I n questo 2020 da dimenticare la musica ha rappresentato il primo soccorso contro la malinconia delle città vuote, delle case occupate a forza, di quella triste galera senza sbarre.
Eppure sarà proprio la musica ad uscire a pezzi, quando ne usciremo è ovvio, da questa sfortunata annata, che però, se proprio vogliamo tirarci per le orecchie un qualcosa di positivo, ha rappresentato una fonte di ispirazione per gli artisti italiani, capaci di ponderare e sfornare ottimi dischi.
Perché la musica, perlomeno quella incisa, home made (e mai termine appare più azzeccato), ha continuato a sbuffare fumo dalle ciminiere, nella maggior parte dei casi gli artisti si sono rifiutati di cedere alla tentazione di rimandare le proprie uscite d un tempo in cui sarebbe stato possibile pensare alla promozione del prodotto finale, perché il pubblico, della musica ha bisogno, ha bisogno di quel rifugio inarrivabile, di quella bolla di umanità e poesia, di quel biglietto per un posto altrove, dove tutti ci abbracciamo sudati attaccati alle transenne mentre qualcuno sta sul palco e suona.
Per questo come ogni anno, a maggior ragione quest’anno, è doveroso offrirvi la classifica dei dischi italiani più belli del 2020, in modo tale da riprenderla in mano nel 2021 (speriamo) o anche nel 2050, quando questa brutta storia avremo smesso di viverla e la andremo a raccontare, e avremo voglia magari di ripassare con la mente quelle canzoni che hanno reso un po' meno penosi i mesi più surreali della vita di intere generazioni.
A questi artisti, tutti, anche chi non ha prodotto musica degna di questa top 50, noi diciamo grazie per esserci stati, grazie per non aver rinunciato alla propria natura di poeti e suonatori, grazie per averci ricordato che esiste qualcosa di non imprigionabile, la possibilità di cavalcare le loro note e andare in posti dove non esistono virus e mascherine, gente che soffoca invece di sorridere, gente che si dribbla invece di andarsi incontro, gente che si da il gomito invece di una carezza. Grazie per averci offerto la vostra anima e la vostra spalla.
1 - Samuele Bersani – “Cinema Samuele”: Ascoltare un disco di Samuele Bersani ti toglie le parole di bocca, ti permette di guardare il mondo attraverso la penna più poetica e attenta ed efficace che è rimasta nel cantautorato italiano. Lui sopra tutti, si, lui che non si svende al pop da classifica, lui che a cinquant’anni continua ad essere se stesso senza riempirsi di se stesso, a concederci l’onore di attraversare la sua anima tormentata senza pagare al casello, in maniera limpida e onesta. “Cinema Samuele” è stato concepito come un multisala emozionale dove ognuno può cliccare play sulla storia che più gli interessa ascoltare; dieci canzoni, tutte meravigliose, ma a questo punto è questione di gusti, da questo lato il brano che ci ha rubato un pezzo di anima si chiama “Il tuo ricordo”, che non si può ascoltare senza restare incantati con la mano che sorregge la faccia, a guardare fuori dalla finestra o il muro davanti a noi; che tutti abbiamo un ricordo che, bene o male, non ci lascerà mai, che “quando arriva ha fame e sete”, ma forse nessuno riuscirebbe a tradurlo in musica con tale energia struggente, malinconica, coinvolgente. È indubbiamente questo il disco più bello del 2020.
2 - Francesco Bianconi – “Forever”: Si tratta del primo disco solista di Francesco Bianconi, uno dei più sofisticati autori della scena cantautorale italiana, nonché, per i più, noto come voce e frontman dei Baustelle. ”Forever” è un vero e proprio disco da cantautore, ragionato, raffinato, minimalista, tutto ciò, insomma, che va contro il mood della discografia italiana, ormai arraffona e chiassosa, affondata da tormentoni e musica leggera mordi e fuggi, che non lascia spazio, salvo rarissime eccezioni, ad alcun progetto solido, memorabile, del quale ci è permesso immaginarci un futuro, una collocazione, una prospettiva. Bianconi invece si conferma prezioso e anticonformista, e “Forever” in questo senso suona come una ribellione intellettuale in musica, brani che viaggiano su melodie modulate quasi esclusivamente dalla voce profonda di Bianconi, dalla potenza di testi nei quali poetica e realtà si mischiano guidandoci in un viaggio surreale e affascinante. Un disco molto coraggioso quindi, come non se ne fanno ormai più, ci verrebbe da dire, ma ancora, forse soprattutto in questo momento, necessario per non abbandonarci all’idea che questo pop 2.0 si sia divorato l’intera torta lasciando a bocca asciutta chi possiede un palato, senza cascare in inutili snobismi da radical chic, un po' più ricercato, un po' più esigente.
3 - Colapesce e Dimartino – “I mortali”: “I mortali” non è il primo progetto in cui affondano le quattro mani contemporaneamente Colapesce e Dimartino, ala siciliana dell’indie italiano, e parliamo dell’indie vero, di una rivoluzione cantautorale storica cui frutti purtroppo si stanno perdendo a poco a poco ingoiati dal mainstream. Ecco perché un album di questo tipo, che risulta quasi politico nella sua bellezza, nella sua genesi, nel modo di approcciarsi alla musica dei suoi interpreti, diventa ancora più necessario per ricordarci che esiste una tradizione e che abbiamo i giusti talenti con tutte le capacità per prendersene cura. “I mortali” è un album splendido, una narrazione ben precisa, un quadro che dipinge una poetica della quale sentiamo una dannata nostalgia. Si racconta poi la Sicilia, finalmente nella sua bellezza, priva di quei cliché insopportabili, una realtà schietta come ci si aspetterebbe e contemporanea come non ci siamo ancora abituati a vederla. Perla assoluta “Luna araba” cantata insieme a Carmen Consoli, un’intera filmografia di Giuseppe Tornatore in pochi minuti. Colapesce e Dimartino con “I mortali” decidono di celebrare il decimo anno di carriera, alle loro spalle già una serie di piccoli capolavori che si faranno ascoltare anche tra parecchi anni, il futuro del cantautorato italiano sta in mano ad artisti seri come loro. Bravo Amadeus ad omaggiarne l’esistenza concedendogli, seppur in forte ritardo, il palcoscenico che gli spetta, quello di Sanremo.
