B aglioni propone una versione restaurata del vecchio Baglioni, Ligabue festeggia 30 anni di carriera con i 77 singoli l’hanno caratterizzata e 7 nuovi brani che ce li fanno rimpiangere. L’EP della settimana è certamente quello dei Pinguini Tattici Nucleari che, insieme a Fulminacci che tira fuori l’ennesimo gioiellino dal cilindro, ci ricordano che è lì che ormai dobbiamo ricercare il cantautorato vero. Achille Lauro completa il suo viaggio nel tempo portandoci in un 1920 farlocco, mentre in zona rap Nayt, Peppe Soks e Dargen D’Amico ci fanno fare le capriole mortali dalla gioia con tre album tosti, esuberanti, significativi. Chicca della settimana il disco del bluesman Leandro Diana.
Claudio Baglioni – “In questa storia che è la mia”: Un viaggio nel tempo senza DeLorean quello di Baglioni, che prova a ritrovare e riabbracciare il miglior Baglioni del passato, quindi un po' quello di “Oltre” (uno dei più bei dischi mai incisi nella storia del cantautorato italiano), un pò quello di “Io sono qui” (soprattutto nella struttura del disco impreziosita da interludi al pianoforte), quello insomma dello scorso millennio, quello che non si era ancora accartocciato in una serie inutile e infinita di Best Of dal retrogusto autocelebrativo e dischi di inediti senza alcuno spunto degno di uno degli autori più capaci e preziosi della storia della nostra canzone. Intendiamoci, non è che questa missione nel futuro sia riuscita questo granchè, stiamo ancora parlando di una fotocopia di una fotocopia del Claudio Baglioni che fu, anzi, proseguendo nell’utilizzare la metafora della saga dei McFly, giureremmo che il Baglioni della foto è definitivamente sbiadito. L’ultima cosa degna di nota del cantautore romano d’altra parte è stata incisa oltre 20 anni fa, si intitolava “Viaggiatore sulla coda del tempo”, e sarà proprio il tempo forse a remargli contro, come è naturale che sia; Baglioni, per i più smemorati, non ha cantato solo l’ammmore romantico, ma ogni altro aspetto della nostra vita, con testi appuntiti, sarcastici, magnificamente centrati, di una poesia alle volte quasi inarrivabile (ripetiamo, per i più giovani, andate a riascoltare “Oltre”); l’impressione ad oggi è che manchi appunto quell’energia, che a Baglioni la propria storia, e ci mancherebbe, basti e avanzi, ma a noi no.
Ligabue – “77 singoli +7”: Luciano Ligabue decide di festeggiare i 30 anni di carriera con sette nuovi brani che si accompagnano ai settantasette singoli che hanno caratterizzato questa sua lunga storia. Dei suoi pezzi più famosi inutile scrivere, semplicemente commovente ricordare quanti momenti Ligabue, in un determinato momento della sua carriera, tutta la prima metà di questo trentennio per essere precisi, sia riuscito a bloccare con fotografie incapaci di ingiallire. Ballare sul mondo e urlare contro il cielo restano ancora oggi che siamo grandi e grossi lo sfogo più chirurgicamente preciso che riusciamo ad immaginare. A noi invece ci tocca scrivere di questi nuovi brani che Ligabue forse piazza proprio alla fine dei 7 mini album precedenti per confonderci, per farceli ascoltare dopo una sbronza lunga 77 canzoni. Il problema forse siamo noi che instauriamo con gli artisti rapporti troppo personali, quasi intimi, per cui una delusione rifilata da loro è come quella di un figlio, magari pretenderemmo pure delle scuse, come se l’artista vivesse solo per noi. Ci piacerebbe dunque fare due chiacchiere con Ligabue, senza telecamere, senza registrazioni, due chiacchiere, non un’intervista, tra due persone che si conoscono da tempo e si vogliono bene. Ci piacerebbe mettergli la mano sulla spalla e chiedergli: “Che succede, amico?”.
