AGI - Un genio, un folle, un violento: la vita, le carceri e le invenzioni di Phil Spector - morto all’età di 81 anni, e per sempre legato all’ultimo capolavoro dei Beatles, ‘Let it Be’ - è una delle leggende più nere della storia della musica. Sin dall’inizio segnata dall’alito della morte.
Sulla tomba di suo padre, morto suicida, c'è scritto “To know him is to love him”, ossia conoscerlo vuol dire amarlo. ‘To Know Him is to Love Him’ era anche il suo primo successo: aveva solo 17 anni, il suo gruppo si chiamava Teddy Bears, la casa discografica dovette precipitosamente stampare 18 mila copie perché le richieste arrivavano dalle radio di tutta l'America. Era il sideralmente lontano 1958.
Inizia così la leggenda di uno dei più grandi produttori musicali della storia del rock, geniale, feroce: ebbene Phil Spector, è morto in carcere in California, dove stava scontando dal 2009 una condanna a 19 anni, nientemeno che per omicidio.
“Philip Spector, è stato dichiarato morto per cause naturali alle 18.35 di sabato”, si legge nella nota diffusa dal Dipartimento della California. “La causa ufficiale del decesso sarà determinata da un esame medico presso l’ufficio del sceriffo della contea di San Joaquin”. A quanto riferiscono alcuni media americani, Spector era stato recentemente ricoverato per complicazioni legate al Covid.
Era stato arrestato nel 2003, nella sua sontuosa villa situata nel sobborgo di Alhambra, mettendo fine ad una delle vicende più gloriose (e anche controverse) del rock: il nome di Spector va messo di diritto tra i Dylan, i Beatles, gli Stones, è legato – oltreché a ‘Let it Be’ e al suo epico contrasto con Paul McCartney - a una canzone-simbolo come ‘Imagine’, alla leggendaria tecnica di registrazione e di arrangiamento chiamata ‘wall of sound’, che ha fatto fare alla musica popolare del ventesimo secolo uno dei suoi balzi più prodigiosi.
Pioniere versatile ed eclettico, carattere instabile, irascibile, grande eremita del rock e grande innovatore, la vicenda artistica di Phil Spector merita un romanzo a sé (non a caso nel 2013 gli è stato dedicato un film con Al Pacino nei suoi panni, diretto da David Mamet): nato nel ‘40 nel Bronx da una famiglia di origini russe, Philip Harvey Spector era un genio precoce. A 21 anni, grazie ai Teddy Bears, era già miliardario.
Negli anni sessanta e nei primi anni settanta il passaggio di Spector cambia definitivamente i canoni del fare musica. È quello a cui devono la fortuna gruppi femminili come le Crystals e le Ronnettes, è quello del cameo-cult di ‘Easy Rider’ (fa la parte del pusher), è lui l’uomo dietro la consolle per alcune delle realizzazioni più belle di Ike & Tina Turner, ha scritto insieme a Mick Jagger ‘Little by Little’, ma - soprattutto – il suo nome sarà per sempre legato all’invenzione del ‘wall of sound’, il “muro del suono”: orchestrazioni sontuose (sovente con fiati e percussioni), sovraincisioni, contrappunti inediti per l'epoca del pop, numerose chitarre una sull'altra e via dicendo.
Un approccio complesso, che finì per cambiare la fisionomia dell’album ‘Let it Be’ dei Beatles - il disco che uscì nel 1970 a suggellare la fine dell’epopea dei Fab four - tanto da far inviperire Paul McCartney, che ritenne completamente snaturato il brano ‘The Long and Winding Road’, infarcito di fiati e archi, tanto che il buon Paul arrivò a minacciare casa discografica, manager e lo stesso Spector di azioni legali.
In effetti, aveva cambiato la natura profonda del disco, nato come un album ‘nudo’, realizzato praticamente in presa diretta, quasi ‘live’. Va detto, oltretutto, che negli anni successivi McCartney, quando suonava ‘The Long and Winding Road’ dal vivo ricorreva sostanzialmente all’arrangiamento dell’infido Spector, che forse ne aveva intuito la natura profonda.
