AGI - Si riapre la stagione delle recensioni, i Negramaro aspettano le prime piogge per tirare fuori un tormentone, scelta coraggiosa che promuoviamo in toto; anche i Tiromancino propongono un nuovo brano, si intitola “Domenica” e conferma il meraviglioso momento autorale di Federico Zampaglione. Il giovanissimo BLANCO esce con il suo disco d’esordio, quello che in tanti ragazzi, a ben ragione, aspettavano con ansia, e non resteranno delusi, anzi, è un mezzo capolavoro, specie se si considera che parliamo di un classe 2003. A proposito di giovani, intrigante anche il progetto della Machete, che produce un disco di undici giovanotti della loro cantera; mentre giovanotti non sono più di certo Davide Van De Froos e Zucchero, ma sono tanto tanto bravi e insieme fanno un duetto che sarebbe da dipingere e incorniciare. Praticamente l’opposto di Baby K e Alvaro Soler, che non sono stati avvisati che l’estate è finita. Chicca della settimana, senza dubbio, il meraviglioso nuovo disco della splendida Erica Mou.
Negramaro – “Ora ti canto il mare”
Il mare come metafora, almeno per chi ascolta, almeno per noi, per Giuliano Sangiorgi magari è il mare veramente; in tempesta, come lo sono i sentimenti di chi li prova, impetuosi, inarrestabili. “Ora ti canto il mare” arricchisce “Contatto”, l’ultimo album della band salentina, e riesce straordinariamente a restare dentro le atmosfere psichedeliche dell’album e allo stesso tempo a mostrarci il lato più maturo, più mestierante, dei Negramaro di “Mentre tutto scorre”. È un buon pezzo, stranamente fuori a settembre, forse poteva diventare hit radiofonica estiva, ma è evidente che Sangiorgi e compagni giocano un altro campionato. E ci sta.
Tiromancino – “Domenica”
Un viaggio in casa Zampaglione durante una domenica classica, di quelle passate a non far niente, a ricordare quando invece ci si mangiava la vita a grosse fette, “mentre fuori splende il sole e dentro nevica”, una sensazione che ci investe come un tir, quella nostalgia posticcia, appiccicaticcia, in Sicilia si usa un termine che non ha un preciso corrispettivo italiano: “Liscìa”, che però rende perfettamente l’idea. In puro stile Tiromancino però, Zampaglione riesce a tirarci via da quel vortice ricordandoci che basta un sorriso per rendere tutto sensato, trasformare il nulla in qualcosa di quasi confortevole. Bravo. Grazie.
BLANCO – “Blu Celeste”
Di solito quando esce il disco di un teenager espressamente rivolto ai teenager, ma che a te piace, ti senti un cretino, improvvisamente ti viene in mente che forse dovresti piantarla con t-shirt e jeans strappati e concederti un’esperienza per te extraterrestre, da adulti, tipo, che so, indossare una cravatta. Succede anche che alle volte ci sono teenager che scrivono musica espressamente dedicata ai teenager e a te non piace, e ti senti un vecchio, uno tristemente lontano anni luce da certe tematiche, “nonostante tutte le t-shirt e i jeans strappati che ho nell’armadio” ammetti stupito. E poi arriva BLANCO, che vive un’età per la quale, nonostante ancora non c’hai capelli bianchi e anelli al dito, potrebbe essere tuo figlio, e resti totalmente folgorato. Perché le canzoni sono belle, ok; perché è musica giovane, fatta da un giovane, rivolta ai giovani, ma non raccoglie quella fastidiosissima orgia di luoghi comuni da gangster di provincia, quell’accozzaglia di voli pindarici su droghe, pistoleri da giardinetti pubblici e sesso raccontato da chi non sa nemmeno cos’è né com’è fatta una donna…ok, si, già per questo sarebbe ampiamente meritevole di lode nel bel mezzo del piattume ideologico e culturale e tematico offerto dalla famigerata scena trap. Ma non è così semplice. Il punto è che BLANCO costruisce un disco in cui il concetto stesso di genere forse sarebbe opportuno fosse messo da parte, un disco in cui la fisiologica immaturità del ragazzo, ricordiamolo, classe 2003 (e ora, con vergogna, andatevi a contare i suddetti capelli bianchi in bagno facendo due tentativi per alzarvi dal divano), diventa un grido disperato, toccante, coinvolgente, quasi