4 - Lucio Leoni - “Dove sei”: Quello di Lucio Leoni è un album, anzi un doppio album, avendolo diviso in due parti, praticamente perfetto. Quindici brani che hanno carattere, sputati fuori dalla penna illuminata di un cantautore letteralmente unico nel suo genere. In un momento storico in cui ciò che “va” è sempre più elementare, in cui ormai agli artisti non si chiede nemmeno più una parvenza di intonazione, Leoni sforna un album barocco che esplora le sonorità più disparate: dalla potenza irrefrenabile de “Il sorpasso” alla raffinatezza di “Dedica”, dall’affascinante esercizio linguistico di “Treno” al teatro canzone di “San Gennaro” e “Atomizzazione”, che è un campo di gioco che gli si addice particolarmente (andare ai suoi concerti, quando sarà possibile, per credere). E poi la perla dell’album, “Mongolfiere”, un brano commovente, straziante, che ti ruba un pezzettino di anima e la spedisce sullo spazio senza risparmiarti scossoni e vertigini. Lucio Leoni non è bravo, è indispensabile, per ricordarci che c’è un modo più profondo e impegnato e poetico di concepire la musica, si conferma essere uno dei cantautori più interessanti della scena musicale italiana, è teatrale ma moderno, poetico ma intimo. Se ve lo perdete vuol dire che non ve lo meritate.
5 - Lucio Corsi – “Cosa faremo da grandi?”: Lucio Corsi c’è ma non c’è. C’è nei discorsi di chi orbita nell’ambiente musicale, è facile che una citazione di suoi brani venga sputacchiata fuori se ci si ritrovi a fare due chiacchiere con artisti del calibro di Francesco Bianconi (che questo disco l’ha prodotto) o Dario Brunori. Eppure non c’è, forse perché arrivato leggerissimamente in ritardo alla stazione per prendere quel treno dell’indie che porta dritto dritto al vasto pubblico italiano (vedi cast Sanremo 2021); dunque il suo nome più che urlato ad un concerto, resta ancora bisbigliato tra le labbra di quei 35mila ascoltatori mensili su Spotify, ben sotto la media del successo. Allora forse è per questo che ci piace così tanto, forse questo amore incondizionato per le sue canzoni dinanzi alla quale noi alziamo le braccia ci affascina in quanto così intimo, così poco popolare, forse si tratta di un rigurgito radical chic. No, non quadra, la verità è che “Cosa faremo da grandi?” è un’opera intellettuale e allo stesso tempo disarmante, luminosa, di quella bellezza che fa scappare da ridere; storie che appassionano, canzoni che ti accarezzano il palato, nove tracce tutte belle, tutte perfette, tutte armonizzate tra loro, potremmo definirlo un concept album su noi stessi e tutto ciò che ci circonda che Corsi, classe ’93, colora con il suo timbro ipnotizzante.
6 - Cristiano Godano – “Mi ero perso il cuore”: Intanto tranquilli, se l’aveva perso, il cuore, Cristiano Godano, che noi tutti conosciamo e amiamo come voce dei Marlene Kuntz, indubbiamente una delle più intriganti e serie realtà della musica italiana degli ultimi trent’anni, alla fine evidentemente l’ha ritrovato. Perché ci vuole cuore, oltre che mestiere, per scrivere un album come questo. Ci viene spesso il dubbio che tutto, ma proprio tutto, sia diventata una noiosissima rincorsa all’ultimo like, che il cantautorato, per come tradizione c’ha cresciuto, non esista più e che non ci sia nemmeno più la lontana speranza di ritrovarci qualcosa di significativo da infilarci nelle orecchie; così spesso proviamo a prendere il best of di questo nuovo itpop santificando i suoi interpreti per fare la respirazione bocca a bocca alla nostra speranza. Poi fortunatamente arriva Cristiano Godano con album splendidi come “Mi ero perso il cuore” e le stelle nel cielo della musica si riallineano.
7 - Pinguini Tattici Nucleari – “Ahia!”: In “Ahia!” i Pinguini si divertono con sonorità nuove, sparigliano le carte spiazzando anche parte del loro pubblico di aficionados, mettendo però tutti d’accordo sul fatto di essere in formissima, in costante crescita, “Ahia!” infatti è un EP senza buchi, sette brani tutti belli, alcuni veramente molto molto belli (“Bohemien” e “Pastello bianco” forse su tutti, ma son gusti). I Pinguini possono declinarsi in tutti i generi e forme e sonorità che desiderano, continueranno comunque a funzionare, perché riescono a non farsi cullare dal proprio prezioso talento, riescono a mantenerne viva la fiamma senza rinunciare alla curiosità di ascoltare e prendere il meglio da tutto ciò che ascoltano, senza crogiolarsi nel proprio successo e portando a casa un grande lavoro. Per tutti quelli che pensavano che “Ringo Starr” fosse un punto di arrivo, non c’avete capito niente.
8 – Dj Slait, Low Kidd, tha Supreme e Young Miles - “Bloody Vinyl 3”: Più che un disco, una saga, un progetto chiamato mixtape portato avanti da un dj, Slait, e tre producer, tra i più illuminati dell’attuale scena hip hop: Tha Supreme, giovanissimo fenomeno dal talento cristallino che dal basso della sua età e dall’alto del suo anonimato sta ricostruendo il sound del rap all’italiana; e poi Low Kidd, altro geniaccio del giro della Machete Crew di Salmo, e Young Miles, classe 2002 con un curriculum già alle spalle che un qualsiasi musicista di medio successo una volta ci metteva due vite a costruirsi. All’interno del disco i principali protagonisti del panorama rap italiano incrociano le loro barre nella tracklist lunga 15 pezzi; tra questi Salmo, Dani Faiv, Lazza, Madame, Massimo Pericolo, Capo Plaza, Hell Raton, Gue Pequeno, Nitro, Fabri Fibra e Jack La Furia. Un tripudio di beat coinvolgenti, stare fermi è quasi impossibile, è grazie a questa generazione di nomi se il rap ha finalmente raggiunto anche in Italia una qualità così alta, se è diventata musica, con le dovute eccezioni è ovvio, totalmente autorale. Si è affinato il gusto, si sono affinate le penne, si cerca qualcosa in più della vendita del disco, si percepisce la passione nella costruzione ingegneristica dei brani. “Altalene”, duetto tra Mara Sattei, sorella di Tha Supreme (complimenti a mammà per la doppietta di talenti) e una delle voci più interessanti della musica italiana contemporanea, e Coez, è una canzone destinata a restare; “Greve” di Madman, una bomba che ti stiracchia i muscoli del corpo anche se stai immobile. Bravissimi.
