N on c’è una canzone nel nuovo disco di Dimartino che si intitola “Afrodite”, ma il disco si chiama lo stesso così, come la dea della bellezza si, ma anche della navigazione. Potremmo dire forse anche del passaggio allora, e “Afrodite” allora in questo caso calza a pennello come titolo, perché se si diminuisce lo zoom e si osserva l’album un po' più da lontano, si potrebbe quasi vederlo galleggiare verso l’orizzonte, come l’inizio o la prosecuzione di un viaggio, e la cosa bella di un viaggio, si sa, è non sapere mai esattamente cosa capiterà. E “Afrodite” è così, imprevedibile.
Clicchi play sul primo singolo uscito “Cuoreintero” e ti aspetti che Antonio Dimartino, cantautore siciliano dal talento cristallino, onesto, puro, prosegua ancora sulla scia dei suoi bellissimi album d’esordio, ti aspetti di trovarci dentro “Amore sociale”, “Maledetto autunno”, “I Calendari” o “Case stregate”, e riguardo l’ultima ci speri davvero essendo una delle più belle canzoni scritte nella nostra lingua; e invece no, il primo singolo ti lascia spiazzato, c’è qualcosa in quel sound di molto più nuovo, contemporaneo, come se qualcuno abbia preso la poetica inimitabile di Dimartino e l’abbia trascinata per la coda altrove, qui, adesso, in un universo discografico, perché no, da classifica, come se il cantautore abbia deciso di allargare il proprio spazio vitale, aprire la porta e far morbidamente entrare nella sua logica musicale un pubblico più ampio.
Si sente insomma la mano del nuovo producer Matteo Cantaluppi, la stessa al quale si deve il successo di altri progetti, uno su tutti quello TheGiornalisti. Poi un altro singolo, “Feste comandate” e un altro ancora “Giorni buoni”, nel frattempo si analizzano i primi responsi del pubblico, di chi è già fan e di chi non sapeva della sua esistenza, e si scopre che piace, indiscutibilmente, a tutti, forse anche più del Dimartino più di nicchia, più cantautorale. E quando esce “Afrodite” tutti i puntini sono ricollegati, non ce ne siamo accorti, ma la dea ci ha già portati altrove, così com’è giusto che faccia un artista, che varia e modifica se stesso e la sua arte, che non può ma deve avere una vita lunatica, seminare la propria imprevedibilità per restare interessante.
Ma cosa c’è di nuovo in questo Dimartino?
“Nel mio modo di fare musica di nuovo quasi nulla, di nuovo ci sono le esperienze che mi hanno arricchito. Questi quattro anni di vita, tra viaggi e persone conosciute. Sicuramente questo è un album che ha delle sonorità diverse, dovute ad un diverso approccio alla produzione. Quindi è un disco molto più curato sia nei suoni che nella scelta degli arrangiamenti, dovuto al fatto che volevo che le mie canzoni avessero quasi un’altra possibilità. Siccome c’erano delle canzoni, da un punto di vista testuale, molto intime, ho sentito il bisogno di metterci qualcosa che le potesse fare diventare un po' più frizzanti, esuberanti, fosforescenti. Perché se avessi registrato un disco di canzoni intime, con testi intimi, con una musica pacata, non sarebbe avvenuto un corto circuito, che alla fine era quello che cercavo, un corto circuito tra le cose che avevo da dire, che erano delicate, e una musica che fosse un po' più maleducata”
Corto circuito avvenuto, tant’è che poi nel live le canzoni esplodono…
“Alcuni pezzi come Pesce d’aprile o La luna e il bingo, erano stati pensati durante la produzione per suonarli dal vivo. Ci mancava nel nostro concerto qualche pezzo che avesse quel tipo di mood. La dimensione live per me è sempre stata una dimensione di riscatto, dal vivo mi piace riscattare quello che nel disco non esce fuori, la carnalità delle canzoni. Diffido molto dagli artisti che nei live non mi stupiscono, perché penso che sia la vera dimensione della musica, è quello il senso reale del fare musica. Il prodotto discografico è una cosa che nella vita dell’uomo è arrivata in un secondo momento, il sapore dell’esibizione invece mi fa giudicare un artista in maniera più consapevole.”
La prima parte del tour è finita, puoi cominciare a tirare le somme, come hai ritrovato il tuo pubblico?
“Da quando faccio i dischi non mi era capitato spesso di riempire i locali anche in posti molto lontani da casa mia, per cui diciamo che la prima impressione è quella di trovare un pubblico più numeroso. Poi ho trovato un pubblico di gente che mi seguiva prima e che continua a venire ai concerti, magari con i figli, un pubblico che è cresciuto con me. Quindi da un lato è bello aver visto un pubblico nuovo, dall’altro è bello anche incontrare persone cambiate, questa è una cosa molto bella per chi fa questo mestiere, vedere il cambiamento non solo su di sé ma anche sugli altri. È come se il cambiamento che ho avuto anch’io per questo disco l’ho riscontrato in qualche modo anche sugli altri”.
Il tuo cambiamento è evidente come è evidente il fatto che il pubblico abbia reagito in maniera del tutto positiva a questo cambiamento, forse perché nonostante un sound meno intimista tu comunque sei rimasto te stesso, rispetto a ciò che dici, come lo dici e come poi lo metti in musica...
“In questo momento discografico è sicuramente una cosa fondamentale avere una propria poetica, un proprio linguaggio, cercare di avere più che altro la voglia di non confondersi con gli altri. Se non lo si vuole fare a livello personale, lo si deve fare almeno per la carriera, perché adesso è facile non distinguersi quindi è fondamentale per un artista oggi avere una propria cifra. Lo vedo con tanti gruppi che alla fine sono sopravvissuti agli anni, penso agli Afterhours, tutta la scena anni ’90 è sopravvissuta perché ognuno aveva un proprio linguaggio, un pubblico a cui si riferiva ben determinato, per cui io ci credo molto che ognuno ha bisogno di coltivare la propria cifra”
La musica, anche se diventata estremamente più “democratica”, più aperta a chiunque abbia voglia di dire qualcosa, anche quando quel qualcosa è un’idiozia, o c’è un’evidente incapacità comunicativa o artistica, è certamente oggi più “facile”. Il mercato ha aperto talmente tanto le braccia, accogliendo festoso chiunque si presentasse alla porta con un mucchietto di like in mano, che è molto facile, anche giusto per portare a casa la pagnotta, desistere dalla ricerca interiore e musicale, tentare di offrire qualcosa di nuovo mentre tutto intorno, tra radio e playlist di Spotify, il suono “che va” è sempre lo stesso; e mettersi così sulla scia, adagiarsi sul già sentito, che tanto il già sentito qualcuno che lo sente di nuovo lo trova sempre. Molto più complesso invece sperimentare, essere in grado di farlo, avere quell’onestà e quella necessità artistica di doverlo fare e trovare qualcuno che sappia apprezzarlo e ti venga a sentire. In questo Dimartino con “Afrodite” ha compiuto il suo miracolo, o forse semplicemente la sua naturale maturazione.