un pianto, senza età; BLANCO non solo ci riporta a quello che abbiamo provato quando avevamo la sua età, ma ci fa venire a galla, come bollicine dell’acqua che bolle dentro una pentola, le emozioni che noi oggi, quasi quarantenni, proviamo; e, perdonateci, ma in una discografia alla quale evidentemente non interessa più produrre alcun tipo di emozione, noi lo troviamo oltremodo stupefacente. Il suo grido è il nostro, quel cantare come controvento, a voler riempire un vuoto che non ti da pace, è il nostro; e quindi anche la sua vulnerabilità rispetto agli abominevoli ostacoli della vita è la nostra. Post rap, post trap, new pop, chiamatelo come diavolo vi pare, ma quello che vi resterà in mano alla fine saranno pezzi come “Blu celeste” o “Afrodite”, ballad che vi acchiappano per le orecchie e vi riportano a calci verso l’ineluttabilità della nostra natura di foglie secche, leggere, in balìa di un vento che sa di uragano; BLANCO ci costringe a fare i conti con tutto questo…e magari fino all’altro ieri a mezzanotte doveva stare a casa. Wow.
Baby K feat. Alvaro Soler - “Non dire una parola”
Forse si erano dimenticati questo tormentone nelle tasche degli altri pantaloni, e allora lo hanno buttato in rete, immaginiamo, come quando ti ritrovi per le mani qualcosa che scotta. Si tratta evidentemente di un imbarazzante rigurgito d’estate, come quando bevi male in discoteca e al pomeriggio del giorno dopo ancora rutti gin di infima qualità, pensando con gli occhi serrati e nauseati alla monnezza che hai ingurgitato con spregiudicata nonchalance la sera prima. Ecco, in linea di massima il sapore è quello.
Davide Van De Froos feat. Zucchero - “Oh Lord, Vaarda Gio”
Quando due fenomeni si incontrano e dietro c’è la volontà di fare musica e non raccogliere follower su Instagram, la differenza si sente. “Oh Lord, Vaarda Gio” è una preghiera folk di inestimabile valore, possiede quel misticismo laico che Zucchero sa interpretare con eterea maestria, misto alla potenza dirompente con cui Davide Van De Froos racconta la poesia della provincia. Bella, rigenerante, da ascoltare in lacrime quando abbiamo bisogno di riconnetterci con la parte più profonda di noi; ti entra dentro fino a farti capire perché l’uomo non si accontenta di pregare il proprio Dio, ma sente la necessità di cantarlo. Van De Froos e Zucchero cantano del Lord e il Lord risponde.
Dargen D’Amico – “Katì”
Forse il più ironico e stravagante dei rapper italiani se ne esce con un brano che strizza l’occhio al pop più commerciale ben confezionato si, ma anche utile. Perché a noi piace immaginare che questa Katì esista per davvero e che lui per davvero sentisse la necessità di una canzone per mettere pace. Se esiste non lo sappiamo, se mai sentiremo Dargen D’Amico non glielo chiederemo. È così e basta.
Cantera Machete Vol. 1
Ottimo progetto, non solo perché la Machete così mette in chiaro che il loro è un modo di fare rap ben preciso, una scuola di pensiero rispetto ad una cultura che ormai domina il mercato, non solo musicale; ma anche perché mostra la precisa volontà di costruire una generazione di nuovi talenti. Certo, tra gli undici che oggi ci vengono proposti non ci sono ThaSupreme, Madame o BLANCO, ragazzini veri che però hanno mostrato di avere una scintilla capace di infuocare un’intera scena; a malincuore, perché apprezziamo moltissimo la Machete e tutto ciò che gli gira intorno, non abbiamo notato particolari guizzi, manca un po' di cazzimm’, una produzione ben fatta (e queste sono tutte ben fatte) non può sempre salvare un brano, specie se il suddetto brano risulta un po' poverello di contenuti. Comunque, bilanciando un po' quanto già detto, bisogna dire che non c’è nemmeno nulla di scadente, “1,2,3” di Pit è un buon pezzo, ma è rap napoletano, che è una lingua che rende immediatamente qualsiasi prodotto urban più credibile e accessibile; “Rivincite” di Zoelle è acerba ma ben funzionante, e poi c’è “Adesso” di Alphred Locura, che suona come quelle ballad hip hop che a noi tanto ci piacciono.