9 - Brunori SaS – “Cip!”: “Cip!” è Brunori SaS all’ennesima potenza, dentro ci mette tutto il proprio profondo sentimentalismo, che potrebbe anche suonare a tratti ruffiano se non si conoscesse la purezza della poetica del cantautore calabrese, sempre profondamente fedele a se stesso, al proprio modo di intendere la musica come musicista, come ascoltatore e come comunicatore. La nostra umile opinione è che si tratti di un passo, se non indietro, di lato, rispetto al meraviglioso “A casa tutto bene”, ma resta un lavoro di altissima qualità, quella qualità della quale abbiamo un disperato bisogno, in cui spiccano i singoli “Al di là dell’amore” e “Per due come noi”, che sono due perle vere.
10 - Raphael Gualazzi – “Ho un piano”: Se pensiamo che il festival di Sanremo l’ha vinto Diodato con una canzone della quale non ricordiamo che un vago lamento nel ritornello, alla sua “Carioca”, pezzo di artigianato musicale post-moderno vero, dovremmo dare il Nobel. “Ho un piano” è frutto di un’estremamente intrigante incontro tra uno dei più bravi jazzisti del panorama italiano (e non) e una serie di producer estranei alla sua confort zone con i quali ha deciso di collaborare. Il risultato è un corto circuito esplosivo, sorprendente, esaltante. Da godersi dall’inizio alla fine e poi fumare.
11 - Geolier – “Emanuele (Marchio Registrato)”: La potenza di Geolier sta nella sua capacità di produrre musica contemporanea e funzionale con estrema scioltezza. È il suo linguaggio, è il suo mondo, lo domina ancor prima di raccontarlo e dipinge un quadro, meraviglioso nella sua crudità, usando la lingua napoletana come solo la lingua napoletana permette di fare. Le immagini si susseguono, la narrazione è fluida, il suono avvolgente, la voce intensa, l’interpretazione essenziale. Se tutti inseguono Geolier un motivo c’è ed è che è l’unico che sa tradurre a chi ancora non ci è arrivato che suono ha il 2020.
12 - Bonetti – “Qui”: Uno dei più bei dischi dell’anno per un cantautore cui assenza dai grandi palcoscenici di questo paese è la dimostrazione tangibile di quanto stiamo scadendo. Bonetti appartiene a un altro tempo, quello in cui le canzoni si facevano con attenzione e cognizione di causa, fa il disco che forse avrebbe fatto oggi Battisti, c’è poesia ma non è plastificata, dopata, messa in bella mostra, anzi, viene trascinata per la coda tra di noi, in mezzo al nostro via vai, alla nostra vita inutilmente frenetica. Ascoltarlo in questo senso è una vacanza, un respiro, una pausa di riflessione con se stessi, lasciarsi un po', che magari ci fa bene, “Qui” è talmente controcorrente da risuonare come una provocazione pacifica e illuminante.
13 - Maestro Pellegrini – “Fragile”: Disco d’esordio di Maestro Pellegrini, che molti magari conoscono come chitarrista degli Zen Circus. Il passo è compiuto, il percorso arrivato alla meta, Pellegrini propone uno dei dischi migliori di questo sfortunato anno; la sua poetica è illuminata, il sound caratterizzante, complesso, c’è il meglio del cantautorato classico e il meglio del nuovo. Non possiamo sapere se, discograficamente, sia rimasto spazio per una proposta così alta, ma se c’è qualcuno là fuori batta un colpo sulla pagina Spotify di Maestro Pellegrini e ne resterà affascinato.
14 - Vodoo Kid – “amor, requiem”: Cliccate play per scoprire, con una precisione chirurgica, in che direzione sta andando la musica italiana, perlomeno quella più interessante. Intanto va verso una riscoperta delle voci femminili, che perfettamente si incastrano con la sensualità delle sonorità contemporanee; quella di Vodoo Kid, per esempio, è ipnotizzante, l’interpretazione dei brani non è solo talmente schietta da tirarti dentro la narrazione, ma anche così ben strutturata da permettere un ascolto facile di un qualcosa di estremamente personale. Bravissima.
15 - Speranza – “L’ultimo a morire”: Speranza fa rap come vorremmo sempre che lo facessero tutti i rapper: arrabbiato, ponderato, originale, duro, credibile. Speranza fa il giocoliere con le parole, con le lingue, con le immagini, rappa su un ring da solo contro tutti. E alla fine vince.
16 - The Zen Circus – “L’ultima casa accogliente”: Gli Zen non sono più quelli di “Andate tutti affanculo”, non perché si siano rammolliti, ci mancherebbe, anzi, soprattutto perché “Andate tutti affanculo” è un album che ha oltre dieci anni e la cosa più importante per una qualsiasi realtà musicale, specie una vicina ai 30 anni di attività, è la capacità di maturare insieme al proprio pubblico. Sotto questo punto di vista “L’ultima casa accogliente” non è solo un buon disco, ma è forse un disco fondamentale nell’intera collezione degli Zen Circus. Questo perché il loro sound, pur mantenendo quelle linee rock melodiche decise, verte sempre più verso il cantautorato impegnato di chi, giustamente, arrivato ad un certo punto del proprio cammino, non se la sente più di risolvere le proprie questioni mandando “tutti affanculo”. Loro in questo album ci provano mettendo in risalto la poetica di Appino, che sforna brani davvero eccellenti come “Non” e “Appesi alla luna”. Da mettersi in poltrona e ascoltare con attenzione. Ben tornati ragazzi.
