AGI - Si intitola “è già domani” il nuovo disco dei Fast Animals and Slow Kids, abbreviato in Fask dai loro fans, protagonisti degli ultimi dieci anni della nostra musica, sempre in bilico tra nuovo cantautorato indie e rock melodico, di contenuto. In prima linea soprattutto quando c’era da rivoltare la discografia italiana come un calzino, rimasta tristemente imbrigliata, appunto fino a una decina di anni fa, tra ragazzini senza cognome partoriti dai talent e vecchie glorie anni ’90 in evidente declino di ispirazione.
Poi ad un certo punto arrivano, tra gli altri, i Fask, che fanno ballare, saltare, ancheggiare, pogare e urlare senza lasciarsi mai andare a schitarrate inutilmente violente, che si accordano perfettamente in questa nuova sinfonia di linguaggio che lega i giovani alla musica, senza mai diventare figurine rockeggianti ma, anzi al contrario, portandosi sempre dietro quella meravigliosa puzza di live club di provincia, quei chilometri in furgone su e giù per l’Italia, a guadagnarsi il pubblico palco dopo palco.
Ma, soprattutto, i Fask che dicono qualcosa e vengono capiti, seguiti, come in un matrimonio funzionante, nella gioia e nel dolore. “è già domani” mette enormemente in risalto questo dialogo costante tra la band perugina e l’ascoltatore, la voglia di urlarsi in faccia i brani, l’autorialità mai fine a se stessa, l’onestà intellettuale e musicale, la volontà di rappresentare una voce pulita, essenziale, nel meccanismo discografico ingolfato da quell’insopportabile flusso incessante dei social. Sono questi gli elementi che esplodono in tutti i singoli pezzi di un album imperdibile.
È un disco molto particolare considerato il periodo…
“Intanto è un disco che sta uscendo, quindi siamo già soddisfatti, poi potevano esserci momenti più fiorenti, sicuramente, però, dai, bisogna guardare in faccia la realtà e dire che questa è la cosa più bella che potesse succedere in un contesto come quello attuale”
Mi sembra un disco che non tradisce la vostra vena rock ma lo trovo ancor più cantautorale, frutto di un ragionamento ben preciso o di una maturazione naturale…
“Più la seconda, noi difficilmente ragioniamo in maniera così cerebrale. Ragioniamo su come suonerà, perché è qualcosa già di più proiettabile, perché comunque di mezzo c’è la tecnica e il sapere riguardo la registrazione di dischi; per il resto non ci facciamo troppe domande. Noi scriviamo un pezzo e ci chiediamo se quel pezzo è rappresentativo di noi in quel determinato momento storico, cerchiamo anche di limitare pensieri ulteriori, perché ci si perde in quei pensieri lì. Cerchiamo di fare semplicemente i pezzi che ci piacciono e che avremmo voluto ascoltare e cerchiamo di farlo nella maniera più pura e istintiva e bella, secondo il nostro giudizio, possibile”
In una vostra intervista di qualche mese fa ho letto questa cosa molto interessante detta da Aimone: “Chi ascolta i Fask è uno che scava”…mi chiedevo a questo punto cosa avete sotterrato sotto “è già domani”
“C’è tantissimo, sono piuttosto convinto che il pubblico dei Fask è un pubblico cosciente, si pone delle domande rispetto al contenuto, rispetto alle parole, non le prende così per prenderle, ci ragiona, le fa proprie, e questa per noi è una cosa molto bella, perché automaticamente puoi permetterti di dire le robe in un modo più complesso, con più strati, non c’è bisogno di dire le cose in maniera semplice per non essere fraintesi, puoi dire le cose come vuoi te e per noi è una grande libertà. Poi c’è un sommerso gigantesco della nostra vita, c’è sempre un sommerso assolutamente enorme dietro i nostri dischi, perché prendono forma e si sviluppano all’interno delle nostre emozioni. Ci sono dei pezzi che nascondono dei momenti e delle situazioni che noi abbiamo ben chiari in testa, ma non è questo l’importante, perché ad un certo punto ci si deve fermare anche in questo, perché il disco si definisce nella percezione di chi poi lo sta ascoltando”
Ed è bello poi capire cosa accade a chi ascolta, no?
