L ’evoluzione musicale di Ghemon ha incuriosito ed entusiasmato per anni tutti gli appassionati di musica del nostro paese. Questo perché che il rap non fosse esattamente il luogo a lui più consono si capiva da tempo, il fascino veniva stimolato dalla sua capacità, però, di farlo maledettamente bene. È per questo forse che Giovanni Luca Picariello, questo il suo vero nome all’anagrafe, nato ad Avellino nel 1982, è riuscito ad abbracciare e a fare affezionare una fetta di pubblico enorme.
Forse tutto ciò dipende anche dal suo atteggiamento, da quel modo di porsi mettendo sempre avanti la musica, lasciando a casa atteggiamenti da bulletto o da imperatore dello stile. Oggi però Ghemon con “Scritto nelle stelle”, il suo ultimo album, trova finalmente se stesso, produce senza riserve, senza nascondersi, un ottimo disco che viaggia su un sound che verte evidentemente verso il contemporary R&B, un genere praticamente inedito in Italia.
Ormai sei un’artista R&B, questa cosa nel disco è abbastanza esplicita, abbastanza dichiarata, no?
“Si è abbastanza dichiarata che sia quella, anche se, essendo un termine anglofono, sembrava un sacrilegio dirlo in italiano; poi l’hip hop fa ancora parte di me, non è una cosa che abbandono, è un linguaggio che mantengo e ogni tanto spunta fuori”
Era comunque un appuntamento che tu sembra volerci svelare fosse appunto “Scritto nelle stelle”…E a che punto del tuo percorso ti trova?
“Un punto in cui ho maggiore consapevolezza sia dei punti forti che dei punti deboli, un sacco di soluzioni suggerite dalle esperienze precedenti, sia quelle felici che quelle sbagliate, ma soprattutto arriva in un punto di crescita, sia artistica che umana, in cui decidi di abbracciare quello che sei, cerchi di non inventarti più chissà quale personaggio, di trovare scorciatoie, ma punti su quello che sei al 100%”
Quando hai incontrato per la prima volta l’R&B? Che è un genere poco frequentato in Italia…
“Ero ancora al liceo quando mi sono imbattuto nelle prime cose di R&B, che mi hanno subito preso. Era strambo che io me le ascoltassi, anche per i miei amici che ascoltavano rap, e ai tempi o ascoltavi rap o ascoltavi rap, all’epoca c’erano dei confini ben delimitati e le due cose non si dovevano toccare. Il rap però mi ha dato una struttura ritmica che mi è tornata utile. C’è da dire che inizialmente non pensavo neanche fosse un modo con il quale avrei potuto esprimermi, in più in italiano non ce n’erano di esempi, quindi era tutto da inventarselo. Col tempo invece questa necessità si faceva sempre più largo, c’era una parte di me che non stavo esprimendo, e poi si è presa il suo spazio, che è diventato sempre maggiore, però lasciando al rap la possibilità di essere un mio mezzo di espressione, anche perché non avrei potuto scrivere le altre cose melodiche senza essere passato per il rap, è quasi un rap cantato per certi versi, in effetti le due cose si mescolano. È un’esigenza molto vecchia”
E come mai hai scelto proprio questo periodo per l’uscita? Immagino avresti potuto rinviarla…
“Perché sono uno che sceglie di scegliere sempre. Poi l’attimo era questo. C’è stato un primo pensiero iniziale di spostare molto più avanti, perché un lavoro non basta semplicemente pubblicarlo sui canali di streaming, poi va portato alle persone. Ma ho pensato che c’avevo qualcosa da dire, poi la pressione dei fan era molto forte, mi dicevano ‘non ti sognare di farlo uscire più avanti perché noi ne abbiamo veramente bisogno’, allora ho capito che la musica è tutt’altro che effimera, è una gran bella compagnia anche in momenti come questi”
Ecco, questo è un po' il paradosso del momento, la musica è forse la cosa che più di tutte è stata accanto a chi affrontava la quarantena, eppure, più in generale lo spettacolo, sarà l’ultimo comparto del sistema economico a ripartire. Tu cosa ne pensi?
“Mi aspetto una discussione un pochino più concreta ad alti livelli, non solo chiacchiere, non solo promesse, non solo ‘faremo’. Si sentono un sacco di prese di coscienza sul dover fare ma fatti ancora pochi. È capitato di sentirlo paragonare al settore del turismo, quello della musica, non viene però preso alla stessa maniera, la musica non viene considerata un bene essenziale come può essere il cibo, i servizi medici alla persona, ma in realtà porta benessere, è la vacanza che tu ti puoi fare a casa tua per qualche ora, un viaggio che tu ti puoi fare stando fermo sul tuo divano, e migliora e aiuta, allo stesso modo di una vacanza. Non puoi magari paragonare una vacanza alla necessità di mangiare, però in realtà tutti hanno bisogno di una vacanza. A pillole la musica, ma lo spettacolo in generale, è la stessa cosa e quindi c’è bisogno sul serio, concretamente, a livello istituzionale, di considerare questo comparto che fa tantissimo, che genera lavoro per un sacco di persone”
Questa è una situazione che potrebbe anche, forse per la prima volta davvero, far luce sulla figura dell’artista…
“Passa spesso l’idea che il musicista sia un bohemien, un vip privilegiato, mentre dietro ci sono tutte le necessità, tutti gli obblighi, tutte le scadenze di un lavoro imprenditoriale. Sudore, fatica, percorso, squadre di lavoro con a volte due, a volte dieci, a volte trenta persone che lavorano e che in questo momento non stanno lavorando, quindi mi auguro che si apra prima di subito questa discussione”.