17 - Moltheni – “Senza eredità”: “Senza eredità” più che un titolo è una sentenza: non ci sono eredi di Moltheni, non ci sono eredi di quel mondo, la rivoluzione digitale ha fatto si che nascessero intere generazioni di artisti morti che si aggirano nella discografia come zombie che per moltiplicarsi, invece di mordere, cantano. “Senza eredità” è bello, tutto, da far male, come il tempo che passa, come i ricordi che svaniscono, tutta una vita sulla punta della lingua senza riuscire mai ad afferrare bene il succo di quello che succede. Ecco, un disco di Moltheni provoca pensieri di questo tipo.
18 - Nitro – “GarbAge”: Non appena esaurito l’ascolto di “GarbAge” si ha l’impressione di aver ascoltato 15 dischi in uno, un’intera filmografia di Kubrick, “La stanza” di Van Gogh, una di quelle opere insomma che ti inchioda alla sedia, che ti costringe all’attenzione, ad infilarti in un labirinto di parole e immagini e beat dal quale non sai come uscirne e quando poi le tracce finiscono e ti ritrovi fuori, hai subito l’impulso di rientrarci. Eccezionale.
19 - GINEVRA - “METROPOLI”: Sound nuovo, minimalista, atmosferico. Prendetevi venti minuti per ascoltare una storia lunga sei brani, chiudete gli occhi e provate a percepire quello spazio in cui un cantautorato fresco incontra la qualità, la calma di una metropoli di notte, la pace di una cascata di suoni ipnotizzanti.
20 - Diamine – “che diamine”: L’album di debutto dei Diamine, duo appartenente alla scuderia dell’illuminata etichetta Maciste Dischi, potrebbe rappresentare il primo solco di una strada ancora poco battuta dalla discografia italiana. Gli artisti romani propongono un intrigante esperimento di cantautorato electro-pop che non è esattamente riconducibile a nessuno prima di loro. Nel disco non ci troviamo quell’imprecisione così tanto in voga, quella sciatteria a tutti i costi, quella semplicità che rasenta l’assenza, no, niente di tutto ciò. “che diamine” risulta potente senza urlare, alternativo senza schitarrate o eccessi fini a se stessi, atmosferico senza annoiare mai un secondo, poetico senza facili ermetismi radical-chic, sperimentale senza drogata necessità di protagonismo. È semplicemente musica, fatta in un modo nuovo e accattivante, i brani sono dieci e si bevono tutti d’un fiato, funzionano tutti perfettamente. Particolarmente suggerito l’ascolto di “Da qualche parte” e “Niente di personale”, che dimostrano come non c’è bisogno di un pianoforte, un lamento sulla rotta del pianto, per fare musica meravigliosamente straziante; e poi, forse anche un gradino sopra le altre “Così via” e “Diamine”, ma è solo questione di gusti.
21 - Ariete – “Spazio/18 anni”: Ipnotizzante, da collocare in quell’universo di musica teen molto cool, molto cantautorale, molto ben fatta. Ariete non canta certo agli adulti ma basta far partire la sua musica per far venire a chiunque, senza limiti di età, la voglia di proseguire nell’ascolto di qualsiasi parola abbia mai pronunciato in vita sua. Wow.
22 - Dargen D’Amico – “Bir Tawil”: Dargen D’Amico, in una scena che punta a rivendere sempre lo stesso prodotto in maniera industriale, rappresenta una stupenda eccezione. In un mondo in cui ci si scanna per 10 centimetri di muro con i vicini, Bir Tawil è un luogo al confine tra Egitto e Sudan che nessuna nazione reclama, che nessuno vuole. Senza entrare nel merito dei fatti storici, noi troviamo che sia una magnifica metafora trovata da Dargen D’Amico per rappresentarsi, non che non lo voglia nessuno, anzi, c’ha un curriculum che la metà basterebbe, ma è un luogo altro del rap, un disco di Dargen D’Amico, compreso quest’ultimo naturalmente, non ha niente a che vedere con nessun’altro disco rap italiano che potrete trovare. Il suo è un rap intellettuale, che punta dritto dritto al contenuto, non con la giusta lentezza e precisione di un chirurgo ma come uno che vuole raggiungere l’acqua buttandosi da una scogliera che bacia il cielo. Sono brani pieni di guizzi, di tricks di parole e di concetti. Imperdibile.
23 - Frah Quintale - “Banzai”: Frah Quintale è un pazzo, uno di quei jolly della musica italiana: rap, indie, tutte strade vincenti, come stare al tavolo da gioco con una scala reale in mano. Quando il disco è uscito Francesco Servidei aveva tutto il popolo del web col fiato sul collo ad implorare altre uscite, e allora cos’è che fa? Tira fuori “Banzai”, un disco con sonorità del tutto nuove, che strizza l’occhio in maniera evidente alla black music, in particolare l’R&B, un genere che in Italia hanno esplorato in pochissimi e con risultati che non sono stati premiati dalla classifica. Un disco che si beve con estremo piacere, che rilassa e colpisce allo stesso tempo, con un solo featuring (forse record mondiale per un disco rap) con il talentuoso IRBIS 37. Per tutte queste ragioni Frah Quintale è un pazzo e a noi i pazzi piacciono da pazzi.
24 - Tutti Fenomeni – “Merce funebre”: Serve qualcuno che provi ad abbattere certi muri, che poi lo faccia con una spregiudicatezza dai risvolti incalcolabili conta poco. Quest’anno più e meglio di tutti forse l’ha fatto questo giovane Tutti Fenomeni, creatura plasmata da un altro che ha fatto una roba del genere qualche anno fa, si chiama Niccolò Contessa, ma molti lo conoscono come I Cani, e dai suoi lavori la musica italiana è riuscita a deviare la propria strada e a riprendere luce. Oggi si presta a questo progetto, che scende in campo a giocarsi la propria sfida e, nettamente, la vince.