“È una delle cose più fighe, noi abbiamo delle interpretazioni di nostre canzoni che nel corso del tempo sono cambiate radicalmente, ci dicevano delle cose che apparentemente erano opposte, ma è bello così perché un pezzo è qualcosa che ti togli e metti tra te e il pubblico, non è più tuo, diventa fonte di dialogo”
Nel disco ci sono due collaborazioni eccellenti, non solo perché sono i nomi ad essere eccellenti ma anche perché non siete una band particolarmente avvezza al featuring. La prima è con Willie Peyote, con il quale duettate, la seconda con Lodo Guenzi, che invece figura solo come autore…
“La collaborazione con Lodo si sviluppa su un balcone, nella zona nord-ovest di Milano, dalle parti di viale Certosa, noi stavamo lì a registrare il disco e lui era da quelle parti. Gli ho scritto ‘Lodo, vediamoci, facciamoci una chiacchiera’, gli ho fatto sentire il pezzo, lui mi ha dato dei suggerimenti e alla fine lui mi ha aiutato a chiarire alcune frasi rispetto a quello che io avevo in testa. Comunque entrambe le collaborazioni derivano principalmente dal rapporto di amicizia che ci lega a loro, sono persone con cui noi parliamo di musica, ci scriviamo, ci confrontiamo, delle quali ci fidiamo, dietro c’è un background, oltreché musicale, umano. Ed è forse questa la specialità di questi nostri featuring rispetto a quelli che si sentono in giro, noi avevamo voglia di fare qualcosa con qualcuno ma ci siamo imposti di farlo con qualcuno che ci capisse, qualcuno che potesse aiutare il nostro percorso artistico e non il nostro posizionamento discografico, di quello non ce ne frega un c…o. Sono collaborazioni più belle, più spontanee, più fisiologiche, con gli amici, un approccio più puro alla musica…”
Con questo disco voi festeggiate i dieci anni della band, ma come si colloca nella vostra storia?
“Come l’ultimo disco. Da dentro non ti accorgi che sono passati dieci anni, siamo sempre gli stessi quattro st…i. Le dinamiche sono di fondo sempre le stesse, la sala prove è cambiata, adesso è più grande, però tendenzialmente il rapporto tra di noi è lo stesso, perché siamo quattro amici che hanno fatto il percorso assieme e che della loro passione più grande ne hanno fatto un mestiere. Ma siamo sempre rimasti quella roba là, con quell’unione, quel senso per cui ogni singola cosa deve essere definita da tutti e quattro. Noi quindi andiamo avanti senza pensare ‘questo è il disco che facciamo dopo dieci anni che stiamo insieme’, noi suoniamo insieme esattamente come suonavamo insieme alle superiori”
Il vostro si conferma un lavoro da band, la percezione anche ascoltando il disco è questa…
“Per noi è drammatico eh…il percorso che ci porta a un pezzo è frutto di una serie di insulti potenti, noi ce la sudiamo veramente sta band. Perché facciamo in modo che la politica band sia sempre in prima posizione, nessuno deve prevalere, ognuno ha le proprie specificità, ognuno ha il suo ruolo perché suoniamo insieme da dieci anni, abbiamo imparato a conoscerci e va bene così; ma tutto quello che facciamo è frutto di un pensiero fortemente condiviso, nel senso più intimo di questa parola. E questo per noi è l’unico modo di operare, anche se doloroso, perché alle volte ci sono degli screzi, dobbiamo mettere insieme quattro teste, però nel momento in cui troviamo la sintesi, è solida, è difficile spostarci”
È anche un modo che avete trovato per sopravvivere a tutto il meccanismo discografico…?
“Certo, più che altro lo è diventato. Nelle nostre menti, dieci anni fa, la band è sempre stata questa, per noi era scontato che fosse così. Perché è una band di amici, è scontata l’amicizia ed è scontata la band. È uno dei probabili aspetti che ci hanno permesso di sopravvivere così a lungo, è difficile che qualcuno convinca la band di una cosa della quale la band non è convinta, perché dovrebbe convincere quattro teste”
Cos’è che avete imparato in questi dieci anni?
“Secondo me ci sono due aspetti importanti, numero uno: la consapevolezza del palco e dello studio, adesso quando tu sali sul palco o entri in uno studio per registrare un pezzo hai idea di cosa sta per succedere e sai come farlo succedere. Un’altra cosa che abbiamo capito, soprattutto all’interno della dinamica band, è di scegliere le persone con cui ti trovi meglio in assoluto; meglio mettere su una band con gente scarsa a suonare che trovare il guitar hero della storia che però è qualcuno che al 500esimo km gli scappa la pipì urla e impazzisce che si deve fermare in mezzo alla strada. Da un lato c’è l’esperienza che accumuli, quindi la coscienza di quello che stai facendo, di come lo stai facendo e dove vuoi andare, dall’altra parte c’è la presa di coscienza che l’umore, l’emozione, l’umanità di una struttura come quella della band risiede principalmente negli organismi che la compongono, quindi belle persone uguale più possibilità di campare di musica”
Ma per questi dieci anni vi regalereste una partecipazione a Sanremo?