Beba feat. Willie Peyote – “Meno Male”
La vena quasi dichiaratamente pop del pezzo non riesce a smontare l’atmosfera angosciosa che il brano vuole disegnare, quella che contraddistingue la fine di una relazione, i due punti di vista messi a confronto, Beba e Willie Peyote, due dei più talentuosi rapper della scena italiana, nei panni degli amanti che si dicono addio con quella atroce lucidità che fa calare il sipario sull’amore, che da ragione di vita diventa pratica da sbrigare, una seccatura da togliere di mezzo come quando si è costretti ad andare alle poste. Una gran tristezza smanacciata in un pezzo molto interessante.
Erica Mou – “Nature”
Che “Nature” sia un disco meraviglioso non stupirà certo chi conosce e segue da tempo Erica Mou, una artista che spazia in pregevole scioltezza tra musica, romanzi, teatro e cinema. Una intellettuale vera che la discografia italiana si è dimenticata di spingere al largo pubblico, che l’avrebbe amata esattamente come ha amato un’altra grandissima della nostra canzone, per dire, come Carmen Consoli; e magari più di quanto abbia amato altre cantantantucole senza cognome, rigurgiti poppizzati di talent che di Erica Mou non valgono nemmeno l’unghia del mignolo del piede sinistro. Chiusa questa doverosa polemica passiamo all’album, che rispecchia in maniera splendente non solo la bravura della ragazza ma anche la sua anima viandante tra la Puglia, Londra e Milano, la sua continua necessità di ricerca, poetica e musicale, di sperimentazione; basta cliccare play e ascoltare il passaggio meravigliosamente distopico tra due gran brani come “Cinema” e “Animals”, sembra che Spotify abbia crashato e ci abbia dirottati su un altro pianeta. E poi ancora un altro salto, stavolta nel passato, con una stupenda rivisitazione in chiave moderna di “Sono una donna non sono una santa” di Rosanna Fratello. E poi via, come la vertigine di un secondo, al pop gradevole, molto british, di “Two Left Feet”. Siamo alla settima canzone, non ci capisci nulla ed è tutto bellissimo. E tutto fila via, raffinato, fino alla fine del disco, fino al duetto con il portoghese Marcelo Jeneci, con il quale interpreta la versione italiana di “Felicidade”, non prima di averci fatto ascoltare 33 secondi di mare, probabilmente pugliese. Erica Mou è brava, raffinata, illuminante, moderna, che tutto sa fare e di tutto è capace. “Nature”, che voi lo leggiate all’italiana o alla francese, resta un disco imperdibile.
Les Enfants – “Brilla”
Il sound vagamente anni ’90 (i migliori) ci riporta a quell’ambient indie dei tempi d’oro, i Les Enfants li abbiamo conosciuti anni fa a X-Factor, non proprio il loro habitat naturale, presi in squadra da Alvaro Soler, che è uno, per intenderci, che se la passeggia più dignitosamente con una Baby K; loro fanno tutt’altra roba. Ed è una roba molto seria, anche se piuttosto acerba, che manca ancora del giusto carattere; ma i testi sono molto interessanti, si ha la netta sensazione che i ragazzi vogliano dirti qualcosa, “Brilla” suona bene, è tanto nostalgico quanto intrigante, si ascolta tutto d’un fiato e non stanca mai.
Margherita Grechi – “Tornado”
Un colpo di tacco, una piroetta di suoni raffinati, lounge cantautorale, storie in mezzo al buio metropolitano, un tornado, appunto, di pensieri, accompagnati dalle atmosfere fintamente superficiali del clubbing, dove la danza libera dai pensieri, li appiattisce, li destruttura, fino a salvarti, fino a renderli quasi musica. Ed è questo quello che propone Margherita Grechi e noi lo troviamo estremamente intrigante.