C i si aspettava il record e il record è arrivato puntuale: “Famoso” di Sfera Ebbasta, con oltre 16 milioni di stream, è l’album italiano che ha incassato più ascolti nelle prime 24 ore su Spotify. Considerando però che Sfera Ebbasta e Spotify sono quasi coetanei, quindi lo storico dei record è ancora poverello, e che il re della trap, così come si autodefinisce forte dei propri numeri stratosferici, aveva già rotto certe barriere matematiche con il precedente “Rockstar”, non siamo esattamente assistendo ad un miracolo discografico.
Si sta solo concretizzando pari pari il piano che il ragazzo di Cinisello Balsamo ha in mente da quando si è reso conto dell’enorme riscontro di pubblico ottenuto dalla propria musica, o meglio, dalla propria storia, dalla propria trama. Mentre scriviamo i dodici brani che compongono “Famoso” occupano tutte le prime dodici posizioni della classifica di Spotify. Ma anche questa non vale granché come notizia: Spotify è la piattaforma più ascoltata dagli amanti del genere urban e derivati, solo un paio di settimane fa la stessa identica cosa è successa con il mixtape di Gemitaiz “Quello che vi consiglio”, che è riuscito ad occupare diciotto delle prime diciannove posizioni.
Solitamente, poi, funziona così: il pubblico ascolta e sceglie quali sono i brani preferiti e quelli restano in top ten per qualche mese. Ma forse è proprio in questo punto che entra in gioco l’algoritmo architettato da Sfera Ebbasta che, come spiega apertamente nel documentario disponibile su Amazon Prime Video che ha anticipato l’uscita del disco, a questo giro punta al mercato globale. Può riuscirci? Certamente. Questo non solo perché accompagnato da un produttore straordinario come Charlie Charles, che è la sua vera forza ed è uno di quei producer che sta contribuendo in maniera decisiva ad una rivoluzione e modernizzazione ed internazionalizzazione del sound del nostro pop, ma anche perché quei limiti, abbastanza evidenti in termini di contenuti, che non permettono e mai permetteranno a Sfera Ebbasta di sfondare il recinto del target che va dalla pre adolescenza all’adolescenza, si diluiscono nel calderone delle lingue, per cui a venir fuori è solo un suono assolutamente in linea con quelli che sono i parametri internazionali.
Ma queste sono dinamiche artistiche che non basterebbero comunque a far girare il proprio nome nei salotti della trap che conta. Serve qualcosa di diverso, servono le collaborazioni, cavalli di Troia che aprano le porte del mercato estero. Sfera le trova, anche questo nel film dedicato alla sua storia è documentato, riesce a coinvolgere per “Famoso” artisti del calibro di J Balvin, re assoluto del pop/reggaeton, forse in questo momento il cantante più cliccato del pianeta; di Future, considerato il nuovo vate del rap a stelle e strisce; fino a Lil Mosey, fenomeno classe 2002 da 18 milioni di stream mensili, e il genio Steve Aoki, dj e producer americano di origini giapponesi, il più importante intellettuale del genere house, che ha preso e rimodellato a propria immagine e somiglianza riscrivendone di fatto le regole e servendolo al mondo intero su un piatto d’argento.
Ed è proprio Aoki che nel documentario, forse senza volerlo, ci svela l’arcano mistero; lui non dice che Sfera Ebbasta è bravo e vuole lavorare con lui, lui dice “Ho visto i numeri e voglio farne parte”. Sfera Ebbasta riesce in maniera straordinaria a trascinare tutti dentro la propria storia che viene venduta come quella di chi ha un sogno nel cassetto e dalla propria piccola Cinisello Balsamo, che tra l’altro nei giorni scorsi gli ha dedicato una piazza (solo per qualche settimana), riesce ad arrivare negli Stati Uniti, su quegli schermi di Times Square dove nessun cantante italiano prima di lui era riuscito a comparire, l’ombelico del mondo della pubblicità. E contemporaneamente nelle piazze di tante altre città europee, comprese le capitali della musica globale nel vecchio continente Londra e Berlino.