“Certo. Sanremo nel corso degli ultimi anni è cambiato radicalmente, quindi da qualcosa che magari ci rappresentava meno, perché era un pochino distante, adesso è diventato qualcosa che sentiamo possibile per le nostre corde. Sono andati tanti amici, ne abbiamo parlato tanto con loro, ci hanno dato i loro feedback ed è attualmente e concretamente uno dei pochi palchi dove puoi suonare il pezzo come l’hai pensato davanti a tantissime persone ed è un enorme amplificatore. Se ti ritrovi in una condizione per cui il tuo pezzo, che tu ritieni giusto, bello, forte, per te band, un pezzo che sia rappresentativo della tua musica, se puoi portare una cosa così lì dentro, penso che sia una cosa bella, importante, un passaggio sensato. Poi è un palco con il quale ti devi confrontare prima o poi, soprattutto se fai il musicista in Italia; anche solo per testare i propri limiti è un palco con il quale sarebbe interessante confrontarsi, quindi si, lo faremmo. Però, ripeto, devi portare un pezzo che ti rappresenta, dev’essere un pezzo che racconta a dieci milioni di persone chi sono i Fask, se ce l’hai vai, altrimenti resti a casa e aspetti il prossimo turno”
In questi giorni sta montando la protesta di Cosmo per il suo evento di ottobre, la sua lettera indirizzata al Presidente della Regione Emilia Romagna sembra che stia davvero smuovendo le acque nel settore, lui in pratica chiede che il Green Pass diventi un passaporto per tornare alla normalità dei concerti…
“Noi siamo un po' tutti d’accordo con Cosmo, sennò a che serve il Green Pass? La tematica è un po' questa, se abbiamo aspettato tutto questo tempo e non possiamo utilizzare questo strumento che abbiamo, così come avviene in tutti gli altri paesi, forse riparte un altro momento di sconforto. Che poi sia fondamentale salvaguardare la sanità pubblica, questo è ovvio, noi dobbiamo fare in modo che non scoppi un’altra bolla, perché sarebbe un disastro, per tutti, ci mancherebbe, però al tempo stesso ci piacerebbe trovare una sintesi che permetta a noi di fare il nostro lavoro. Noi come Fask siamo soddisfatti, abbiamo trovato questa formula in acustico per girare, ma è importante trovare una formula che permetta anche agli operatori dello spettacolo di ricominciare a vivere. Ci sono locali chiusi da due anni, con gli affitti da pagare, c’è un intero settore che rischia di crollare. Non so se la soluzione di Cosmo sia quella definitiva, giusta, però è comunque un’idea, qualcosa di concreto, che prende in analisi aspetti che mi sembrano piuttosto logici. Difficile entrare in ambito scientifico, non siamo noi a poter stabilire se due persone vaccinate spalla spalla ad un concerto in un locale chiuso siano in sicurezza o no, ma dal momento che ci fidiamo di chi studia dei provvedimenti e ce li offre, come il Green Pass, che a quel punto deve servire a qualcosa”
Arrivati a questo punto in cui si vede, speriamo, la fine del tunnel, voi avete tirato le somme per avere un’idea più chiara di quale sia la considerazione che le istituzioni hanno del vostro lavoro?
“All’interno del sistema musica, gli artisti sono quelli che se la passano meglio. Già a partire da questo bisogna riposizionarci, perché è giusto cercare di definirsi, è giusto, come sta facendo Scena Unita, come sta facendo La Musica che Gira, tante piccole associazioni che sono cresciute in questi anni con lo scopo di riposizionare la figura dei musicisti e dei lavoratori dello spettacolo; questo è vero, però la priorità attuale non siamo tanto noi, perché noi abbiamo trovato altre forme, c’è il digitale, c’è Spotify, c’è la Siae, ci sono centomila cose con cui l’artista in qualche modo riesce a vivere. La problematica riguarda chi permette all’artista di essere un artista: i promoter, i tour manager, chi monta i palchi, tutti gli operatori che ruotano attorno a questo grande mondo che è la musica; quindi, da quel punto di vista, se dovessi analizzare in questo senso, si, non ci sentiamo pienamente sereni, perché effettivamente le criticità sono tante, anche se questa situazione ha acceso i riflettori su un settore e ha aperto un dibattito, che è la base per ripartire. Detto ciò, noi di lamentarci non ci sembra il caso, quello di cui siamo preoccupati e per cui tiriamo le somme in negativo riguarda tutto il sistema musica, che è un sistema estremamente fragile, poco incasellato e poco tutelato. Ci sono persone che stanno a casa da anni e vedere persone intorno a noi, che orbitano in questo mondo, che fanno lavori tecnici, ipotizzare di cambiare lavoro è una roba devastante”