Pinguini Tattici Nucleari – “Ahia!”: Bella la musica eh…niente da dire, ci scava nel profondo, ci aiuta nei momenti difficili, ci presta le parole quando ci finiscono o, semplicemente, non le abbiamo. Ma la musica è anche un lavoro, è anche oggetto di un mercato cinico, come lo sono tutti i mercati, non-luoghi dove l’importante, parliamoci chiaro, è vendere. Il mercato della musica poi è un mercato molto particolare, basato sulla creatività, quindi qualcosa di intangibile, e anche, ahinoi, sulla moda; un certo modo di fare musica può valere oggi 100 e domani, letteralmente domani, 0; è per questo che ciclicamente dobbiamo fare i conti con tormentoni estivi, reggaeton, trap, canzoncine cantate da ragazzini bellocci senza cognome sfornati dai talent, pop melodico sudamericano e qualsiasi altra follia il largo pubblico decida ad un certo punto e senza alcun motivo logico debba far circolare con ossessionante regolarità. Quella non è musica, quello è mercato applicato alla musica, quel mercato che spreme come un limone poveri malcapitati e futuri depressi, finchè non sono buoni da sbolognare a Grandi Fratelli Vip e Isole dei famosi. Che c’entra tutto questo con i Pinguini Tattici Nucleari?
Nulla, appunto, ma era necessaria questa premessa proprio per premiare il coraggio di una band che si ritrova tra le mani un prodotto che funziona benissimo in quel suddetto mercato, un prodotto, per intenderci, da terzo posto a Sanremo, un prodotto che già sanno quindi vendersi con estrema facilità e che è anche, bontà loro, un prodotto di ottima fattura; ma decide di prenderlo e metterlo da parte, per proporre al proprio pubblico, quintuplicato dopo l’exploit del festival di meno di un anno fa, qualcosa di estremamente diverso. In “Ahia!” i Pinguini si divertono con sonorità nuove, sparigliano le carte spiazzando anche parte del loro pubblico di aficionados, mettendo però tutti d’accordo sul fatto che questi Pinguini siano in formissima, in costante crescita, “Ahia!” è un EP senza buchi, sette brani tutti belli, alcuni veramente molto molto belli (“Bohemien” e “Pastello bianco” forse su tutti, ma son gusti). I Pinguini possono declinarsi in tutti i generi e forme e sonorità che desiderano, continueranno comunque a funzionare, perché riescono a non farsi cullare dal proprio prezioso talento, riescono a mantenerne viva la fiamma senza rinunciare alla curiosità di ascoltare e prendere il meglio da tutto ciò che ascoltano, senza crogiolarsi nel proprio successo e portando a casa un grande lavoro. Per tutti quelli che pensavano che “Ringo Starr” fosse un punto di arrivo, non c’avete capito niente.
Fulminacci – “Un fatto tuo personale”: Non dovrebbe più stupirci il fatto che Fulminacci esca con un brano eccezionale, poi però uno guarda indietro a quello che ha fatto finora il cantautore romano e la mascella comincia a cascare. No, non vogliamo abbandonarci all’idea, in un ambiente musicale che sbrilluccica solo ad intermittenze sfocate, che sia “normale” per un ragazzo di 23 anni non sbagliare mai un pezzo, riuscire a prendere in mano sprazzi del nostro miglior cantautorato (Dalla e Silvestri su tutti) per portarlo ai nostri giorni, con sonorità moderne, testi dalla struttura inattaccabile, poesia, personalità, profondità, no, faremmo un torto a noi prima che a lui, e poi alla musica in generale, perché quando la proposta è così eccellente va sottolineato, evidenziato, diffuso, affinché non ci sia neanche il rischio che si confonda nel circuito delle cose “buone”, perché Fulminacci non fa buona musica, Fulminacci ci ricorda che c’è ancora speranza.