25 - Jack The Smoker – “Ho fatto tardi”: Quando il rap è fatto bene e non viene cavalcato per pubblicizzare la parte più cool o macho macho della propria personalità, la differenza, non c’è niente da fare, si sente. Jack The Smoker, classe ’82 (a proposito, si sente anche quando le rime le partorisce un uomo e non un ragazzino), uno dei membri della Machete Crew di Salmo, sforna uno dei migliori dischi rap degli ultimi anni e negli ultimi anni di dischi rap ne abbiamo ascoltati a iosa. Una narrazione coerente e sincera, dentro si trova il personale, si trova la periferia, si trova la denuncia, si trova tutto ciò che dovrebbe star dentro un brano adulto, di qualsiasi genere, che la specifica sul rap nel 2020 appare pleonastica. “Ho fatto tardi” è uno di quei dischi che assottiglia sempre di più la linea che separa il rap dal cantautorato, ed è lì, facciamocene una ragione, che in questo momento si nascondono le penne più illuminate della musica italiana.
26 - Gemitaiz – “QVC9 – Quello che vi consiglio vol. 9”: Gemitaiz ha la straordinaria capacità di andare molto più a fondo nelle storie che decide di raccontare rispetto alla maggior parte dei suoi numerosissimi colleghi. All’interno del mixtape incrocia le barre con i maggiori esponenti della scena, da Nitro a Fabri Fibra, da Emis Killa a Geolier, da Izi a MadMan, e ancora Carl Brave, Speranza e Achille Lauro, solo per questo merita un ascolto attento. Nello specifico segnaliamo “Mama”, “Mondo di fango”, pezzo davvero di gran valore, “Alright”, “Più di così” e “Money money”
27 - Tosca – “Morabeza”: Tosca è indiscutibilmente il personaggio femminile dell’anno. Viene chiamata in extremis da Amadeus alla scorsa edizione di Sanremo e presenta una canzone che non è solo la più bella della playlist 2020 del festivàl ma anche tra le più belle mai eseguite sul palco dell’Ariston. Si porta a casa due premi Tenco e due Nastri D’Argento, e poi un documentario in cui scannerizza come meglio non è possibile fare la potenza del linguaggio musicale, l’unico linguaggio rimasto al mondo che unisce i popoli senza dividerli mai. “Morabeza” è l’album più raffinato del 2020, una favola in World Music, un viaggio che Tosca compie in compagnia di artisti veri, che poco giocano di copertine e like, ma che pensano all’essenza di questo mestiere: l’arte, come eseguirla, come raccontarla e come dignitosamente onorarla.
28 - Lazza – “J”: Un disco molto personale che tende ad assottigliare sempre di più e in maniera del tutto sensata e organica la linea che separa il rap dalla trap. Ormai tutti fanno tutto, i beat si mescolano, la trap sta trovando piano piano i suoi autori, personaggi che hanno qualcosa da dire e pensano a qualcosa in più della propria immagine. Ecco, Lazza è uno di questi; in “J” racconta se stesso in compagnia di alcuni grossi esponenti della scena rap/trap come Capo Plaza, il fenomeno tha Supreme, Gue Pequeno, Shiva, con la quale firma “MON AMOUR” e soprattutto “FRIEND”, forse il brano più interessante dei dieci proposti, che conta anche sulla collaborazione di Geolier che, non può farci niente, qualsiasi cosa sfiora diventa un labirinto di magnetismo; e poi ancora Tony Effe, Emis Killa e Gemitaiz. Dentro insomma ci si trova un po' di tutto ed è tutto di estrema qualità. Vedete? È molto semplice, per fare buona musica basta essere bravi musicisti e poi la differenza, spiace per gli altri, ma si sente.
29 - Ghali – “DNA”: Ghali poteva campare anni su quel che era, avrebbe sudato meno forse perfino guadagnato di più, invece, come un novello Peter Pan, ha scelto di crescere, di sfidare se stesso, di sperimentare i limiti (decisamente larghi) del proprio fare musica. Il risultato è un disco tra i migliori del rap targato 2020, un lavoro che mostra non solo una maturazione, segno che dietro c’è sostanza, c’è intelligenza, c’è materia prima da seguire con attenzione; ma anche la ricerca di una complessità musicale, di voglia di andare oltre sé stesso. Da “DNA” estratti alcuni dei singoli di maggior successo dell’annata.
30 - Diego Rivera – “Gran Riserva”: La Puglia bella, impolverata e leggendaria come il vecchio West, cantata, raccontata, no meglio, dipinta da Carmine Tundo, uno dei migliori autori della scena nazionale. Musica che arriva da lontano, che vorresti ballare lentamente all’ombra di un albero che filtra una luce arancione che ti punta dal cielo come un faro. Diego Rivera è un side project del leader de La Municipal, ma Tundo ne approfitta per mettere da parte le canzoni che riguarderebbero in qualche modo “tutti”, per sviluppare un lavoro intimista e meraviglioso, come se attraverso lo spioncino di questa “Gran Riserva” potessimo sbirciare la sua vita e il suo vissuto. Si tratta di un disco unico nel suo genere con sonorità ormai praticamente introvabili, quell’arpeggiare che intossica il cuore e quel non so che di antico, di tavole apparecchiate all’aperto 50 anni fa e ancora in attesa dell’ennesimo bicchiere di vino rosso buono.
31 - Calibro 35 – “Momentum”: Alle volte serve proprio ripulirsi le orecchie da troppe parole, troppi concetti, troppe sovrastrutture. I Calibro 35 sono tra i più eccitanti e innovativi artisti del panorama italiano e “Momentum” è la fotografia strumentale di una pausa, una riflessione, un pensiero profondo, qualcosa di intellettuale senza alcuna complicazione fine a se stessa. È musica, vera, seria. Ottima.
