente per permetterci di massacrarlo, per ricordare la totale inconsistenza di Federico Rossi come artista, anche quando viaggiava spedito col doppione Benji nel duo Benji&Fede, un prodotto buono giusto come ultimo rigurgito di Cioè. Eravamo pronti a scrivere che la funzione di Ana Mena nella nostra scena pop fosse, per gli amanti della musica fatta come si deve, quello che il bollino rosso è per i bambini davanti alla tv, una segnalazione, un invito a cambiare canale per trovare un intrattenimento più adeguato.
O, che so, un subdolo piano della Spagna per sfinirci dall’interno e, una volta indeboliti a colpi di reggeaton, marciare su Roma in scioltezza. Ci immaginavamo già una realtà post apocalittica in cui Rocco Hunt e Fred De Palma vengono marchiati a vita come traditori della patria e noi, nascosti in seminterrati polverosi che ascoltiamo di nascosto gli Smiths, sperando di non essere beccati dalle guardie spagnole, pronte a torturarci facendoci ingurgitare caraffe di rum scadente. E invece la canzoncina è molto garbata, un duetto divertente e piacevole da ascoltare. Y ahora deja de apuntarme con esa pistola.
Mecna e CoCo – “Bromance”
Avevamo già espresso qualche perplessità riguardo questo progetto, non perché Mecna e CoCo non ci piacciano, anzi, sono tra i più interessanti rapper della scena e la loro intenzione di produrre un intero disco assieme ci sembrava brillante. Poi è chiaro che tutto va tradotto in musica e l’album manca di spunti, di guizzi, si fatica a restare concentrati sui brani, tutti ben architettati ma troppo piatti. A sbrilluccicare in un disco che forse musicalmente avrebbe avuto bisogno di qualche colore in più, “Amici”, traccia in cui i due incrociano le rime per raccontare il loro rapporto. Molto bella, molto onesta, ma non basta.
Briga feat. Gemitaiz e Il Tre – “Non mi regolo”
Tra le sorprese di questa settimana c’è certamente questo nuovo brano, “Non mi regolo”. Sorpresa perché due su tre dei rapper impegnati nella progettazione del suddetto brano non è che ci abbiano mai smontato le mascelle dallo stupore, anzi, Briga è un po' scomparso dai radar dei giri grossi della musica italiana già da qualche anno, Il Tre invece l’abbiamo sempre trovato un po' troppo sempliciotto in un gioco, il rap, che permette meravigliosi voli pindarici con le parole; quelli che propone regolarmente Gemitaiz, che è un fuoriclasse assoluto. Ma la musica è un po' come la cucina gourmet, non sai mai cosa può venir fuori da un abbinamento, anche azzardato; questo pezzo infatti funziona che è una meraviglia, strizza l’occhio alla parte buona della trap, si evince chiaramente quanto il trio si sia divertito a mischiare le proprie grandi differenze e il risultato è molto intrigante.
Joan Thiele – “Atto III – L’Errore”
Tutto adorabile, dal cantato un po' rauco, quasi accennato, alla sensualità delle musiche, ipnotizzanti nel loro comunque essere estremamente accessibili, come un’opera di street art che ci fulmina mentre camminiamo in città, che ferma il tempo, che zittisce il traffico, che ci spedisce altrove, alla ricerca di cosa nemmeno sappiamo. Joan Thiele è una delle cantautrici più innovative che abbiamo in questa Italia che tanto fatica a trovare il binario giusto per rinnovarsi, per andare oltre il già sentito, forse perché il già sentito ci rassicura, o forse perché siamo irrimediabilmente pigri. Anche in questi due brani ciò che si intende dire viene fuori in maniera bella diretta, senza artifici, senza giri di parole, senza scampo.
Giorgieness – “Mostri”
Le movenze musicali eteree di Giorgieness sono uniche nella nostra scena pop, ma lei, non contenta, ci piazza dentro sempre contenuti solidi. Come stavolta, che affonda le mani nella melma della nostra bestialità, quella che ognuno di noi si porta in qualche modo a spasso giorno dopo giorno e si alimenta a nostra insaputa sotto la pelle. Quella mostruosità, appunto, che ci rende in qualche modo tutti uguali, tutti pari, tutti equamente armati, incapaci di distinguere l’attacco dalla difesa, ritrovandoci dunque a fare e subire robe atroci, che poi uno giustamente si chiede: “Come fai quello che mi fai?”, “Perché siamo mostri, siamo rivali, siamo soli e siamo uguali”. Unica spiegazione plausibile. Giorgieness riesce a mantenere una distanza sospesa dal brano, riuscendo a stare dentro e fuori in una sorta di freddezza sofferente. Grande brano, grande interpretazione.