Achille Lauro – “1920”: Ultimo atto della trilogia del viaggio nel tempo musicale per il performer romano Achille Lauro, un EP di otto canzoni che, sia chiaro, col 1920 non c’azzeccano niente, l’annata è presa giusto come un riferimento culturale generico, u mood, una metafora. Lo stesso Lauro lo definisce un “side project”, cioè un progetto “laterale”, una prova, uno sfizio che si è voluto togliere, ce ne saremmo accorti da soli se nel frattempo avessimo ben capito qual è il “central project”, ovvero cosa fa esattamente lui, cosa vuole dirci, cosa c’è dentro questo pacco incartato a regola d’arte. No perché ancora non si è capito, perché stiamo ancora lì a scartare e scartare e scartare ma comincia a sembrarci uno scherzo di pessimo gusto. Intendiamoci, l’album è divertente da ascoltare, forse è anche la cosa più divertente messa in commercio finora dal David Bowie del suo palazzo, ma non abbiamo ancora capito di cosa stiamo parlando. Sentiamo solo monologhi supponenti alternati a citazioni a caso di grandi marchi e quell’odioso “ra-ppa-ppa-ppà”, tipico degli anni ’20 tra l’altro, no?
Boro Boro feat. Fred De Palma – “Obsesionada”: Credo che l’intento fosse mettere insieme la trap e il reggaeton, il che già per quanto ci riguarda meriterebbe l’ergastolo; quello che ne viene fuori è più che altro una marmellata di niente.
Ariete – “18 anni”: La giovane Arianna Del Giaccio non parla a noi, questo è chiaro, ma capiamo il motivo per cui tanta di quella gente alla quale parla si sta affezionando al suo progetto. La voce è ipnotizzante, il sound contemporaneo, dice delle cose e le dice bene, alle volte ci incaponiamo dietro a concetti extraterrestri quando per far funzionare una cosa (farla funzionare alla grande in questo caso) basta avere talento, cuore e orecchio, trovare la matrice giusta per declinare i pensieri in musica, Ariete lo fa che meglio non è possibile. È quel genere di artista di valore che parla ad un pubblico che ancora non ha i mezzi per capire cosa ha valore e cosa non ne ha, per distinguere gli artisti dai bluff. Ariete è una vera artista.
Melancholia – “What You Afraid Of?”: Non vedevamo l’ora che le telecamere di X-Factor si spegnessero (per loro) per recensire i Melancholia per quello che sono: musicisti. Il loro album d’esordio è una bomba, niente di meno di quello che ci hanno mostrato nel calderone del talent di Sky, ma forse anche qualcosa in più; forse questo rock così etereo, meravigliosamente disturbante, la poesia del loro disagio, gli spunti creativi elettronici, senza i lustrini dello studio televisivo ne escono addirittura rafforzati. Manuel Agnelli ce l’ha ripetuto tante volte: “Sono pronti”, noi rispondiamo, dopo l’ascolto, che sono anche più che pronti, sono avanti. Ora c’è da capire se il pubblico li abbandonerà quando si accorgerà che non cantano una sola parola in italiano, che non ne hanno la ben che minima intenzione e che la loro musica non è da intrattenimento, ma da club, da ascolto attento e concentrato. Chi se li perde non sa cosa si perde.
Peppe Socks – “Stella del sud”: Il rap in dialetto napoletano è probabilmente la più importante sorpresa di questo 2020. Si tratta di piccole perle di opere hip hop, dimenticatevi quel sapore kitsch del neomelodico, dimenticatevi quelle atmosfere esagerate e irreali di “Gomorra”, quella drammaturgia plastificata in stile ammmericano che diverte fino ad un certo punto. Il rap napoletano rappresenta la maggiore manifestazione possibile dell’urban, dietro ci scorgi l’onestà delle storie, che ti arriva schietta come uno scappellotto sulla nuca. Il rap partenopeo per la prima volta, davvero, riesce a diventare la lingua perfetta per esaltare la difficoltà e bellezza inarrivabile di una città a arte pura. È successo in molti dischi e succede anche in questo “Stella del sud” di Peppe Soks, classe 1997 e la capacità espressiva di un piccolo Caravaggio con la rima al posto del pennello.