32 - Dente – “Dente”: Menomale che c’è Dente a rimetterci a posto i pensieri, a rassettarci i sentimenti, a spiegarci le cose, anche le più profonde, intime, scomode, in maniera semplice e immediata. Menomale che c’è Dente, capace di rimanere sempre se stesso, in modo tale che poi noi possiamo riaffidarci a lui, sapendo che avrà sempre le parole giuste per raccontare la nostra vita, ignorando quella misteriosa magia legata alla precisione con la quale c’azzecca sempre. In questo disco, il primo che porta il suo nome, si spoglia di tutto ciò che ha ed è, regalandoci momenti di vera commozione. Tipo quella “Adieu” che ci inchioda impietosa a quei pensieri che, erroneamente, vorremmo dribblare. Grazie.
33 - Piotta – “Suburra”: Piotta Roma la racconta da sempre, meravigliosa e meschina così com’è, l’incrocio con la serie “Suburra” allora rischiava di essere ridondante, fin troppo scontato, se non fosse che parliamo di un rapper che è riuscito a trovare andando avanti con gli anni una formula stilistica assolutamente unica, di fungere da anello di congiunzione perfetto con il cantautorato old school, di non smettere mai di esplorare le potenzialità sonore del proprio genere. I brani che Piotta ha scritto per raccontare i personaggi di “Suburra” non fungono solo da accompagnamento e non si limitano nemmeno a fare da didascalia ad una narrazione che ne potrebbe fare a meno; sono una meravigliosa traduzione in musica dell’essenza di quei personaggi che rappresentano l’anima marcia della nostra capitale e Piotta li racconta con empatia, schiettezza e anche un commovente briciolo di pietà, la stessa di mamma Roma verso i suoi figli, specie quelli più difficili. Eccezionale.
34 - Izi – “Riot”: Ciò che fa la differenza tra Izi e quasi tutti i pari esponenti del rap nostrano, è che il suo stile non viene mai sperperato a casaccio ma è sempre messo al servizio di un qualcosa da dire di ben preciso. Le rime sono possenti, i featuring onesti, la struttura delle produzioni solida ed efficace, tutto quello che si può desiderare da un ottimo disco rap.
35 - Glomarì – “A debita vicinanza”: Uno schiaffo in faccia a chi non crede più nell’efficacia della poesia, nella potente delicatezza di un certo tipo di canzoni impegnate, a chi insegue successi camminando in bilico tra pop rappato e reggaeton dai contorni inutili, senza capire la differenza tra l’essere stimati e l’essere riconosciuti, tra una carriera e la moda. A chi dentro un pezzo ci mette dentro di tutto perché dentro non c’ha niente, a chi non riesce a far musica senza un computer davanti, a chi suona ma non suona niente. A tutti voi, lì fuori, mettetevi comodi e ascoltate questa meraviglia di disco.
36 - Emis Killa & Jack La Furia – “17”: Un signor album rap, questo non solo per la qualità di produzione e barre, ok, non è che ci si potesse aspettare di meno da due che il loro sporco mestiere lo hanno sempre saputo fare, specie Jack La Furia, che c’ha oltre vent’anni di rap sul groppone, e se non sai fare ciò che fai non riesci a farlo per oltre vent’anni a certi livelli; ma anche perché “17” ci pone davanti ad un corto circuito generazionale di altissimo livello, dove un sound ammorbidisce e doma l’altro e il mix che ne viene fuori è spettacolare. Straordinaria poi la capacità di produrre una serie di brani dalla natura così intensa e intima essendo, di fatto, un lavoro di coppia che poteva anche essere naturale che finisse in un’orgia di slinguazzamenti alla francese reciproci, tipici di questa nuova mania del featuring a tutti i costi che sta ammorbando il genere, minando la matrice autoriale di grande valore che avrebbe la possibilità di proporre. I due artisti trovano spazio anche per dare qualche sonora sculacciata a quei giovinastri che si stanno divorando il mercato, smascherandoli della loro natura fake di duri plastificati, di trapper con i denti da latte, ma senza condannare a prescindere un’intera scena, significativa in questo caso la scelta dei feat., pochissimi: Salmo e Fabri Fibra per “Sparami”, due colleghi dal talento cristallino, artisti veri che hanno fatto e continueranno a fare la storia del genere nel nostro paese, portandolo ben oltre i confini ora pensabili da noi umili mortali; poi Massimo Pericolo che rappa con loro in “L’ultima volta”, che è il rapper forse più autentico della nuova scena nazionale; e infine Lazza in ben due brani, “No insta” e “Gli amici miei”, lui che prima di essere rapper è un pianista di grande talento. Direbbe il colonnello John "Hannibal" Smith: “Adoro i piani ben riusciti”.
37 - Negramaro – “Contatto”: I Negramaro tornano dopo tre anni di silenzio con un disco estremamente attuale. Come quasi tutta la produzione della band salentina, per apprezzarne il sapore intenso, cantautorale ma confortevole, elettronico ma surreale, serve masticare bene i brani, prestargli attenzione come si fa con una donna bella ma complicata, per scoprire alla fine, come succede quasi sempre con le donne complicate, che sono le migliori. È un album pieno di speranza, un album che nonostante le elettro atmosfere, che non possono ormai considerarsi nuove per la band, ci suona nel cuore come una carezza sincera. “Noi resteremo in piedi”, il brano che apre il disco ne è anche il manifesto più credibile, anche più della title track, che in effetti non è tra i brani più forti della playlist. Altrettanto interessante il featuring con la giovanissima Madame, l’unico del disco, a testimonianza di un’attenzione concreta dei Negramaro nei confronti di ciò che avviene intorno a loro. Ma ciò che è più importante è che la band porta avanti dopo quasi vent’anni il concetto stesso di band, una realtà che in Italia è praticamente sparita, cui esponenti si contano sulla punta delle dita di una mano stando larghi. Ed è un concetto che nel disco esce fuori in maniera vivida e vibrante; non possiamo sapere, e nemmeno ci interessa questo granchè, cosa succede negli spogliatoi, è chiaro, ma quel che è certo, ed estremamente ammirevole, è che Giuliano Sangiorgi, nonostante sia un’entità che mediaticamente potrebbe serenamente vivere di luce propria, in realtà senza i suoi compagni non otterrebbe gli stessi risultati, tant’è che “Contatto” è stato prodotto tutto homemade dal tastierista Andrea Mariano; scontato? Affatto. Giusto? Assolutamente si, perché Mariano è riuscito a restituire al pubblico con precisione chirurgica il sound e il messaggio che la band intendeva comunicare. Bravissimo. Bravissimi.