Non importa se a New York, comprensibilmente, in tanti si staranno chiedendo chi sia quel ragazzo sugli schermi dalla chioma violacea e la testa rasata e tatuata: Amazon Music lo ha piazzato lì, J Balvin canta con lui, dev’essere forte per forza. Sfera Ebbasta arriverà al mondo intero, questo ormai è certo, e ci arriverà non portando sulle spalle la bandiera italiana come fatto da Andrea Bocelli, Eros Ramazzotti o Laura Pausini, forti della rappresentanza di una determinata cultura, di un pop (anche nel caso di Bocelli, soprattutto nel caso di Bocelli) facilmente fruibile anche ad un pubblico estero, di un’italianità talmente sfrontata da essere quasi “rifiutata” in patria.
Sfera Ebbasta metterà la propria musica accanto a quella degli americani, di chi tra l’altro questa benedetta trap se l’è inventata, gareggiando alla pari, come uno di loro. E se lo sarà meritato, per aver capito prima e meglio di tutti come il meccanismo della pubblicità, dove prima ancora del prodotto viene messo in vendita uno stile di vita, può essere efficacemente applicato alla discografia.
Il sogno di cui parliamo infatti non è quello di alimentare quel fuoco che brucia nel cuore e nello stomaco di un artista, di una persona che ha qualcosa di essenziale da dire, qualcosa troppo più grande di lui per restare rinchiusa dentro i confini dell’anatomia umana. No, il sogno è diventare, appunto, famoso, il più famoso, sapendo che l’essere famoso porta soldi e donne, simboli del successo che, proprio in virtù di questo, possono essere sperperati e trattati con deplorevole sufficienza. E per farlo, per raggiungere quell’obiettivo, ha bisogno di una notevole quantità di pubblico, di persone che lo supportino e credano in lui, non in quello che dice, nel suo valore, ma proprio in lui, che credano che lui sia effettivamente un artista. Nella maggior parte dei casi minorenni, spesso molto minorenni, ragazzini che fanno numero ma che non hanno la minima idea di cosa sia un artista, né cosa faccia per vivere un artista.
Sfera Ebbasta, a scanso di equivoci, non è un artista, perché anche il numero con più zeri del mondo non fa necessariamente di te un artista, lo share non ti trasforma in Mozart, né in Bob Dylan, ma nemmeno in Nino D’Angelo; Sfera Ebbasta sa atteggiarsi come un artista, sa vivere e comunicare perfettamente l’utopia 2.0 di un’intera generazione, sa regalare l’illusione (di questi tempi pericolosamente reale) che ad oggi si può riuscire a diventare ricchi e famosi con la musica senza saper fare musica.
Gionata Boschetti infatti, come si evince chiaramente dalle riprese del suddetto documentario, senza l’ausilio dell’autotune, non azzecca una sola nota del pentagramma, anzi, la sua voce risulta anche piuttosto sgraziata; non affronta alcun tema sociale, politica, diritti dei lavoratori, violenza su donne, uomini, bambini, animali, neri, gialli, rossi, biondi, pelati, niente, il nulla assoluto; nessuna capriola mortale stilistica, nessuna introspezione, nessuna illuminazione, niente che stimoli il ragionamento, niente che punti ad arrivare nelle orecchie di qualcuno per renderlo alla fine del brano una persona più ricca di quella che era tre minuti prima (perché a quattro minuti di brano, in quattro dischi, ci è arrivato solo tre volte).
Parla tanto di soldi e donne con le quali va a letto, wow, niente che non abbiamo già sentito, in una versione decisamente più cool e rock, da leggende che, comunque, nel frattempo, trovavano anche il tempo di fare della musica immortale, rigenerante, significativa; personaggi che erano leggende in quanto musicisti, non musicisti in quanto leggende, nella musica se cambi l’ordine degli addendi il risultato cambia eccome.