Dargen D’Amico – “Bir Tawil”: Dargen D’Amico, in una scena che punta a rivendere sempre lo stesso prodotto in maniera industriale, rappresenta una stupenda eccezione. In un mondo in cui ci si scanna per 10 centimetri di muro con i vicini, Bir Tawil è un luogo al confine tra Egitto e Sudan che nessuna nazione reclama, che nessuno vuole. Senza entrare nel merito dei fatti storici, noi troviamo che sia una magnifica metafora trovata da Dargen D’Amico per rappresentarsi, non che non lo voglia nessuno, anzi, c’ha un curriculum che la metà basterebbe, ma è un luogo altro del rap, un disco di Dargen D’Amico, compreso quest’ultimo naturalmente, non ha niente a che vedere con nessun’altro disco rap italiano che potrete trovare. Il suo è un rap intellettuale, che punta dritto dritto al contenuto, non con la giusta lentezza e precisione di un chirurgo ma come uno che vuole raggiungere l’acqua buttandosi da una scogliera che bacia il cielo. Sono brani pieni di guizzi, di tricks di parole e di concetti. Imperdibile.
Reverendo – “Uno”: Reverendo abbandona la matrice MC per buttarsi in un progetto, a sette anni dall’ultimo, interessante. L’idea è quella di sfruttare alcune metriche del rap per inserirle in sonorità blues all’inseguimento di un Fausto Leali dal retrogusto intellettuale. Capiamo di aver appena descritto una realtà discretamente distopica ma più o meno si tratta di questo. Reverendo si inventa una trama geniale, poi sul risultato si può discutere, ok, ma il coraggio è apprezzabilissimo, come il featuring con J-AX e, soprattutto, con il mitico Francesco Di Bella, che abbiamo amato e ancora amiamo per quel miracolo musicale avanguardistico dei 24 Grana.
Nayt – “Mood”: Sto ragazzo rappa come un treno che non va da nessuna parte, che corre corre corre sui suoi binari e tu resti imbambolato dalle rime, ti senti schiaffeggiato dalle parole, come sotto una pioggia di concetti e beat coinvolgenti. Poi frena sul finale con una ballad dal titolo “Nuvole” che ti accarezza le orecchie. Wow.
Leandro Diana – “Dirty Hands And Gravel Roads”: State guidando la vostra macchina, è notte, le strade sono vuote, siete pensierosi, non importa se per qualcosa andata male o andata bene nella vostra vita; magari la donna vi ha lasciati, magari vi ha comunicato che un estraneo tra nove mesi verrà a vivere da voi, o siete stufi del vostro capo o il vostro capo vi ha promosso e nel vostro futuro intravedete nuove responsabilità, meno tempo libero, solo con più soldi per comprare album che non avrete nemmeno il tempo di ascoltare. L’impulso allora è quello di non prendere la traversa che porta a casa, di tirare dritto, di scoprire finalmente la strada dove vivete dove porta, e dove porta quella dopo e quella dopo ancora. Ecco, nella nostra visione delle cose un certo tipo di musica che richiama al blues, al soul, alle ramificazioni più rock del country, serve a questo, a darci quella spinta ad andare oltre, ad accompagnarci nei momenti topici, quelli dove abbiamo bisogno di ascoltare la nostra anima più delle parole degli altri, seppur belle parole e messe insieme con un certo senso. Nella nostra visione quel tipo di musica, semplicemente, serve, come quegli amici che stanno seduti con noi al bancone del bar e stanno zitti, cui solo e unico scopo e non farci sentire soli nei nostri pensieri. Leandro Diana fa esattamente quella musica, che è una musica che non vedrete mai in classifica, che in una gara di velocità corre nella direzione sbagliata, e lo fa nel paese in cui, a parte una dozzina di addetti ai lavori (nemmeno questi delle cinture nere da classifica), non è né capita e nemmeno considerata. Eppure c’è, per fortuna, e Leandro Diana la fa bene, tirandoci per le orecchie in un viaggio che ci porta nel sud degli Stati Uniti, in quelle atmosfere autentiche fatte di “mani sporche e strade sterrate”, giusto per citarlo. Mi raccomando, fatevi qualche foto ricordo, perché la realtà discografica attuale è tutta un’altra cosa, ma godetevela e tornateci, che ne vale la pena.