38 - Ghemon – “Scritto nelle stelle”: Dire che Ghemon merita di essere considerato un artista estremamente raffinato, non fa cadere la mascella a terra a nessuno. “Scritto nelle stelle” ci dice questo. È un album che scorre via liscio e piacevole dalle orecchie alla gola. A fare i rompiscatole bisogna dire che manca qualche lampo di cui siamo ormai certi Ghemon è capace, “Rose viola” e “Un temporale” d’altra parte non sono brani che si scrivono da soli, tutto suona bene ma non in maniera epica, nessun brano lascia quella sensazione di aver ascoltato qualcosa di memorabile, seppur “Inguaribile e romantico” sia un pezzo di assoluto valore, forse un gradino in più degli altri. Apprezzabile anche se curiosa la scelta, evidente, di non inseguire affatto il sound che “va” in questo momento, buttandosi su una sorta di R&B anni ’90 che però ha lo svantaggio di risultare vagamente demodè, e non sia mai preso come un qualcosa di negativo.
39 - Giorgio Canali & Rossofuoco – “Venti”: Il periodo di isolamento al quale siamo stati costretti ci lascia perlomeno una scia di ispirazione musicale che possiamo cavalcare per rendere tutto un po' meno mortificante, per quanto possibile è ovvio. “Venti” ne è il tipico esempio; Giorgio Canali rimane l’irriducibile rocker che conosciamo e ringraziamo di esistere, sono venti canzoni non solo belle ma serie, ed è un aggettivo non buttato a caso, cui va totalmente filtrato quel senso di vaghezza, “Venti” è un disco serio in un momento in cui c’è un disperato bisogno di serietà nella musica italiana, dove tutto è diventato un fastidiosissimo usa e getta.
40 - Edoardo Bennato – “Non c’è”: Se “Non c’è” rappresenta il grido consapevole di un’intera generazione di cantautori lasciati indietro da un mercato discografico senza alcuna pietà né memoria, né gratitudine, né interesse per il valore artistico, l’omonimo disco ci fa capire cosa essenzialmente questo mercato ci sta oscurando. Bennato ci porta a fare un viaggio nel suo passato di cantautore immenso, folle, sfrontato, talmente sfrontato che non fa nemmeno finta di crogiolarsi nel proprio passato, perché ha altre cose da dire e sono cose che non dice nessuno.
41 - Melancholia – “What You Afraid Of?”: Album d’esordio che è una bomba, niente di meno di quello che ci hanno mostrato nel calderone del talent di Sky, ma forse anche qualcosa in più; forse questo rock così etereo, meravigliosamente disturbante, la poesia del loro disagio, gli spunti creativi elettronici, senza i lustrini dello studio televisivo ne escono addirittura rafforzati. Manuel Agnelli ce l’ha ripetuto tante volte: “Sono pronti”, noi rispondiamo, dopo l’ascolto, che sono anche più che pronti, sono avanti. Ora c’è da capire se il pubblico li abbandonerà quando si accorgerà che non cantano una sola parola in italiano, che non ne hanno la ben che minima intenzione e che la loro musica non è da intrattenimento, ma da club, da ascolto attento e concentrato. Chi se li perde non sa cosa si perde.
42 - Peppe Socks – “Stella del sud”: Il rap in dialetto napoletano è probabilmente la più importante sorpresa di questo 2020. Si tratta di piccole perle di opere hip hop, dimenticatevi quel sapore kitsch del neomelodico, dimenticatevi quelle atmosfere esagerate e irreali di “Gomorra”, quella drammaturgia plastificata in stile ammmericano che diverte fino ad un certo punto. Il rap napoletano rappresenta la maggiore manifestazione possibile dell’urban, dietro ci scorgi l’onestà delle storie, che ti arriva schietta come uno scappellotto sulla nuca. Il rap partenopeo per la prima volta, davvero, riesce a diventare la lingua perfetta per esaltare la difficoltà e bellezza inarrivabile di una città a arte pura. È successo in molti dischi e succede anche in questo “Stella del sud” di Peppe Soks, classe 1997 e la capacità espressiva di un piccolo Caravaggio con la rima al posto del pennello.
43 - Anastasio – “Atto zero”: Non è che da queste parti ci si metta le mani ai capelli per i ragazzi dei talent, ma alle volte la parola stessa “talent” può davvero riprendersi a gomitate la propria postazione, il proprio significato. Perché Anastasio, classe 1997, è bravo davvero, il suo è un rap di concetto, profondo, ispirato, ponderato. “Atto zero” è un ottimo primo passo.
44 - Carl Brave – “Coraggio”: Al momento Carl Brave è certamente uno dei cantautori più moderni dell’intera scena italiana, è venuto a galla come anello di congiunzione tra rap, trap e indie e allo stesso modo si sta facendo largo in questa giungla 2.0 che è diventata la musica. Non serve nemmeno cliccare play al disco, basta semplicemente scorrere la lista dei featuring e accorgersi che alla festa partecipano Elodie, ex “Amici di Maria de Filippi”, i fratelli Sattei (Mara e Tha Supreme), quelli che stanno rivoluzionando la scena rap italiana, e poi ancora Ketama126, Gue Pequeno, Taxi B e Pretty Solero, non uno che c’azzecca niente con l’altro, tutte concezioni totalmente diverse di intendere la nobile arte marziale dell’hip hop. E in mezzo lui, cui presenza, come lo zenzero, non stona mai, che si diverte a zompettare da un lato all’altro delle barricate come Homer Simpson all’entrata dell’ambasciata statunitense in Australia. Dentro “Coraggio” Carl Brave poi ci mette di tutto, dai social al sociale, senza mai scadere nell’inautenticità, senza che mai i pezzi, diciassette in tutto, nonostante siano leggeri, facilmente accessibili, suonino come spot; è tutto leggero ma mai superficiale, è tutto tangibile ma mai ruffiano. Nota di merito per “Spigoli”, “Gemelli”, “Fratellì”, “Buuu!” e “Le guardie”.