Beba – “Crisalide”
Gran bel disco per quella che è ormai una delle realtà urban al femminile più riconosciute e solide e significative della scena italiana. Si, perché esistono le rapper donne, Madame non è un caso unico, esistono e quando hanno un microfono in mano non le mandano a dire, fanno i buchi nei muri, volano schiaffoni seri verso questo mondo ancora evidentemente a trazione maschile.
E del rap al femminile questo “Crisalide” potrebbe rappresentarne il manifesto, non solo perché la tematica ritorna molto forte in brani come “Bambola” o “Lesbo chic” (che tra l’altro è una delle pochissime cose buone realizzate da Myss Keta), non solo perché alla fine dell’ascolto del disco, se si è persone appena appena decenti, si capisce qualcosa in più di quell’universo che sta dal lato opposto della città rispetto a quello maschile, inevitabilmente e meravigliosamente, intendiamoci; ma soprattutto perché, allargando lo zoom, prendendo distanza da questa battaglia femminista che però, c’è da dire, è una delle poche volte che troviamo chiara, efficace e non stucchevole, le canzoni sono tutte delle buone canzoni.
Certo, forse sarebbe stato meglio far marinare certi brani ancora un po' prima di proporli, in certi punti si nota forte una vaga immaturità, ma sulla bilancia pesa decisamente di più quella parte così irruenta, quella voglia di vomitare tutto quello che c’è dentro, di farcela, di arrivare al pubblico con un’energia del tutto diversa da quella dei maschietti della scena, ma non per questo minore. Anzi.
Hu – “Millemila”
Le notevoli capacità interpretative di Hu, esplodono in questo racconto in cui il ritmo andante non tradisce la dolcezza dell’omaggio all’incalcolabilità dei nostri sentimenti. Brava.
Shari – “Follia”
Voce dalla bellezza calda, delirante, lamentosa, graffiata, questa Shari, che Salmo prima porta con sé nel suo “Flop”, affidandole il ruolo femminile ne’ “L’angelo caduto” e al quale poi scrive e produce questo brano, è ipnotizzante. Lei se la canta su un beat che richiama fortemente alle tinte folli, che parte, accelera, si ferma, esplode. Un gran bel lavoro.
Giuse The Lizia – “Magari poi ti passa”
Tragicommedia sulle incongruenze della separazione, ben fatta, ben scritta, ben calibrata. Il rap suonato, scanzonato, volutamente teen di Giuse The Lizia bilancia la seriosità con la quale la scena, sia pop che urban, italiana si tratta. I suoi brani sono sempre un piacere, un bicchiere d’acqua fresca, la storia raccontata da un amico al bancone del bar, con il quale poi brindi facendo spallucce e mostrando un sorriso.
Emma Nolde feat. Generic Animal – “Un mazzo di chiavi, un ombrello, lì in mezzo”
Ritratto di un rapporto in crisi, così nostalgico, così autentico, così tangibile, così delicato. I due protagonisti sono come anime che guardano dall’esterno il loro amore defunto, la storia filtrata dalle rotture di quella vita quotidiana che li ha evidentemente separati. Un cantato struggente che mostra una sorta di meravigliosa incertezza, come quando ci si ritrova in una situazione nella quale si è obbligati a dire qualcosa ma non si sa bene cosa. Un brano favoloso da parte di due dei più interessanti artisti della scena musicale (tutta) italiana. Eccellente.
P L Z – “Mega”
Viaggio in una Milano elettronica, fumosa, notturna, sotterranea, una città dentro la città, non priva delle proprie regole, delle proprie nostalgie, della propria poesia. Milano, nel bene e nel male, che piaccia o meno (a noi meno, per dire), è questa: un micromondo che respinge in scioltezza chi non lo capisce, chi non lo accetta, chi non si adegua, e i P L Z, duo mascherato, anonimo, dipinge questo scenario come meglio non si potrebbe, inserendo lampi di cantautorato impegnato che aiutano a mettere a fuoco ciò che il sound tech già esprime senza mezzi termini. Chi riesce a sintonizzarsi sulle loro frequenze, complesse proprio perché particolarmente valide, scopre un tesoro di inestimabile valore.