Eppure, ‘tradimento’ dei Beatles a parte, sarebbe del tutto fuorviante considerare Spector una sorta di folle “wagneriano” del pop. Un esempio tra tanti: ‘Imagine’ di John Lennon. Suono allo stato puro, pulito, commovente per quanto è spoglio, “registrata come se fosse cantata al bagno” (la definizione è di Lennon).
L’album triplo ‘All Things Must Pass’ di George Harrison è, sì, roba da ‘wall of sound’, ma in versione paradossalmente intimista: è un disco saggio, se così si può dire, che dimostrò una volta per tutte che il genio di George era pari a quello degli ingombranti Paul & John. Allo stesso modo, va ricordato il marchio Spector anche su dischi sideralmente lontani tra di loro, come ‘Death of a Ladies Man’, di Leonard Cohen, ed ‘End of the Century’, dei Ramones, considerata una delle Bibbie del rock-punk americano.
Non che fosse un tipo alla mano, Spector. Narrano le cronache che avesse una vera passione le armi da fuoco. Il che, combinato al suo carattere, e rappresentava una miscela a dir poco esplosiva. Citato in tutte le storie del rock lo scontro in sala di registrazione proprio con i Ramones, che l'accusarono, nell'80, di averli minacciati con una pistola.
Nel 1977 fu Leonard Cohen a dire che il produttore era “un pazzo fuori da ogni controllo”. Lui non fece mai niente per contraddire la sua pessima fama. Anzi. “Vado in collera quando la gente dice che il rock'n'roll è cattiva musica: possiede una spontaneità che non esiste in nessuna altra forma musicale... è la sola ed è l'autentica cultura americana”, dichiarò una volta.
Pare che fosse soggetto a depressioni, che fosse irascibile. Nel 1974 riportò ferite e ustioni in seguito ad un incidente d’auto: si disse, allora, che si trattava di una messinscena per sottrarsi alle pressioni dello ‘show business’. È un fatto che dopo l'incidente, Spector prese a fare una vita da eremita, rinchiudendosi nel suo “castello” degno del Charles Foster Kane di ‘Quarto Potere’ di Orson Welles, perseguitato dalle proprie ossessioni, vittima dell’alcolismo, protagonista, talvolta, di atteggiamenti violenti.
Degna di un romanzo nerissimo di James Ellroy la storia del 2003: dopo che dei vicini di casa furono svegliati all’alba da tre o quattro colpi da arma da fuoco, la polizia trova immediatamente il cadavere di tale Lana Clarkson. Bionda scultorea di 40 anni, riversa sui marmi dell'ingresso dell'improbabile castello bianco californiano che troneggia in mezzo ad una sfilata di casette familiari. Faceva l'attrice di alcuni film di serie B, tra cui uno con Roger Corman (‘Barbarian Queen’, un cult nel suo genere), vari serial tv (tra questi ‘A-Team’), un po’ di spot televisivi. Spector, arrestato e interrogato, in un primo momento fu rilasciato su cauzione (un milione di dollari), per poi scegliersi come difensore Robert Shapiro, uno dei legali del caso O.J. Simpson. Non bastò per scagionarlo.
Quello che seguì, e che gli procurò l’ultimo scorcio di vita passato interamente dietro le sbarre, non fu il suo primo processo: nel 1998, messo alla sbarra dopo che l’ex moglie Veronica (già cantante delle Ronettes) l’aveva accusato di averle sottratto introiti per 7 milioni di dollari, Phil trasformò l’interrogatorio in uno show. Accusa: “Signor Spector, si dice che lei fosse un perfezionista incallito, che costringeva gli artisti a passare ore in studio per ottenere il suono che desiderava, senza alcun riguardo per la loro stanchezza. È per questo che lei era considerato un genio?”. Spector: “Ma lo sono ancora. Sono costretto a dirlo, sono sotto giuramento”. Accusa: “Però qui lei ha chiesto una pausa e un bicchier d'acqua. Attenzioni che non aveva per i suoi artisti”. Spector: “Aveva un sapore strano quell'acqua: signor giudice, chiedo che venga fatta un'analisi per scoprire se l'accusa ha tentato di adulterare il mio bicchiere d’acqua”. Genio, follia e morte: per un nuovo film basta e avanza.