45 - Francesco Gabbani – “Viceversa”: Posto che “Viceversa” era la canzone che avrebbe dovuto vincere il festival di Sanremo, l’album omonimo è un disco pop moderno, ottimamente fatto, chirurgicamente preciso. Esprime tutto ciò che è e vale Francesco Gabbani, a sua volta un cantautore pop moderno e preciso nella propria essenza. Il risultato è un disco dalle solide fondamenta, con alcuni brani che spiccano in quanto a brillantezza.
46 - Birthh – “WHOA”: Un’opera italiana buona per il mercato internazionale. Livelllo altissimo, consacrazione di una artista che ci ha già regalato diverse gioie e adesso sboccia in 11 canzoni dalle atmosfere elettroniche e affascinanti.
47 - Vale Lambo – “Come il mare”: Ancora una volta Napoli si prende lo scettro di capitale assoluta del rap, questo anche perché il dialetto partenopeo ne è totalmente la lingua ufficiale. Napoli è il solo luogo che ormai riesce a restituire quelle atmosfere urban che non risultano solo affascinanti ma, soprattutto, più credibili; il rap ha bisogno di Napoli e di autori con un’idea illuminata come quella dei suoi interpreti e Vale Lambo è uno dei principali della scena. Metti play al disco e ascolti semplicemente delle storie, che è qualcosa che, persi in inutili machismi da cortile delle elementari, molti colleghi si sono dimenticati. In “’Nammurat e te” per esempio, firmata in collaborazione con quell’altro geniaccio di Franco Ricciardi, Vale Lambo canta in qualità di donna, una rivoluzione culturale in una fase durante la quale il rap e i suoi interpreti (e parliamo degli interpreti principali) danno libero (e sacrosanto intendiamoci) sfogo della propria pochezza scrivendo delle donne come se fossero trofei di caccia usa e getta.
48 - Bugo – “Cristian Bugatti”: è un vero peccato che il largo pubblico italiano riconosca Bugo solo per quella geniale uscita di scena dal palco dell’Ariston mentre Morgan cantava una versione alternativa del pezzo presentato in gara al Festivàl, perché Bugo, già da moltissimi anni, è un cantautore che vale molto più del gossip, del chiacchiericcio, delle inevitabili e patetiche ospitate nei salotti televisivi a giustificarsi della altrui tracotanza. “Sincero” era un buon pezzo, un buon apripista per presentare il proprio lavoro, finalmente, dopo una gavetta interminabile, all’attenzione di un pubblico più vasto e rilucidare una carriera che rischiava di arenarsi avendo perso quel treno itpop passato dieci anni dopo il suo arrivo in stazione. Non a caso sul disco ci stampa nome e cognome, perché si tratta di una presentazione, di una rinascita, felice, se possiamo aggiungere, perché il disco, al netto di una follia che ha sempre caratterizzato la sua opera che lascia spazio ad una legittima maturità, è pieno di buoni brani, a partire dalla traccia che apre l’album: “Quando impazzirò”.
49 - Marina Rei - “Per essere felici”: Un ritorno importante quello della cantautrice e percussionista romana, un po' perché avviene dopo ben sei anni di silenzio, un po' perché il 2020 corrisponde con i 25 anni dell’omonimo “Marina Rei”, l’album uscito subito dopo la sua primissima partecipazione al Festival di Sanremo con “Al di là di questi anni” che ne decretò il successo nazional popolare sancito poi da altre perle come “Primavera” e “Un inverno da baciare”. “Per essere felici” è composto da otto tracce nelle quali Marina Rei prosegue nel suo percorso autoriale impegnato, serio, giustamente ostinato. 25 anni durante i quali, naturalmente, la musica è cambiata, il mercato musicale ha subito ben più di una variazione e ad oggi si presenta con connotati del tutto diversi e certamente più spigolosi per quanto riguarda chi, come Marina Rei, decide consapevolmente e orgogliosamente di non addomesticare il proprio talento per strizzare l’occhio alle classifiche. In un periodo in cui le voci femminili in Italia, per motivi ancora rimasti pressoché sconosciuti, scarseggiano, “Per essere felici” risulta una boccata d’aria fresca e allo stesso tempo un grido d’allarme per tutto ciò che, distratti da social e tv di flusso, ci stiamo perdendo.
50 - Tedua – “Vita Vera Mixtape”: La trap piace al 90% dei più piccoli ed è odiata dal 90% dei più grandi, il problema non è il genere, è ovvio, odiare un genere a prescindere non ha senso, al limite non lo si ascolta, che mica qualcuno ci punta una pistola alla testa. Il problema è che nella maggior parte dei casi tutto resta troppo in superficie, buttato lì, come se la musica non fosse la fine del percorso, ma un mezzo per arrivare ad altro, e quell’altro, appunto, con l’arte non c’entra niente, ed è una cosa che crea nei più sensibili istinti quasi vandalici. Poi capita che Tedua, t/rapper genovese che ha già alle spalle collaborazioni con i colossi del genere, incide un album ascoltabilissimo, con una logica centrata, strutturato, sensato, che scava più nel profondo non solo per quanto riguarda i testi, che non sono soltanto la solita, noiosissima, ostentazione della propria fortuna, della quale, lo diciamo a scanso di equivoci, non ci frega niente, ma che esplora le potenzialità di un genere che da noi è stato immediatamente bollato e archiviato. Questo perché finora di roba veramente valida ne è uscita poca probabilmente, ma l’impressione in questo senso è che siamo soltanto all’inizio. Ecco, a proposito di inizio, se volete dare una possibilità alla trap “Vita Vera Mixtape” potrebbe essere un’ottima scelta. Bene. Bravo. Bis.